E’ il 1954 quando Frantz Fanon accetta l’offerta di un posto presso il reparto psichiatrico dell’ospedale di Blida, fiore all’occhiello dell’Algeria francese e roccaforte di quell’etnopsichiatria che da quasi un secolo forniva legittimazione (pseudo)scientifica all’occupazione imperialista. Sarà proprio il periodo trascorso nei territori della allora Francia coloniale che permetterà a Fanon di maturare le più dense critiche all’operato della psichiatria manicomiale europea[1]; ma in questa storia occorrerà procedere per gradi.
Non appena giunto a Blida, Fanon viene incaricato di dirigere un reparto comprendente 165 pazienti donne europee e 220 uomini musulmani[2]; in questo frangente egli avrà l’occasione di riprendere il lavoro sui laboratori di terapia sociale, maturando sino in fondo la consapevolezza della necessità di applicare non sono un’analisi, ma anche un tipo di approccio terapeutico che tenga conto dei diversi pattern culturali che incorniciano le esperienze di vita dei pazienti[3]. Il padiglione d’assistenza psichiatrica struttura il suo operato attorno ad una procedura fondamentale, le riunioni, cui medici, infermieri e pazienti prendono parte per decidere delle iniziative sociali terapeutiche[4]. Un primo banco di prova, cui mi riferisco per chiarire in cosa consistano tali operazioni, è rappresentato dall’organizzazione della festa di Natale. Lo svolgimento della celebrazione rivela immediatamente il suo carattere terapeutico:
Si prepara la festa, si diffondono gli inviti, la scena è allestita da alcuni malati con l’aiuto di una o due infermiere, e noi vi assistiamo come semplici spettatori. La festa assume allora il suo reale carattere terapeutico. Così riferiamo, come aneddoto, della scena in cui la paziente paranoica responsabile della parte cantata – Sombreros et mantillas – sorveglia con la coda dell’occhio la catatonica che tende a perdere il filo e all’occorrenza la pizzica perché si rimetta in movimento.[5]
Se queste attività si dimostrano un totale successo presso le pazienti europee, tanto da permettere la rimozione del materiale da contenzione senza temere grossi inconvenienti, esse dimostrano invece tutto il loro carattere fallimentare presso gli internati musulmani[6]. In questo caso, Fanon può constatare in primis, ancora una volta, il problema della barriera linguistica, ma, anche in seguito all’assunzione di un infermiere musulmano estremamente loquace come interprete, il disinteresse resta costante. Indifferenti alle riunioni dei comitati, manchevoli di partecipazione ai giochi collettivi, i pazienti maghrebini sembrano riservare la propria partecipazione ai soli laboratori per la produzione di indumenti. Viene dunque presa la decisione di creare un laboratorio di ergoterapia interno al servizio d’ospedale, ma i quindici malati partecipanti se ne distaccano immediatamente. Come conseguenza diretta, il personale infermieristico perde totalmente la motivazione e utilizza l’isolamento forzato come pratica di sorveglianza o addirittura di punizione. La mancata riuscita dell’instaurazione di un clima terapeutico porta con sé la necessità d’indagine delle cause che hanno condotto al fallimento. Ciò riporta Fanon ad approfondire le dinamiche culturali che regolano la vita del paziente nordafricano. Già in precedenza, durante gli anni della formazione, egli aveva ribadito la necessità di una diagnosi situazionale. L’indagine sociale si rivela infatti imprescindibile nel percorso che permetterà al giovane psichiatra di trarre dei risvolti positivi da una tale esperienza fallimentare[7]:
A Causa di quale errore di giudizio avevamo potuto immaginare una terapia sociale di ispirazione occidentale in un servizio di alienati musulmani? Come era possibile un’analisi strutturale se mettevamo tra parentesi il contesto geografico, storico, culturale e sociale?[8]
I mancati successi nel percorso terapeutico sembrano essere la causa diretta dell’assunzione di un punto di vista strettamente occidentale. Rapportandosi al paziente in maniera “neutrale”, mancando di tenere conto delle specificità culturali che caratterizzano la sua persona nel contesto d’insieme, non era possibile cogliere nel paziente ciò che Fanon definisce «il fatto sociale nordafricano». Il martinicano accorda al colonialismo un ruolo di primo piano nella genesi sociale della follia, e si addentra nelle specificità del vissuto nordafricano per cercare di intuire gli errori commessi nei laboratori di terapia sociale. Lo spunto di riflessione gli viene fornito dall’arrivo di un orchestra musulmana presso il padiglione europeo:
Nell’arco di sei mesi le donne musulmane hanno regolarmente assistito alle feste date nei padiglioni europei. Per sei mesi, hanno applaudito all’europea. E poi, un giorno, è venuta in ospedale un’orchestra musulmana, ha suonato e cantato, e fu grande la nostra sorpresa nel sentire gli “applausi” tipici delle donne musulmane: modulazioni corte, acute e ripetute. Le pazienti europee reagivano quindi a quella particolare configurazioni (adattandosi senza difficoltà) alle esigenze caratteristiche del nuovo contesto. Diventava evidente che bisognava cercare le configurazioni che avrebbero facilitato di volta in volta reazioni già iscritte in personalità già sviluppate. Una terapia sociale poteva essere possibile solo nella misura in cui si sarebbe tenuto conto della morfologia sociale nel suo insieme e delle peculiari forme di socialità.[9]
Ritengo che questa intuizione, impossibile da realizzare senza un’indagine condotta su più piani intrecciati, sia esplicativa del valore fondamentale che il pensiero fanoniano conserva ancora oggi nell’analisi della follia generata dal potere coloniale – addietro – così come dal retaggio coloniale in tempi odierni. La società maghrebina, ci dice, è una società gerontocratica. Interi villaggi facenti capo alla Djema, consiglio decisionale con alla testa un presidente, si organizzano su base clanica o familiare. Vi sono però una moltitudine di specificità che caratterizzano l’area e si traducono in altrettante differenze linguistiche e culturali[10]. Il quadro tracciato sin qui da Fanon basta a dare idea di una società complessa e profondamente differente dallo stato nazione europeo; anche se un’altra precisazione risulta fondamentale: «prima della conquista francese, la terra era proprietà collettiva»[11], solo in seguito alla conquista francese questa è stata frazionata e ripartita tra diversi titolari, diventati poi proprietari terrieri. In precedenza, il concetto di ricchezza era saldamente legato «all’idea di utile»[12]ed i possessori del terreno risultavano essere coloro i quali avevano disponibilità di strumenti da lavoro agricoli[13]. L’avvento del periodo coloniale e la redistribuzione della terra comune hanno un effetto distruttivo sull’omogeneità della società araba: oltre ad una ristretta minoranza di grandi proprietari, musulmani ed europei, vi troviamo una moltitudine di fellah, piccoli proprietari terrieri che coltivano faticosamente ristretti appezzamenti di terreno. Essi non rappresentano però “l’ultimo gradino” della scala sociale, dal momento che ad invidiare le loro condizioni troviamo un altrettanto cospicuo numero di indigenti, che non hanno potuto trarre beneficio dalle distribuzioni e che adesso cercano di affittare il proprio lavoro come braccianti. Molti di loro, rimanendo senza impiego, restano indigenti e vanno ad ingrossare le fila di un ceto che, in mancanza di qualsivoglia processo d’industrializzazione, si configura come sottoproletariato[14]. Così anche le tribù nomadi, che avevano conservato una funzione chiave nel mantenimento dell’equilibrio sociale maghrebino, vanno incontro ad una metamorfosi che passa per la sedentarizzazione. Una volta immobilizzate, esse sono costrette a vendere stagionalmente il proprio lavoro, andando incontro ad un processo di (sotto)«proletarizzazione»[15]. Ogni componente della società giunge dunque incontro a quel processo di «dissociazione» che caratterizza la genesi della follia, il profilamento degli internati nordafricani presso il padiglione di Blida lo dimostra:
Su 220 malati, possiamo trovare: 35 fellah, ovvero proprietari di un piccolo terreno coltivato da essi stessi; 76 lavoratori agricoli mezzadri o braccianti; 78 operai (panettieri, imbianchini ecc…); 5 intellettuali; 26 disoccupati. Queste cifre vanno interpretate. Si può pensare che esista un numero relativamente elevato di operai: 78 su 220. In realtà, più esattamente, si tratta spesso di quegli elementi strappati alle campagne che riescono a trovare in città un lavoro manuale in una qualsiasi attività. (…) Tali problemi hanno un’importante risonanza: gli individui che abbandonano individualmente la società tradizionale non sono quantificabili, ma il loro numero è in continuo aumento. Questi elementi costituiscono le forze, ancora poco analizzate, che stanno frantumando gli ambiti domestici, economici e politici, questa società, che noi definiamo immobile, in realtà è fermento nelle sue fondamenta.[16]
È così che si fa strada in Fanon una risposta degna di sormontare l’insieme di queste problematiche. Per avere successo, la terapia deve andare incontro al pattern socio culturale che compone una determinata società: ecco che l’istituzione di un caffè moro, la regolare celebrazione delle feste islamiche e le riunioni intorno a un «”narratore” professionista» garantiscono un consistente aumento dei partecipanti alle attività terapeutiche.
