Cosa rende la Storia così attraente? Certo, a tutti sarà capitato di incontrare chi, al contrario, non sopporta sentir parlare di date e di eventi, ma questi non sono altro che la punta di un enorme iceberg. La Storia è indubbiamente altro. Le ragioni che spingono al suo studio possono essere le più svariate, eppure, devo ammettere che il mio avvicinamento puberale alla disciplina è stato dettato soprattutto dall’imprescindibile mutabilità della stessa. La Storia non è statica. E, per tale ragione, mi piace immaginarla come un fiume in piena (da cui le mie origini polesane), dove nuovi alvei si formano, altri seccano e nuove isole nascono. Tuttavia, non si tratta di un flusso del tutto incontrollato. Esistono degli argini: il tentativo antropico di controllare questo moto, di dargli una direzione, un orientamento.
Allo stesso modo, i personaggi illustri della storia sono soggetti alle oscillazioni interpretative, innalzati a idoli o rigettati in una profonda damnatio memoriae. È naturale: ogni epoca avrà i suoi paladini e i suoi mostri sotto al letto. Ma queste oscure ombre talvolta riemergono, trascinate a forza per farne opportuno uso politico. Così, il paladino è cacciato, spogliato del suo trono e del suo valore di orgoglio, mentre ci si accorge che quel mostro – il reietto – in verità, non incuteva così paura. Non credo sia possibile opporsi a tale mutamento tout court. Fa parte dello stato delle cose. Credo, tuttavia, che spetti allo storico il compito di preservare la memoria dalla menzogna, consapevole della mutazione dei valori e capace di discernere in una fonte documentaria le sue finalità dichiarate dalla presenza di elementi incontrollati e dichiarazioni non esplicite.
Pertanto, adottare una dose sana di scetticismo non dev’essere una delegittimazione della disciplina storica in quanto mera narrazione – una favoletta da raccontare – ma significa essere consci del rapporto ambivalente e traballante tra verità e finzione, del fatto che dalla finzione è possibile trarre discorsi veri e agire per mantenere aperto uno spazio di riconsiderazione, contro narrazioni dogmatiche e fisse. Oggi, in seguito alla rivoluzione storiografica e ai processi di decolonizzazione (intendiamoci, spesso di sola facciata) della seconda metà del Novecento, lo storico si ritrova dinanzi all’immenso compito di rivalutare quanto ci è stato tramandato da una disciplina storica ottocentesca ancella dei nazionalismi e dell’eurocentrismo. Molti, troppi, sono stati esclusi da questo racconto, rigettati sotto tappeti e rinchiusi in armadi dall’odore di naftalina. Sono la scuola di Storia Globale e i subaltern and post-colonial studies a tentare di dischiudere una realtà ignorata, di riabilitare quanti hanno subito vessazione e di ripagare un debito che, nella sua enorme portata, richiederà ancora molto, molto lavoro. Ma ciò non costituisce solamente il tentativo di perseguire una narrazione storica più completa, più realistica o, si presume, veritiera. Si assiste, invece, alla traduzione in pratica storica dei nuovi approdi politici.
Ma veniamo al dunque: il continente africano fu, più di tutti, danneggiato dalla narrazione teleologica imperialista, prescritta in pillole giornaliere non solo agli europei, ma agli africani stessi, affinché interiorizzassero un costrutto d’inferiorità e concordassero nella necessità della colonizzazione. Naturalmente, quale diretta conseguenza di questa scellerata ricerca di giustificazione, fu necessario apportare radicali mutazioni narrativa: la manipolazione della Storia. Ne consegue che tali trattazioni storiche appaiono (oggi, ai nostri occhi e dinanzi all’evidenza dei fatti riconsiderati) deliberatamente mirate ad occultare l’esistenza di una ricca storia africana, costituendosi, al contrario, come una faziosa storia di europei in Africa, intenzionata a erodere la memoria del continente, corromperla, disgregarla. Facciamo un esempio e pensiamo ora ad un caso piuttosto celebre: il personaggio della regina di Ndongo-Matamba Njinga Mbande (1583-1663). Per quale ragione? Perché della sua persona si è detto e scritto di tutto (pure Netflix ci ha dedicato una serie), e da diabolica idolatra, aberrante mostro e perfetto contrario della “civiltà europea” (in questo luogo ci interesserà determinarne l’uso politico esercitato da tali categorie), è divenuta motivo di orgoglio nazionale angolano e patrona della nazione. Ma prima di procedere a tracciare questo breve (lo è?) riepilogo delle distorsioni e manipolazioni subite dalla sua figura, dirò il giusto necessario per inquadrarne il contesto; dunque, della ragione per cui di lei si scrisse e si disse molto.