Nonostante il tentativo di trovare una soluzione si sia, in ultima analisi, rivelato fruttuoso, le condizioni infrastrutturali che parzializzano il sistema medico europeo rendendolo strumento del potere coloniale si rivelano essere un problema insormontabile. L’esperienza di Fanon presso l’ospedale di Blida non aveva fatto altro che accertare come l’alienazione fosse causa diretta dell’oppressione coloniale. Lo stallo sanguinante in cui la società maghrebina si ritrovava era specchio della volontà occidentale di mantenere la situazione immutata, e, quando i disordini rivoluzionari giungeranno a Blida, starà a Fanon lottare per cambiare le cose. Dopo essere entrato in contatto con alcuni dei dirigenti del Fronte di Liberazione Nazionale, movimento indipendentista d’ispirazione marxista che si battè per l’indipendenza nazionale, Fanon conduce un primo periodo di lavoro clandestino presso il padiglione algerino. Al termine di questo periodo, conscio di non poter ottenere risultati degni di nota in un sistema d’istituzione medica occidentale, Fanon rassegna le dimissioni dall’ospedale di Blida e si stabilisce a Tunisi, sede del movimento indipendentista algerino, dove ha inizio la sua attività clandestina presso l’organo di stampa ufficiale dell’FLN, “El Moudjahid”[17]. Il passaggio istituzionale al campo rivoluzionario appare inevitabile: uscire dall’alienazione significa in primis riappropriarsi di uno spazio che ormai è, in ogni suo aspetto, sistematica disumanizzazione[18].
Ellena, L., Profilo biografico di Frantz Fanon, in Fanon, F., I dannati della terra.
Fanon, F., Comptes rendus du Congrès des médicin aliénistes et neurologues de France ed des pays de langue française, Masson, Paris 1956.
Fanon, F., I Dannati della Terra, Giulio Einaudi, Torino, 2007.
Fanon, F., Decolonizzare la follia. Scritti sulla psichiatria coloniale, Ombre Corte, Verona, 2020.
Fanon, F., Scritti politici per la rivoluzione africana, DeriveApprodi, Roma, 2006.
[2] Fanon, F., Decolonizzare la follia, op. cit. p. 137.
[3] Fanon, F., Comptes rendus du Congrès des médicin aliénistes et neurologues de France ed des pays de langue française, Masson, Paris 1956; traduzione italiana in Decolonizzare la follia, op. cit. p. 181
[4] Fanon, F., Decolonizzare la follia, op. cit. pp. 139-141.
[5] Fanon, F., Decolonizzare la follia, op. cit. p. 139.
[6] Fanon, F., Decolonizzare la follia, op. cit. p. 140.
[7] Fanon, F., Decolonizzare la follia, op. cit. p. 155.
[8] Fanon, F., Decolonizzare la follia, op. cit. p. 146.
[9] Fanon, F., Decolonizzare la follia, op. cit. p. 147.
[10] Fanon, F., Decolonizzare la follia, op. cit. pp. 148-149.
[11] Fanon, F., Decolonizzare la follia, op. cit. p. 149.
Chi scrive non ha mai sopportato l’utilizzo aforistico della formula “la storia si ripete”: l’esempio da manuale della frase fatta per ogni evenienza, apparentemente piena di significato, nella sostanza un semplice motto. Questa espressione, una sorta di parafrasi impropria e monca dell’incipit del 18 Brumaio[1], ha perso qualsiasi attinenza con la citazione originaria. Chi ripete questa formula propone una chiave interpretativa semplicistica di una vasta gamma di eventi storici funesti – guerre, crisi, dittature –, sostenendo implicitamente che il loro ripresentarsi sia un fatto normale ed ovvio. Si isola un determinato fenomeno, lo si astrae dal suo contesto e dalle caratteristiche peculiari, si registra la sua ripetizione nel corso di un certo periodo di tempo e lo si eleva a regola generale. La storia si presenta come un “eterno ritorno dell’uguale”, e la cosa più inquietante è che si ricavi questa mostruosità da Marx, il cui pensiero rappresenta l’antitesi per eccellenza alla naturalizzazione di qualsiasi fenomeno storico. Quando si abbina “la storia si ripete” a “corsi e ricorsi storici”, chiamando in causa anche il padre della tradizione storicistica moderna, si raggiunge la follia pura e si travalica – questa volta per davvero – dalla tragedia alla farsa.
Il fatto che alcuni giornalisti mediocri adoperino queste espressioni, però, ci deve far riflettere sul significato della ripetizione nella storia. Ogni storico dovrebbe sapere che la storia “non si ripete” perché le circostanze non sono mai le stesse, eppure alcuni elementi comuni in momenti abbastanza distanti nel tempo si possono ripresentare. Individuare la ripetizione di alcuni fenomeni, e quindi proporre delle analogie, è addirittura uno dei principali metodi che permette allo storico di cogliere i nessi causali e di interpretare il susseguirsi degli eventi. Il problema sta nelle circostanze differenti sullo sfondo che spesso implicano esiti difformi. Dunque, non è sbagliato ricercare la ripetizione o la periodicità, ma l’astrazione dal contesto storico peculiare, cosa che comporta inevitabilmente la banalizzazione.
Negli ultimi tre anni, i media e gli “esperti” di geopolitica hanno ciclicamente riproposto alcune analogie mettendo in relazione lo scenario di guerra odierno con alcuni conflitti della storia del ‘900. C’è chi ha parlato di una “seconda guerra fredda” e chi, dal lato opposto, ha interpretato lo scenario internazionale come il ripetersi delle rivalità imperialistiche della Prima Guerra Mondiale. C’è addirittura chi ha definito Putin come “il nuovo Hitler”, con un implicito riferimento alla Seconda Guerra Mondiale. In tutti questi casi si è tentato di scorgere elementi comuni tra la situazione presente e una guerra del passato con l’obbiettivo di dare un senso al confitto odierno. Ovviamente, a differenza della comparazione di due eventi passati di cui si conoscono gli esiti, l’analogia tra passato e presente non è funzionale alla mera interpretazione storica, ma ha diversi obbiettivi. Per chi la utilizza con fini propagandistici serve a legittimare determinati disegni politici, per chi si approccia criticamente alla storia serve a ipotizzare possibili evoluzioni del presente. Per questo motivo, al netto di come vengono tracciate le analogie da certi commentatori, si tratta di una operazione non solo legittima, ma persino necessaria per chi si pone l’obbiettivo di trasformare la realtà e non solo di interpretarla.
Per evitare che l’azione politica si fondi esclusivamente su pulsioni ideali e progetti utopistici, tutti i movimenti sociali che si sono sviluppati a partire dalla metà dell’Ottocento hanno ritenuto fondamentale partire dall’“analisi concreta della situazione concreta”. Indipendentemente dal fatto che questi movimenti si richiamassero a Marx o meno, il loro “successo” è sempre dipeso dalla lucidità di analisi e dallo studio della storia. La comprensione degli elementi comuni ci permette di far luce sul presente e di intravedere possibili sviluppi futuri. Proprio perché nessuna evoluzione storica è predeterminata, e quindi la storia non “si ripete” inevitabilmente, non si deve ricercare l’analogia per preconizzare finalisticamente un esito necessario, ma si deve tentare di cogliere la somiglianza per intervenire meglio nel nostro tempo.
L’analisi comparata tra i conflitti mondiali del Novecento e l’escalation degli ultimi quindici anni può gettare luce su quest’ultima. Non si tratta qui di stabilire quale dei vari contesti bellici assomigli “di più” al nostro presente, ma di individuare alcuni elementi di ricorrenza in modo da tentare di elaborare una strategia per l’azione politica oggi. Per questo motivo, una volta individuati i tratti comuni, è necessario anche recuperare le riflessioni di chi, partendo dalla nostra stessa prospettiva trasformativa, sviluppò riflessioni utili per problemi politici che si ripresentano, mutatis mutandis, nel 2025.
Sono tre i momenti più significativi che presentano delle analogie con il contesto di guerra odierno: la Prima Guerra Mondiale, la Seconda Guerra Mondiale e la Guerra fredda. Per questo motivo nel proseguo dell’articolo ci si soffermerà su questi tre momenti fondativi del nostro presente e sulle analogie che si possono tracciare. Contemporaneamente, si recupereranno le riflessioni di alcuni tra i più importanti commentatori e militanti politici che operarono in quei contesti in modo da individuare cosa può tornarci utile tra quello che hanno ancora da dirci.
1914
Il ventennio antecedente allo scoppio della Prima Guerra Mondiale è sicuramente il momento storico che si presta meglio all’analogia con la situazione odierna. Dopotutto tracciare un parallelismo tra il 1914 e il 2025 mentre una potenza economicamente dominante in declino viene “sfidata” dal gigante industriale in ascesa è fin troppo facile. Non è opportuno esagerare la somiglianza tra la situazione internazionale della belle époque e quella contemporanea, soprattutto per l’assenza del mondo coloniale propriamente detto[2], ma fatta questa accortezza ci sono numerosi elementi che si ripresentano quasi specularmente. Un elemento di estrema attualità, per esempio, è la notevole flessibilità delle alleanze politiche internazionali che permette improvvise fratture o riallineamenti (si allude non solo alle svolte della politica americana, ma anche alle contraddizioni nel campo dei “BRICS”). Questa fluidità degli schieramenti in gioco si sposa bene con la mancanza di forti ragioni ideali che muovono le parti in lotta. Al contrario della Seconda Guerra Mondiale o della Guerra fredda, infatti, le ragioni del conflitto sono meno marcatamente ideologiche. La contrapposizione democrazia-autocrazia è limpidamente pretestuosa, come lo era d’altronde nel ’14-’18; per converso, non si può dire che la “democratizzazione delle relazioni internazionali” mobiliti i cuori dei rivoluzionari come il sogno di una società comunista durante e dopo il secondo conflitto mondiale. Inoltre, lo scacchiere internazionale non presenta due o tre attori protagonisti attorno a cui ruotano dei campi grossomodo definiti: l’esistenza di soggetti più forti si inserisce nel quadro di un panorama frammentato dove anche le più solide alleanze storiche sono messe in discussione. Fatti e considerati tutti questi parallelismi non stupisce neppure come nella stessa propaganda di guerra si possano addirittura intravedere gli stessi motivi polemici. Il più eclatante è la contrapposizione fittizia aggressore-aggredito, il leitmotiv del dibattito sull’Ucraina.
Un ultimo elemento che permette l’analogia, probabilmente quello più rilevante, riguarda lo squilibrio economico mondiale che non riflette più i rapporti di forza politici di partenza. L’analogia in questo caso non può essere tracciata in senso economicistico, se non altro perché lo squilibrio debitori-creditori come si è presentato tra Stati Uniti e il mondo non allineato alla vigilia della svolta protezionistica statunitense non ha un precedente nel primo conflitto mondiale. Il legame sta piuttosto nel cambiamento di peso di alcune economie in ascesa rispetto alla crisi della potenza egemone che controlla la valuta di riserva mondiale. Nel 1914 si presentò una stridente contraddizione tra l’equilibrio politico che era stato imposto e mantenuto, economicamente e manu militari, e la crescita dirompente della Germania guglielmina che, reclamando una nuova ripartizione delle colonie, mise in crisi la pax britannica; la stessa cosa sta succedendo oggi tra Stati Uniti e Brics (e in particolare con la Cina). Non è un caso che, con l’aggravarsi delle tensioni, la diplomazia internazionale diventi schiettamente sincera sulle ragioni economiche del conflitto (un caso emblematico è il tentativo di accordo per le terre rare).
La predominanza dell’interesse economico-politico alla base dei progetti imperiali dei vari attori internazionali permette di recuperare le analisi che i socialisti europei elaborarono durante il conflitto. Non è un caso che il celebre opuscolo di Lenin “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo” sia stato riconsiderato da importanti economisti contemporanei come Emiliano Brancaccio, autore di “La guerra capitalista” (2023). Un po’ meno noto, ma altrettanto significativo, è l’opuscolo “Il socialismo e la guerra”, scritto sempre da Lenin nel 1915. In questo pamphlet, oltre all’analisi della situazione internazionale dalla prospettiva dei socialisti, sono proposte delle interessantissime considerazioni politiche. In primo luogo, mettendo in evidenza il carattere inter-imperialistico della guerra, si prende atto del fatto che non ci sia uno schieramento “progressivo” per cui patteggiare: in una guerra per la “spartizione degli schiavi”, non si può simpatizzare per nessuno schiavista. Dopo l’accettazione dei crediti di guerra da parte dei partiti socialisti europei e del loro scivolamento nazionalistico non si trattava di una presa di posizione scontata. In secondo luogo, per quanto riguarda la prassi politica, Lenin sottolinea l’importanza di opporsi al proprio governo (il nemico interno) come priorità per ogni partito rivoluzionario. Infine, viene sottolineata la necessità di sfruttare la situazione di tensione per “trasformare la guerra imperialista in una guerra civile”, e quindi di spostare l’asse del conflitto da nazione-contro-nazione a classe-contro-classe. Fatti i necessari aggiustamenti, rimangono considerazioni preziosissime. La situazione di crisi internazionale ci deve portare a considerare come prioritaria la lotta contro la guerra, e nel nostro paese i principali responsabili dell’escalation sono i partiti di governo che si sono susseguiti, dal Partito Democratico a Fratelli D’Italia, indipendentemente dalle particolari simpatie internazionali che possono avere. L’imprescindibile opposizione al nemico interno, italiano ed europeo, rappresenta la linea di confine della battaglia politica che bisogna combattere: la barricata deve essere eretta tra chi vota i crediti di guerra e chi li rifiuta, non tra l’occidente e l’oriente.