MANIPOLARE
Giunta nel 1624 al trono del regno di Ndongo – regione storica attualmente locata in Angola, il cui nome è dovuto proprio al titolo di Ngola, sovrano di Ndongo – dovette subito fare i conti con l’emergenza della piovra coloniale e nella sua sottospecie lusitana. Per tutta la sua vita dovette respingere l’aggressione portoghese, ma, dinanzi ad oculate scelte di tipo politico-religioso (sarebbe erroneo considerare queste due sfere quali compartimenti stagni), riuscì nel preservare l’autonomia del regno. A tal fine, fu assolutamente necessario slegare il regno dal monopolio commerciale e diplomatico lusitano, costudito gelosamente dalla unificata corona iberica asburgica prima e di Braganza poi. Njinga, inserendo il proprio regno nel contesto globale della guerra dei Trent’Anni (1618-48), trovò come proprio (ma effimero) alleato le emergenti Province Unite e la loro apparentemente inarrestabile compagnia commerciale. Tuttavia, se questa esperienza durò brevemente, considerata la ritirata improvvisa degli olandesi, essa insegnò alla regina che gli europei, seppur di religioni e lingue diverse, non differivano in merito alle intenzioni: riempire le proprie navi di schiavi [1]. A questo punto, la vera soluzione provenne dalla sfera religiosa. Non a caso, la condizione di idolatra di Njinga permise in primo luogo ai portoghesi – in accordo alla bolla papale Dum Diversas del 1452 – di muovere guerra legittima contro nemici di Cristo e, di conseguenza, di «ridurre in perpetua schiavitù le loro persone, e di annettere e conquistare anche i regni, i ducati, le contee, i principati e gli altri domìni».
Era dunque necessario procedere secondo una strada alternativa: divenire cristiani seguendo, in un certo senso, le orme dei vicini re del Kongo. Al pari di questi, Njinga intuì le potenzialità legittimanti del cristianesimo quale elemento consolidante del potere sovrano e, circondatasi di ferventi missionari alla ricerca di prodigiose conversioni (una vera e propria ossessione!), riuscì a mettersi in contatto con il papa stesso, a tal punto che papa Alessandro VII (1655-67) in una lettera le si riferì come «nostra amatissima figlia in Cristo Regina Anna Singa». Pertanto, non sarebbe erroneo affermare che il Pontifex Maximus avesse compiuto un’azione contro gli interessi del monarca lusitano. E, in effetti, ciò si spiega in un cambio di registro delle politiche papali, le quali, diversamente dalle bolle quattrocentesche, tentarono di arginare lo strapotere iberico nel mondo coloniale, rivendicando la propria universalità spirituale e la propria autorità di pastore ecumenico.
Al di là delle divagazioni contestuali (temo di avervi già annoiato…), a detenere penna e inchiostro furono in primo luogo i missionari, i quali trasmisero al pubblico europeo il primo immaginario della persona di Njinga: una regina in origine selvaggia e diabolica ma che, a seguito della conversione (come fosse una pozione magica!) si trasformò in una pacata e devota sovrana cristiana. Gli scritti missionari costituiscono una tipologia di fonte documentaria estremamente peculiare, tuttavia, consapevoli della marcata parzialità di ogni testo, esse ci ricordano come la storia delle missioni sia altrettanto una storia di potere, di disparità dei sessi, ma anche di resistenza e di sincretismo.
Consideriamo, ad esempio, la relazione del cappuccino Antonio da Gaeta, La maravigliosa conversione alla Santa Fede di Cristo della regina Singa, pubblicata nel 1669 a Napoli da Francesco Maria Gioia. La conversione, tema onnipresente nei racconti missionari secondo lo schema tipico del topos letterario, era da intendersi come momento di cesura tra un prima e un dopo: una vera e propria «metamorfosi» dell’individuo. Oltretutto, nel caso in cui il convertito fosse un sovrano – come nel nostro caso – si lasciava presupporre la prossima adozione del cristianesimo da parte dell’intero popolo. Ciò aveva indubbiamente un effetto rassicurante nei confronti di un vasto pubblico di lettori, in quanto comprovava con i fatti la validità del cristianesimo quale unica e vera fede. Infatti, l’accezione propagandistica del documento emerge chiaramente nel momento in cui la conversione è definita «meravigliosa»: termine che rievoca la dimensione miracolosa, quasi inspiegabile, dell’evento. Infatti, se da un lato la regina Njinga appariva come un essere feroce e sanguinario: «[…] beveva il sangue humano, e se ne vantava, e aspergeva il corpo all’hora, che per offerir sacrifici al Demonio uccideva come bestie gli huomini, e quando si faceva dare il giuramento di fedeltà da’ suoi vassalli, gli costringeva à bere anch’essi, com’ella faceva, di detto sangue.»
Dall’altro, a seguito della conversione, la regina appariva come radicalmente mutata: «Nell’istesso modo havendo io ritrovato la Regina del tutto diversa da quello, che mi era stato rappresentato, dico, e & affermo, ch’ella non è più quella, ch’era; è divenuta un’altra, tutta piacevole, cortese, affabile, pacifica, pia, e divota; mercè alla virtù del Santo Crocifisso, che sà operar queste metamorfosi, e queste maraviglie.»
Si assiste ad un passaggio da una totale estraneità ad un’ideale somiglianza; una tecnica stilistica in cui, quanto più l’avversario veniva enfatizzato in termini disumani o diabolici, tanto più aumentava la grandiosità della vittoria ottenuta su quest’ultimo, vale a dire la conversione. Naturalmente, gli autori della conversione – i membri dell’ordine dei cappuccini – si servirono di questo tipo di relazioni per riportare in Europa le proprie storie di successo, comprovando l’efficacia e l’utilità del loro operato.
Questo genere di racconti fece largo utilizzo di categorie stereotipizzanti e di argomentazioni proto-razziste. Troviamo così delle tassonomie dell’indigeno: dal buon selvaggio disposto ad accogliere il messaggio cristiano all’uomo-bestia dedito al cannibalismo. Inoltre, la presenza di imprese perigliose, digressioni su condizioni ambientali al limite tra inferno e paradiso e illustrazioni di riti diabolici trovava un riferimento stilistico nella letteratura cavalleresca di viaggi in terre e popoli distanti, al fine di alimentare nell’immaginario europeo la straordinarietà delle missioni. Un altro tipo di relazioni, destinate ad una circolazione più ristretta e spesso richieste da parte delle autorità stesse, mirava invece ad una dettagliata indagine di tipo geografico ed etnografico sulla base di un’osservazione diretta dei fatti. Si trattò di informazioni cautamente riportate, da non confondere come un esercizio di libera curiosità, ma in virtù della loro utilità nel rendere più efficace l’intervento in un luogo di missione. È il caso della Istorica Descrizione de’ Tre’ Regni Congo, Matamba, et Angola scritta dal cappuccino Giovanni Antonio Cavazzi da Montecuccolo, in cui, diversamente dalla precedente opera di Antonio da Gaeta, scompare la dicotomia di Njinga-diabolica e Njinga-cristiana. Evidentemente, la monumentale opera in tre volumi non fu pensata per un vasto pubblico, ma per educare i membri del proprio ordine ad una conduzione più efficace della missione, fornendo ogni dettaglio utile acquisito nel corso della sua esperienza di missionario.
Ad ogni modo, la fortuna letteraria di Njinga sopravvisse, a tal punto che il marchese di Sade in La Philosophie dans le Boudoir scrisse: Zingua, regina dell’Angola, la più crudele delle donne, immolava i suoi amanti non appena venivano tra le sue braccia; spesso faceva combattere i guerrieri davanti ai suoi occhi e diventava il premio del vincitore; per lusingare il suo animo feroce, si divertiva a pestare in un mortaio tutte le donne che rimanevano incinte prima dei trent’anni. Oltre a testimoniare come la sua figura fosse divenuta parte di un comune (e in forma terribile) immaginario culturale europeo, la pratica sessualizzante la rigettò (quale sineddoche per l’Africa intera), in una sfera “altra”, inferiore, perversa. Non a caso, anche nella rappresentazione pittorica ad opera di Achille Devéria del 1830, Njinga appare adornata di una maestosa corona e gioielli, quale ogni regina che si rispetti, ma con seno esposto (inusuale ritratto di regalità se confrontato con le controparti europee). È dunque evidente come l’appetito del gusto europeo alimentò quanto fu detto in negativo nella relazione di Antonio Cavazzi, nella quale le descrizioni maggiormente scabrose e immorali circa i costumi africani vennero slegate dal proprio contesto, e rielaborate per trasmettere l’immagine di un perpetuo stato di caos, in cui vigeva ogni legge contraria al codificato diritto naturale: dalla poligamia al cannibalismo, dall’infanticidio all’idolatria.