Un ultimo appunto. Si è detto che il procedimento analogico ci deve servire anche per tentare di avanzare delle ipotesi su possibili sviluppi futuri. Nel corso della storia chi ha tentato di prevedere le possibili evoluzioni ha sbagliato clamorosamente nella maggior parte dei casi, tuttavia ci sono delle eccezioni significative. Il caso più eclatante è quello del dibattito politico immediatamente precedente alla Grande Guerra. Non solo i socialisti, ma un nutrito gruppo di commentatori si accorse della prevedibilissima piega che avrebbe potuto prendere la rivalità tra le potenze europee. A tal proposito nel 1894 Max Weber ebbe a scrivere “solo una totale cecità politica e un ingenuo ottimismo possono impedirci di capire che gli inevitabili sforzi di espansione commerciale compiuti da tutti i paesi civili dominati dalla borghesia, dopo un periodo transitorio di concorrenza apparentemente pacifica, si stanno chiaramente avvicinando al punto in cui soltanto la forza deciderà la parte di ciascuna nazione nel controllo economico della terra”. In virtù dell’analogia appena tracciata, non è un’assurdità ipotizzare degli esiti simili. Tuttavia, come accennato precedentemente, la situazione attuale presenta somiglianze anche con altri scenari conflittuali che ci sono familiari, per cui, per non trarre conclusioni affrettate, occorre analizzare le caratteristiche comuni che presentano gli altri contesti bellici del ‘900 con la situazione attuale.
1939 (1922)
Il paragone con gli anni ’30 del XX secolo, come antefatto alla Seconda Guerra Mondiale, è meno calzante di quello proposto nel capitolo precedente. Soltanto chi si rifiuta aprioristicamente di sedersi al tavolo delle trattative di pace può sostenere che Putin abbia le stesse ambizioni di vittoria totale e di sterminio proprie della Germania nazista, e in tal senso, l’analogia non si presta. Tuttavia, alcune caratteristiche ricorrenti con il ventennio antecedente al secondo conflitto mondiale si possono individuare, soprattutto per quanto riguarda l’orientamento politico “interno” dei paesi occidentali.
Non si vuole sostenere che l’impetuosa avanzata della destra rappresenti l’antefatto del ritorno del “fascismo”. Questo argomento, che ha come unico scopo la mobilitazione verso le urne del ceto-medio progressista, non ha particolare fondatezza in ambito storiografico. Al contempo però, non è questionabile il fatto che in tutti paesi occidentali, e in buona parte di quelli extra-occidentali, si stiano affermando governi di estrema destra che ricalcano le stesse posizioni reazionarie caratteristiche dei movimenti fascisti della prima metà del ‘900. Dal punto di vista del conservatorismo sociale e dell’orientamento ultranazionalista e antipopolare, e del suprematismo bianco, non pare che ci siano differenze così significative in termini valoriali rispetto ai loro progenitori del secolo scorso. Anzi, per molti partiti di estrema destra il richiamo al passato fascista è esplicito e rivendicato. In che termini, dunque, si può parlare di “fascismo”? Il problema del termine fascista è sintetizzato dal motto che decise di impiegare il Movimento Sociale Italiano: “non restaurare, non rinnegare”. Se da un lato la stretta autoritaria che stiamo sperimentando non deve essere minimizzata, non si deve agitare istericamente lo spettro del “ritorno” e di una restaurazione che non sembra possano – ne vogliano – intraprendere i nipotini del Duce. D’altra parte, bisogna comprendere come alcuni concetti politici forti abbiano due vite: la prima nell’esperienza storica cui sono legati, e l’altra nel significato e nei valori profondi che vanno ben oltre l’epoca e le circostanze specifiche in cui questi si sviluppano la prima volta. Non a caso Bertolt Brecht, riflettendo sulla natura del fascismo nei suoi diari, ipotizzò che, se il fascismo fosse mai giunto in America, questo avrebbe assunto sembianze democratiche. In conclusione, per quanto non si possa seriamente sostenere di vivere lo stesso clima dittatoriale del ventennio, non avrebbe senso rifiutare di chiamare Giorgia Meloni “fascista”, se non altro perché non si riconosce nell’appellativo opposto (antifascista).
Il problema semmai è chiedersi la ragione di questo revival reazionario a un secolo di distanza. Si possono avanzare numerose ipotesi, ma è fuor di dubbio che i motivi sono diversissimi rispetto a quelli degli anni ’20. Il fascismo come fenomeno europeo si sviluppò indubbiamente anche come reazione alla stagione di agitazioni rivoluzionarie del biennio 1919-1920. Si tratta di un’interpretazione comunemente accettata che è stata fatta propria anche da storici di estrema destra come Ernst Nolte (che pure la impiegava in termini giustificazionisti: una reazione legittima all’orrore del comunismo). È fin troppo evidente la stridente differenza con il nostro presente in cui non esiste un movimento di massa (né operaio, né studentesco, né di nessun altro tipo) contro il quale si sta organizzando una “reazione”. Non fraintendiamoci, i nuovi governi si stanno impegnando solertemente per reprimere quel poco che fatica a nascere, ma non ha senso prendersi in giro e raccontarsi di essere la regione della svolta autoritaria. Non è esagerato affermare che non esiste un’opposizione popolare nel mondo occidentale (e almeno in buona parte di quello extra-occidentale) che metta seriamente in crisi il potere costituito. La sperequazione nei rapporti di forza tra oppressi e oppressori è tale che occorre una particolare cautela nella proposta di qualsiasi analogia.
In virtù della mancanza di una opposizione politica ed egemonica al sistema vigente è difficile recuperare integralmente la nozione di “crisi organica” elaborata da Gramsci negli anni della prigionia[3]. Anche se la situazione economica contemporanea ricorda vagamente quella successiva alla crisi del ’29, con un ritorno al protezionismo[4] che può essere letto, con le parole di Gramsci, come una “resistenza reazionaria ai nuovi rapporti mondiali, all’intensificarsi del mercato mondiale”, il contesto politico è abbastanza differente. Anche la nozione di “cesarismo” va presa con le pinze visto che la “soluzione arbitrale” non deriva da una situazione in cui “le parti in lotta si equilibrano in modo catastrofico”. Alcuni elementi della politica cesarista si possono individuare: il rafforzamento degli esecutivi (che ha come corollario la burocratizzazione del legislativo) e la centralità del “capo carismatico” nel contesto di una vita politica spettacolarizzata. Ma tutti questi elementi si inseriscono nel quadro di una vittoria del capitale senza quasi nessuna battaglia prima; una vittoria che quindi è anche, e forse principalmente, culturale e ideologica. Non si vuole sostenere che la sconfitta storica del movimento operaio sia dovuta esclusivamente alla debolezza intellettuale dell’opposizione antisistema, sicuramente però, la mancanza di qualsiasi alternativa di sistema da un punto di vista ideale e teorico ha lasciato un’autostrada libera per il trionfo del neoliberalismo e dell’estrema destra.