Achille Devéria, Regina Nzinga Mbande, stampa di François Le Villain, 1830.
L’opera di Cavazzi, tradotta e pubblicata nel 1728 in edizione francese e in tedesco nel 1794, è stata di certo consultata anche dal filosofo tedesco G. W. Friedrich Hegel, considerando il materiale utile in essa contenuto a sostegno del principio di un’Africa esclusa dal movimento della Storia. Infatti, adoperando una rilettura basata sull’ascesa e sul progresso occidentale, Hegel attinse di frequente alle vicende biografiche dell’ormai celeberrima Njinga Mbande. Tuttavia, durante le proprie lezioni universitarie, il filosofo si si guardò bene dal citare esplicitamente il nome della regnante, non solo al fine di deformarne la figura, ma soprattutto per negarne una propria individualità. Secondo Hegel, la regina africana avrebbe comandato un gruppo di guerriere, le cosiddette «furie», poste a capo di un «regno donna» in cui uomini e bianchi venivano massacrati in modo indiscriminato; i bambini uccisi senza rimorso; il concetto di famiglia deriso; e l’ordine “naturale” sconvolto. A ciò seguirono innumerevoli manuali storici del continente africano (specificatamente della sua parte subsahariana), il quale si componeva di società la cui memoria storica veniva preservata per mezzo della tradizione orale: modalità che gli europei giudicarono inferiore in termini di sviluppo. Piuttosto, oggi diremmo che fu scritta una storia dell’europeo in Africa, dove l’anno 0 non corrisponde alla venuta di Cristo, ma all’arrivo del colonizzatore.
RIABILITARE
Il recupero di Njinga (e, con essa, della realtà sommersa e taciuta del continente) avvenne primariamente grazie alla lotta per l’indipendenza degli angolani a partire dal 1961. Chi, più di lei, si ingegnò con ogni mezzo contro l’occupante colonizzatore? Chi più di lei poteva incarnare una figura eroica, simbolo di resistenza? I fasti di un glorioso passato vennero così riesumati dalla stessa memoria orale che, precedentemente, fu considerata sintomo di arretratezza. Emerse così una nuova Njinga: non una deviata sessuale o spietata cannibale, ma una leader orgogliosa, vittoriosa in guerra e pilastro della resistenza al mostro colonialista.
L’indipendenza dal Portogallo, riconosciuta nel 1975, fu seguita da un’atroce guerra civile, secondo il tipico schema delle guerre per procura della Guerra Fredda. Tra gli schieramenti, fu il People’s Movement for the Liberation of Angola (MPLA) ad appellarsi nuovamente alla mitica regina angolana, tanto che, al fine di saldare l’unità del paese, vennero piantate le radici identitarie della nazione proprio nella storia seicentesca di Njinga. Se mai visiterete Luanda, noterete che ella appare pressoché ovunque: il suo ritratto è inciso nella moneta e la sua statua (opportunamente rimosse quelle coloniali) eretta dinanzi al museo nazionale di storia militare.

Moneta di 20 Kwanzas commemorativa del 2014, riportante il profilo di Njinga con le date di nascita e morte.
Tuttavia, anche in questo caso, il paradigma rimane lo stesso: si tratta di un racconto utile, di una versione modificata a trasmettere una determinata idea e a richiamare un determinato ideale. Sorge spontaneo chiedersi: chi fu veramente Njinga? Difficile dirlo, e, probabilmente, all’uso del singolare andrebbe contrapposto un plurale simbolico. Qualcuno però, di recente, ci ha provato. La realizzazione della serie Regine dell’Africa: Njinga a produzione yankee (Netflix) è indicatore di quanto la sua figura sia divenuta conosciuta, a tal punto da generare profitto. Ad ogni modo, per quanto ricordo di questa miniserie, ogni aspetto eticamente non conforme alla cultura egemonica occidentale è taciuto. Dove sono i riti? Dov’è la poligamia? Ancora una volta ci ritroviamo dinanzi a una riproduzione parziale e mediata in cui, evidentemente, lo scopo encomiastico appare storpiato secondo sterili principi di omogeneità culturale. Evitare intenzionalmente di rappresentare l’intero percorso di Njinga (di fatto abbandonò la poligamia per aderire a pieno alle prescrizioni cristiane in materia di sessualità) rischia inevitabilmente di non rappresentare l’enorme valore delle sue scelte, oltre che essere una grave inaccuratezza.
In una considerazione a latere, la storia di Njinga risulta oltremodo utile nella comprensione di come alcune categorie non siano altro che costrutti. Infatti, poiché donna, i portoghesi usarono il suo sesso come fattore delegittimante della sua sovranità, importando nell’orizzonte culturale del Ndongo categorie che gli erano estranee. Per Njinga risultava dunque necessario richiamare a sé i propri sudditi, e, nel farlo, si alleò alla tribù nomade-mercenaria degli imbangala (confondibili con gli Jaga del Kongo). Questi codificarono una serie di leggi (ijila), le quali regolarizzarono un rituale che avrebbe permesso il riconoscimento sociale di una donna nel rivestire il ruolo di guerriero, status tipicamente attribuito alla mascolinità. Il rituale consisteva nel sacrificio di un proprio figlio (da intendere come rinuncia alla propria fertilità femminile?), da cui, dopo averne pestato il corpo in un mortaio, si otteneva il maji a samba, un olio “sacro”. Questo, mischiato a erbe e carbone polverizzato, veniva versato sull’iniziata, indotta in uno stato di coscienza alterato dall’ausilio di musiche, tamburi e danze. A questo punto, il rituale poteva dirsi completato, e l’iniziata – ora guerriero – attraversava vera e propria transizione di genere.
Lo stesso rito fu pertanto sostenuto da Njinga allo scopo di farsi riconoscere come leader presso i suoi, permettendole di sfuggire dall’opera di delegittimazione portoghese, basata proprio sul suo essere donna. Probabilmente Hegel faceva riferimento proprio a questo episodio: Njinga, secondo l’inversione del ruolo di genere, decretò da un lato che i suoi sudditi le si riferissero al maschile e, dall’altro, che i numerosi concubini – dovendo a loro volta rispettare il nuovo status di genere – vestissero con abiti femminili e abitassero nelle stesse stanze delle guardie personali (principalmente donne). La posizione sociale di guerriero non fu dunque esclusa a corpi femminili, pur rimanendo prerogativa sociale maschile. Si tratterebbe dunque di una scissione chiarissima tra ruolo sociale e corpo sessuato, in cui l’una cosa non esclude l’altra.
Lascerò alle vostre coscienze ulteriori riflessioni sul peculiare caso di Njinga. Tuttavia, proprio mentre l’amministrazione trumpiana (nel suo delirio di ordini esecutivi) opera l’infame cancellazione storica delle identità trans dai moti di Stonewall, queste vicende ci invitano a rimanere all’erta dinanzi ai sempre più ricorrenti tentativi di manipolare il passato, rendendo evidente come la Storia possa essere il campo di gioco per eccellenza di politiche volte alla repressione e al silenzio.
Bronsa Cuerta
Fonti e bibliografia essenziale:
Antonio Cavazzi, Istorica Descrizione de’ Tre Regni Congo, Matamba, Angola, ed. Giacomo Monti, Bologna, 1687.
Antonio da Gaeta, La Maravigliosa Conversione alla Santa Fede di Cristo della Regina Singa, Napoli, ed. Francesco Maria Gioia, 1669.
Adriano Prosperi, Missionari: dalle Indie remote alle Indie interne, Bari-Roma, Laterza, 2024.
C. McCaskie, Exiled from History: Africa in Hegel’s Academic Practise, Cambridge University Press, 2018.
M. Heywood, Njinga of Angola: Africa’s Warrior Queen, Harvard University Press, 2019.
Jeremy Ball, Staging of Memory: Monuments, Commemoration, and the Demarcation of Portuguese Space in Colonial Angola, Journal of Southern African Studies, 44:1, 77-96, 2018.
John K. Thornton, L’Africa e gli africani nella formazione del mondo Atlantico (1400-1800), Bologna, Il Mulino, 2010.
[1] Evitiamo fraintendimenti: la pratica del commercio di schiavi in Africa Subsahariana era insita nell’economia africana ancor prima del contatto con gli europei. Tuttavia, è doveroso sottolineare come questo meccanismo non debba essere confuso con forme di schiavitù indiscriminata, in quanto vigevano precise indicazioni a regolarne il procedimento. Pertanto, la partecipazione del potere politico locale alla tratta degli schiavi sarebbe stata, in un primo momento, del tutto volontaria. L’insaziabile domanda di schiavi da parte europea ruppe questi equilibri, ne alterò i presupposti e si rivelò deleteria nel lungo termine, causando un crollo demografico nei paesi soggetti.