Questo ci induce a mettere l’accento su un altro aspetto delle riflessioni di Gramsci, cioè al ruolo fondamentale che attribuisce agli intellettuali, soprattutto da un punto di vista “pedagogico”. Per Gramsci gli intellettuali (nel senso più lato del termine) avrebbero dovuto svolgere un ruolo “connettivo” ed “organizzativo” a stretto contatto con la classe lavoratrice, con le masse e con i subalterni. Solo attraverso questo collegamento avrebbe potuto penetrare nella società una nuova egemonia, premessa ineludibile per la rivoluzione in occidente. Si tratta di una riflessione particolarmente rilevante per chi, come noi, fa politica nell’Università di Bologna: un invito a considerare l’essere studenti come un impegno immediatamente politico, e al contempo un invito a non rinchiudersi nella “bolla” della città universitaria. Il processo di lunga durata che ha portato alla separazione degli intellettuali dal movimento reale, e quindi all’isolamento dei primi e alla scomparsa del secondo, è stato uno dei principali motivi della vittoria totale dell’ordine neoliberale prima, e del trionfo dell’estrema destra dopo; una delle ragioni per cui, da un certo momento in avanti, si è rinunciato a dar battaglia limitandosi alla “critica” dall’esterno del movimento. Potendo considerare la sconfitta storica del movimento operaio anche dal punto di vista della sua sconfitta culturale e ideologica, e quindi mettendo al primo posto la necessità di una nuova elaborazione teorica che sostenga un progetto combattivo, si deve rifiutare fermamente l’idea che ci si possa limitare a combattere con la penna: è un falso mito che possa ferire senza l’aiuto della spada. L’opposizione ai piani di guerra del nostro “nemico interno” passa inevitabilmente dalla ricostruzione di una forte connessione tra il mondo intellettuale militante e quello degli sfruttati.
1950
Anche la cosiddetta “Guerra fredda” presenta numerosi tratti in comune con il quadro internazionale dei giorni nostri. In primo luogo, maggior parte dei conflitti più recenti, dalla Siria all’Ucraina, non sono combattuti frontalmente da parte delle grandi potenze che dirigono il risiko mondiale. Maggior parte dei conflitti sono classificabili come “guerre per procura”, indipendentemente dal fatto che si presentino come “guerre civili” o “rivoluzioni”: in ogni guerra degli ultimi 30 anni almeno una delle parti in lotta è stata direttamente o indirettamente influenzata o controllata da Stati Uniti, Russia, UE o da altre potenze che intervengono nello scacchiere internazionale. Infatti, anche quei conflitti che hanno radici più profonde rispetto all’escalation di questi ultimi anni vengono inglobati e inquadrati all’interno della rivalità inter-imperialistica, assumendo talvolta questo duplice significato[5]. In secondo luogo, un fattore che non può non essere tenuto in considerazione è lo spettro dell’arma atomica, l’eredità più pesante della Guerra fredda che grava ancora sulle nostre teste come la spada di Damocle. È evidente che questo secondo elemento sia strettamente connesso al primo. Il deterrente della guerra atomica impone di combattere ai “margini” delle sfere di influenza visto che nessuno Stato può permettersi il rischio di ingaggiare uno scontro frontale.
Tra i vari conflitti “marginali” combattuti durante la guerra fredda, la Guerra di Corea (1950) si presta bene all’analogia. Prima che si giungesse alla distensione e alla “coesistenza pacifica”, la Corea fu il primo e il più intenso conflitto, in termini di spesa e di vite umane, combattuto non direttamente dai due blocchi. Sul 38° parallelo non si combatteva solamente una guerra civile, ma anche il primo confronto tra Stati Uniti e Unione Sovietica nel contesto del “contenimento” dell’espansione del campo socialista. Le analogie sono evidenti, e se ne possono tracciare di ulteriori dal momento che si è parlato abbastanza frequentemente di una possibile “soluzione coreana” al conflitto in Ucraina (ovvero la possibilità di una divisione del territorio conteso mentre prosegue un conflitto a bassa intensità).
A partire dalla guerra di Corea in Europa e in Italia si svilupparono dei movimenti che si mobilitavano preoccupati di una possibile escalation, fermamente contrari alla guerra e al coinvolgimento nei piani imperialisti degli Stati Uniti. In Italia il movimento prese il nome di “partigiani della pace”, tentando di costruire una continuità rispetto al movimento di liberazione di cui era molto viva la memoria. Consapevoli dell’importanza della solidarietà internazionale e dell’opposizione ai piani di guerra, numerosissimi militanti e cittadini impegnarono le loro migliori energie per fare breccia nell’opinione pubblica. Oltre ai “partigiani della pace”, e ben oltre la guerra di Corea, furono numerosissime le esperienze di diversa natura che si ponevano gli stessi obiettivi. Tra questi si possono citare l’esempio del Tribunale Russel promosso da Lelio Basso oppure l’esperienza dei movimenti antimperialisti contro la guerra in Vietnam. Il risultato fu duplice: si esercitò una effettiva pressione che facilitò in molti casi il ritiro delle truppe, e si rafforzò il movimento di massa che animò la stagione del lungo sessantotto. La solidarietà internazionalista si rivelava uno strumento fondamentale per fronteggiare l’imperialismo e per rafforzare il movimento anticapitalista; è così ancora oggi, e lo abbiamo sperimentato nelle piazze che si sono mobilitate per opporsi alle politiche colonialiste e genocidarie dello Stato israeliano.
La Guerra di Corea fu anche uno dei momenti più acuti della Guerra fredda, il primo in cui si ipotizzò seriamente la rappresaglia atomica contro la Cina, fiancheggiatrice della Corea del Nord. L’Unione Sovietica aveva da poco ottenuto l’arma nucleare per cui, ancora lontani dalla parità atomica, gli Stati Uniti avevano il coltello dalla parte del manico. Oggi che nove stati differenti dispongono dell’arma atomica la situazione non è migliorata, anzi, l’opzione nucleare è sempre presente, e nel dibattito pubblico se ne parla con una disinvoltura allarmante. Non ha senso perdersi ad immaginare ipotesi apocalittiche di una guerra termonucleare, ma è chiaro che la presenza degli arsenali nucleari è un problema oggettivo con cui bisogna confrontarsi. Per questo motivo può essere opportuno recuperare le riflessioni di chi per primo si confrontava con la possibilità di una guerra in uno scenario del genere. Nel 1959 il testo conclusivo del programma di Bad Godesberg della socialdemocrazia tedesca principiava così: “la principale contraddizione del nostro tempo consiste in questo: l’uomo ha scatenato la forza primigenia dell’atomo ed ora è terrorizzato dalle conseguenze di ciò”. Mentre si discuteva degli armamenti atomici nella Germania federale, la SPD, che pure con quel programma abbandonava qualsiasi prospettiva di lotta di classe, metteva in evidenza come la presenza dell’arma atomica stravolgesse completamente la politica internazionale. Anche Togliatti quattro anni più tardi avrebbe sollevato lo stesso problema in un famoso discorso poi intitolato “Il destino dell’uomo”: “l’uomo oggi, non può più soltanto, come nel passato, distruggere altri uomini. L’uomo può uccidere, può annientare l’umanità […] E la pace, a cui sempre si è pensato come ad un bene, diventa qualcosa di più e di diverso: diventa una necessità, se l’uomo non vuole annientare sé stesso.”
Nei mesi in cui si discute di un possibile riarmo europeo, nonostante non si parli ancora di un arsenale nucleare comune, le riflessioni di Bad Godesberg e di Togliatti rimangono utili ed attuali. La consapevolezza condivisa che una nuova guerra globale sarebbe stata devastante, e forse definitiva, portava a considerare la pace e la lotta contro il riarmo come una priorità inderogabile. Nonostante la parabola politica che stava già intraprendendo la SPD, oggi capofila dei partiti guerrafondai europei, il concetto espresso a Bad Godesberg ci sembra condivisibile: la necessità obbiettiva di mantenere la pace deve essere riaffermata con forza. La ricerca della pace però, non può essere uno slogan che si accompagna ad un supporto “critico” verso politiche militariste dell’Unione Europea (come fanno alcuni partiti a “sinistra” del PD), ma dev’essere una parola d’ordine con cui ricostruire un’opposizione antisistema. Essere per la pace, infatti, non vuol dire predicare la pace sociale. Occorre la piena consapevolezza che la pace può essere ottenuta solo con la lotta, non attraverso una lotta interstatale contro i nemici dei nostri governi, ma attraverso una lotta interna contro il nostro governo che vi si oppone. Per questo motivo, se proprio deve esserci una guerra, possiamo solo impegnarci affinché diventi civile visto che, come disse il partigiano Franco Venturi, “sono le sole che meritano di essere combattute”.
[1] La citazione integrale recita “Hegel nota in un passaggio delle sue opere che tutti i grandi fatti e grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa”
[2] Se il processo di decolonizzazione successivo alla Seconda Guerra Mondiale ha reso giuridicamente indipendenti la quasi totalità degli Stati del cosiddetto “Sud globale” (Palestina e Portorico sono forse le eccezioni più significative), non è cambiata la loro condizione di dipendenza rispetto a un pugno di paesi principalmente occidentali. Si può parlare in molti casi di ‘Neocolonialismo’ o di ‘Semi-colonialismo’, ma occorre cautela perché le differenti forme in cui si è riarticolato il rapporto di dipendenza tra centro e periferia sono differenti tra loro e sarebbe una forzatura rinchiuderle sotto un termine ombrello.
[3] Con una notevole semplificazione possiamo sintetizzare il concetto di “crisi organica” nel modo che segue: una situazione in cui la crisi economica e politica si avvicinano fino a fondersi, in cui la classe dominante perde la sua funzione dirigente e rimane solo dominante.
[4] La svolta protezionistica degli Stati Uniti non è iniziata con l’amministrazione Trump ma a partire dalla crisi del 2007-2008. «Del resto, è importante sottolineare, a questo riguardo, che la nuova politica protezionista americana non nasce a seguito di aggressioni militari o di svolte ulteriormente autoritarie nei paesi creditori, ma inizia a farsi strada molto prima, a partire dalla grande recessione del 2008 e dei problemi di debito conseguenti. L’attivatore del protezionismo è dunque la crisi finanziaria, che scatta prima del cosiddetto “trumpismo”.» Emiliano Brancaccio, Ignazio Visco, ‘Non-ordine’ economico mondiale, guerra e pace: un dibattito tra Emiliano Brancaccio e Ignazio Visco, in Moneta e Credito vol. 77 n. 308. p. 361
[5] Con questo non si vuole in alcun modo svalutare delle lotte di liberazione che rimangono guerre giuste a prescindere dal fatto che qualche potenza imperialista tenti di eterodirigere il popolo oppresso. Vale per la Palestina quanto per il Kurdistan.
«Conobbi la fatica dei lenti pattugliamenti attraverso la città, la malinconia delle notti passate al posto di guardia, la noia snervante delle lunghe vegli[1]. Questo è un passo dei Souvenirs de l’année 1848 di Maxime Du Camp che esprime la lentezza e la dilatazione del tempo che soltanto chi è stato sveglio di notte scoprendo il velo soffuso delle strade poco illuminate ha conosciuto davvero. Mi ha istantaneamente ricordato quella sensazione di sobrietà eccessiva che provavo al posto di guardia della piazza d’armi di Wangen an der Aare dove svolsi il servizio militare nel 2018. Il turno di guardia si esegue sempre nello stesso modo, come ogni cosa nell’esercito. In questo caso ogni quattro ore tre coppie di soldati si alternano nello svolgimento dei seguenti ordini: controllo dei cancelli principali, pattugliamento del perimetro della piazza d’armi e riposo. Sì, anche il riposo è un compito, anzi un dovere, ma è il dovere più dolce che si possa desiderare nelle notti dell’inverno bernese. Non esiste un modo per sfuggire al turno di guardia, tutti prima o poi ci devono passare. I più insubordinati, per qualche accidentale circostanza, però, rischieranno di doverlo fare più volte, magari per più notti di fila a dipendenza del grado di magnanimità dei propri superiori. Raramente mi sono sentito così solo, dissociato e privato di poter disporre del mio tempo come nell’inverno di quell’anno. Provavo spesso una sorta di piattume sensoriale misto alla volontà di comprimere la cassa toracica fino a implodere, lasciando ai camerati un compagno piccolo piccolo, una miniatura circoscritta dai miei contorni di giovane svizzero in età di leva.
Partii l’otto di gennaio da casa mia, nell’estremo sud del Ticino, camminai dieci minuti, arrivai alla stazione di Mendrisio, salii su un treno, mostrai l’ordine di marcia al controllore, cambiai a Lucerna, poi Olten e infine arrivai a Wangen an der Aare: circa quattro ore e mezza di tragitto, una barriera linguistica e culturale, nonché qualche montagna mi dividevano da casa ma ero sempre nella stessa nazione. La località di Wangen an der Aare prende il nome dall’omonimo fiume. L’Aare è un fiume grande, sinuoso, melmoso che nasce nelle Alpi dell’Oberland bernese per poi sfogarsi nel Reno, quel mostro lungo nelle cui acque scorre profonda la storia dell’Europa. Ricordo di essermi perso più volte tra le anse dell’Aare, sentendomi un degenerato a bordo della mitica Narrenschiff, la nave immaginaria che trasportava folli e derelitti senza patria per i territori germanici. Pochi anni prima, nel 2010, un camerata vi perse la vita annegando mentre si bagnava. Ricordo che il tenente della mia sezione ci mostrò un piccolo memoriale sulle rive del fiume, all’interno del villaggio d’esercizio, spiegandoci che adesso si faceva sul serio e che non si poteva più scherzare. Ho contattato un mio ex sergente per chiedergli se il memoriale esistesse davvero o se fosse stata semplicemente la proiezione di uno studente che all’epoca stava leggendo Mosse. Lui mi rispose che non ne era sicuro e chiese a sua volta al comandante della compagnia che non ne sapeva nulla. Però ne approfittò e scarabocchiò un appunto sul taccuino dicendo che avrebbe mandato le reclute a cercarlo. Questo è un classico giochetto che si subisce nell’esercito: cercare per ore qualcosa che non esiste. Col suo discorso il tenente Z. voleva far passare un messaggio: durante la scuola reclute alcuni come noi hanno perso la vita, il militare non è divertente. Non ricordo se l’avessi preso sul serio, non ricordo se fossi stato intimorito da queste storie o se, più probabilmente, trovavo ridicolo e gretto da parte sua accoglierci alla prima settimana di addestramento con questi racconti da fratello maggiore. Non mi aspettavo certo che potessero succedere certe disgrazie.
In Svizzera la leva è obbligatoria per gli uomini maggiorenni giudicati abili al servizio. È tuttavia possibile – o almeno ai tempi lo era ancora – rifiutarsi di compiere il servizio militare e svolgere alternativamente il servizio civile, comunque obbligatorio e di durata maggiore, quindi problematico per chiunque abbia un lavoro o voglia iscriversi all’università con la tranquillità di aver già saldato il proprio debito con la patria. In Svizzera fare il militare è una cosa importante: poter riportare sul curriculum vitae questa esperienza aumenta le probabilità di trovare un posto di lavoro in molti ambienti. Alle giornate di reclutamento, dove fummo sottoposti a tutta una serie di test fisici, medici e psicologici, il colonnello mi incorporò nelle Rettungstruppen, le truppe di salvataggio. Al momento avevo la (s)fortuna di essere abbastanza allenato, in salute e non completamente psicopatico. Mi ritenni favorito dalla sorte. Dai racconti dei più grandi era un privilegio appartenere a quelle truppe perché si trattava di una delle poche funzioni che potessero avere un’applicazione pratica nel mondo reale e offrire un servizio di sostegno alla popolazione in caso di catastrofe. Oltre all’educazione classica dei soldati che comprende la disciplina militare e il combattimento, la formazione dei sauveteurs è composta da moduli di addestramento come vigili del fuoco, che non si limitano all’estinzione di incendi ma che comprendono il salvataggio di persone che hanno subito intossicazioni da gas tossici in contesti critici. Avrei inoltre imparato a spostare macerie e, più in generale, a ricercare dispersi in situazioni di pericolo ambientale e nucleare, nonché fornire medicazioni di primo intervento. Tra tutte, erano queste le uniche cose mi affascinavano. Da adolescente non avrei mai pensato di fare il servizio militare, onestamente mi aspettavo che l’avrebbero abolito prima che toccasse a me, ma mi sbagliavo. Mi arruolarono. Uscito dall’ufficio del colonnello mi fu difficile realizzare di essere a tutti gli effetti un fanciullo dell’esercito. Sarei partito l’anno dopo, finito il liceo. Quando lo comunicai a mio padre mi parve che ne fosse sollevato. Crebbi coi suoi racconti di caporale dei fucilieri di montagna: le risse, le marce, le ferite, le fughe notturne e altre cose da maschi che mi narrò negli anni mi intimorivano, ma sembravano lontane, appartenenti ad un’altra epoca, senza i colori. Io accettai di fare il soldato di salvataggio perché pensavo davvero che avrei imparato qualcosa utile per aiutare gli altri, mi sarei opposto con tutta la forza se mi avessero incorporato coi fucilieri o nell’aeronautica. In quel periodo storico pensavo che “utile” ed “esercito” – anche se solo in un caso eccezionale come le truppe di salvataggio – potessero ancora stare nella stessa frase. Oggi è evidente che allora nella mia coscienza alloggiava il germe della follia.
Un mio amico (lo chiamerò “Y.”) fu arruolato nelle truppe di fanteria stanziate a Coira, nel Canton Grigioni. Durante un’esercitazione di artiglieria in dislocamento a Wichlen, nel Canton Glarona, un mortaio al posto di sparare la mina lontano, esplose. Un frammento della canna colpì un suo camerata il cui volto si srotolò sulla neve. Mi raccontò di avere dei ricordi frammentati della giornata. Si svegliarono alla solita ora, le 05:30, e dopo le consuetudini alle quali i soldati sono obbligati a partecipare, si recarono nei magazzini per caricare i furgoni di materiale bellico. In questo caso si trattava di tubi lanciamine da 8,1 centimetri con le rispettive munizioni. Y. si ricorda che quella mattina fuori «era tutto bianco», una luce accecante filtrata dalla nebbia rendeva invisibile la linea dell’orizzonte che divideva il suolo innevato dal cielo pallido. Arrivati alla zona di lancio, per iniziare l’esercitazione, i mortai vennero posizionati su di una collina dalla quale le mine, una volta lanciate, seguendo una traiettoria calcolata, avrebbero dovuto raggiungere l’altro lato del vallone ed una volta impattato il suolo esplodere. La profondità del fondovalle era appiattita dalla cenere bianca che avviluppava le foreste di conifere. Le mine volavano ed esplodevano sorde, invisibili nella profondità del bianco, da cui emergevano le creste aguzze delle Glaronesi. Le detonazioni sembravano dar voce a quei giganti di granito i cui lamenti baritonali ammonivano le truppe per averne profanato il cortile di casa.
Boooom.
Si percepì un’esplosione diversa dalle altre, un ruggito vicino e forte e poi le urla. I soldati che manipolavano il lanciamine furono sbalzati lontano dall’onda d’urto, riportando ferite lievi. Y., che si trovava a pochi metri dal luogo di ingaggio, si girò spaventato dal rombo orribile e vide un compagno che era seduto dentro un furgone a pochi metri dalla zona di lancio. Era accartocciato e immobile ma molle come un sacchetto pieno d’acqua. Ecco il particolare del viso, messo a fuoco in un secondo momento: la sua mascella ciondolava come una vecchia persiana scardinata prima di spalmarsi definitivamente sul manto bianco. Poi Y. non ricorda bene. Mi parla di commilitoni che correvano avanti e indietro, parla di una situazione di “caos generalizzato”, poi di essersi allontanato insieme agli altri a circa dieci minuti di cammino dalla scena dell’incidente. Gli scatti restano impressi ma sono difficili da sviluppare. Nessuno al momento era in grado di capire cosa fosse successo. Si fanno supposizioni: c’è stato un incidente, è esploso un lanciamine. Qualcuno parla di elisoccorso, qualcuno di ambulanza, qualcuno parla di vita e di morte ma nessuno sa nulla per davvero. Restano solo immagini decontestualizzate. Y. non provò dispiacere o tristezza, c’erano solo confusione e sigarette. «Siamo finiti in un capannone antipanico io e i cossovari con i tatuaggi sulle mani e questi piangevano come dei bambini. Io, tra l’altro, sono l’ultimo con cui S. si è fatto un selfie pochi minuti prima dell’incidente. S. si è rovinato la faccia e penso anche parte dell’esistenza, – bestemmia forte – cosa mi stai facendo tirar fuori» ridacchia cercando di sdrammatizzare. «Io mi tocco la guancia destra, aspetta che me la tocco» mi dice schiaffeggiandosi «ed è normale. A questo ragazzo hai cambiato la faccia, gli hai plasmato l’identità». Y. fu colpito dalla leggerezza con cui si insabbiò l’accaduto, la facilità con cui le consuetudini e le leggi rigide dell’organizzazione delle giornate che passano attraverso il verticalissimo flusso degli ordini tentarono di far dimenticare alla truppa questa disgrazia. I miei superiori mi dicevano sempre: «qui bisogna spegnere il cervello» e questo lo ricordo io. Il ragazzo non morì, ma ricordo che si riuscirono a trovare pochissime informazioni su internet riguardo all’accaduto.
Sicuramente bisogna fare delle precisazioni rispetto al racconto di Y., rispetto alla verità menzognera della testimonianza di chi assiste ad un avvenimento sconvolgente e poi prova a ricordarselo. Errori di percezione si accompagnano ad errori di memoria perché il tempo passa. Se avessi avuto l’occasione di parlare con degli altri testimoni oculari avrei presumibilmente ottenuto racconti un po’ diversi, più ricchi di particolari o più scarni, probabilmente le condizioni metereologiche sarebbero state differenti, la dinamica e l’orario dell’avvenimento anche. Tuttavia, degli elementi in comune sarebbero emersi. Il ragazzo è stato effettivamente ferito gravemente al volto da un frammento proveniente dall’esplosione di un tubo lanciamine da 8,1 cm mentre stava seduto in un furgone durante il servizio militare che forse stava svolgendo controvoglia. Rifacendomi a quel mostro sacro di Marc Bloch vorrei proporre una breve riflessione sui ricordi. Rammento di essere stato colpito dalle prime frasi de La guerra e le false notizie. Ricordi (1914-1915) e riflessioni (1921). L’allora sergente di fanteria, costretto a letto da una febbre tifoide che lo allontanò dalle trincee dopo cinque mesi di servizio attivo, decise di fare quello che gli storici dovrebbero sempre fare quando sono costretti a letto: scrivere.
«Utilizzerò il tempo libero per fissare i miei ricordi prima che il tempo ne cancelli i colori, oggi molto freschi e vivi. Non riporterò tutto. Bisogna concedere all’oblio ciò che gli spetta. Ma non voglio abbandonare ai capricci della mia memoria i cinque mesi straordinari che ho appena vissuto. Essa è solita fare del mio passato una cernita spesso poco giudiziosa. Si ingombra di minuzie senza interesse e lascia che svaniscano immagini di cui anche i minimi particolari mi sarebbero stati cari. La selezione che essa compie così male voglio che questa volta sia rimessa alla mia ragione»[2].
I ricordi hanno una fisionomia dai confini sfumati, come degli schizzi a carboncino: basta passare un dito sui bordi dei volti e delle sagome ed essi si fanno dinamici, cambiano forma, improvvisamente hanno un’ombra. In questo senso, mi piace parlare dei ricordi come di sistemi di accumulazione in movimento. Il materiale che li compone si genera nel momento in cui si vive l’esperienza, ma è la lenta sedimentazione dei significati e dei simboli che si attribuiscono a posteriori all’avvenimento a modificarne i lineamenti originali e a riempirli o svuotarli di senso. Bisogna fare i conti coi ricordi, in quanto umani e in quanto storici, in generale in quanto esseri che ricercano qualcosa. Parlare con Y. in un momento della mia vita in cui ero intento a scrivere le mie memorie sull’esperienza nell’esercito mi ha istintivamente spinto a riflettere sulle parole di Bloch. Le trincee erano un calderone di mitologie e leggende apparentemente assurde, ma che sono interessanti da studiare proprio perché ci restituiscono degli schemi mentali e dei processi primitivi a cui ci affidiamo in situazioni di incertezza e di rischio. Alle leggende dei franchi tiratori e al cannibalismo dei tedeschi si aggiungono, ad esempio il mito dell’“ufficiale spia” e il timore dei pastori, pronti a tradire la posizione di una batteria disponendo i capi di bestiame in un certo modo. Si potrebbe continuare con i miti delle crocifissioni e dei fiumi di sangue, nonché indagando sulla credenza dell’“esercito dei disertori” attivo nella terra di nessuno, ma ho deciso di non dedicarvi ulteriore spazio in questa sede. Ciò che mi preme dire provo ad articolarlo recuperando un saggio di Eric J. Leed intitolato Terra di nessuno che lessi ormai diversi anni fa ma che stranamente ricordo bene. L’autore tratta le tematiche dell’esperienza bellica e dell’identità personale durante la Grande Guerra. La rigogliosa vegetazione di credenze e miti imbevuti di simbologia che si creò nelle trincee non può essere ridotta all’idea che si tratti di falsità provenienti da edulcorate realtà fenomeniche. Questo “folklore bellico” andrebbe piuttosto interpretato come necessario al combattente, in quanto unica struttura in grado di colmare il solco tracciato tra le aspettative del conflitto e la realtà dell’esperienza di trincea[3]. Questa digressione, sia chiaro, non ha l’obiettivo di screditare l’importanza del ricordo come traccia per comprendere gli avvenimenti passati. Al contrario, più ci penso e più credo si tratti di un tipo di fonte fondamentale poiché rivelatrice di significativi processi psicologici che emergono se si è in grado di grattare l’intonaco che ne nasconde le vie d’accesso. Da qualche parte, non saprei dire dove o quando, Carlo Ginzburg utilizzando una similitudine descrisse le fonti come dei fogli di carta. Da un lato del foglio troviamo i contenuti più squisitamente referenziali, quello che la fonte ci dice letteralmente, ma sull’altro lato, che è il più importante, emerge il modo in cui la fonte è stata costruita, e senza il quale non si può dare per vero, o comunque provare a comprendere mettendolo al vaglio critico, il contenuto del fronte. Bisogna intendere come inscindibile il rapporto tra i due volti della fonte passando attraverso un filtro deformante, che va diluito il più possibile. Non ci si può mai limitare a «pesare le informazioni esplicite dei documenti. […] È necessario estorcer loro le informazioni che non avevano alcuna intenzione di fornire»[4]. Chiaramente i testimoni possono mentire, sbagliarsi o contraddirsi ma è necessario che parlino, è l’unico modo per comprenderli. È l’unico modo per sviluppare una «tecnica di verità»[5]. Y. chiaramente non mentiva ma si sforzava di raccontare un ricordo emotivamente turbante, forte, eccezionale, che è un serbatoio che si riempie e si svuota di significati, di particolari, di dettagli. Secondo la mia esperienza, nell’esercito la propensione ad utilizzare materiale bellico che è stato in passato definito “vetusto” esiste. L’Ufficio dell’uditore in capo della giustizia militare, nella comunicazione ufficiale dell’indagine sull’incidente che ho descritto sopra ci fornisce il nome del modello del lanciamine. Risulta essere del 1972. Il Corriere del Ticino nel riportare la dinamica dell’incidente non parla della datazione del materiale ma si limita a riportare l’accaduto in maniera asettica, dritta, telegrafica, esattamente come mi aspetto che venga riportata:
«WICHLEN (GL) – Quattro reclute sono rimaste ferite – di cui una in maniera grave – ieri sulla piazza di tiro di Wichlen (GL) durante un’esercitazione con un lanciamine da 8,1 cm di diametro. Stando ai primi accertamenti, all’origine dell’incidente vi sarebbe l’esplosione involontaria di una munizione.
La giustizia militare ha aperto un’inchiesta sull’accaduto […]. Specialisti si trovano sul posto per fare chiarezza sulle circostanze esatte dell’incidente. Secondo la RSI [Radiotelevisione svizzera], le reclute appartenevano tutte alla scuola di fanteria 12, che ha la sua caserma a Coira. Il milite rimasto gravemente ferito non si trova in pericolo di morte, ma ha subito vari interventi al viso. Stando al portavoce dell’esercito Daniel Reist, ha subito lesioni alla mascella, ai denti e al capo […]»[6].
Questo può voler dire tutto o niente, non saranno queste le pagine in cui accuserò l’Esercito svizzero di negligenza oppure di mettere in pericolo i soldati facendoli lavorare con del materiale d’epoca. Per questo servirebbe un libro. Ciò che posso dire è che pensando alla mia esperienza, il lanciamine del 1972 non è un’eccezione ma fa parte di una tendenza. Molto del materiale tecnico utilizzato era vecchio. Tra i vari macchinari che ricordo sarebbe peccato non citare la motopompa 83, una diavoleria industriale dotata di anima propria, rombante e puzzolente grazie alla quale pompavamo l’acqua dal fiume nei bacini idrici che ci servivano come deposito da cui attingere per spegnere gli incendi, aspettavamo solo che fosse lei a causarne uno. Dalle indagini della giustizia militare, ovviamente, risulta che l’incidente di Wichlen sia avvenuto per “un’errata manipolazione” del materiale d’artiglieria[7]. Non credo proprio, ma poco cambia, perché in altri casi c’è chi decide attivamente di togliersi la vita, come nel caso di un ragazzo in servizio a Bremgarten l’anno scorso, deceduto poco prima della fine della scuola reclute:
«La giustizia militare ipotizza che la morte di un giovane soldato avvenuta martedì durante un’esercitazione della Scuola reclute 45 sulla piazza d’armi di Bremgarten (AG) sia stata un suicidio.
“Sulla base dei primi risultati delle indagini, al momento ipotizziamo un suicidio”, ha dichiarato oggi a Keystone-ATS Florian Menzi, portavoce della giustizia militare.
Martedì l’esercito aveva spiegato che il colpo di un fucile d’assalto era partito all’interno di un veicolo militare e aveva raggiunto il milite alla testa. Alla televisione RTS un portavoce aveva precisato che “non è consuetudine portare un’arma carica in un veicolo”.
Il dramma si era verificato poco dopo le 9.00. Dopo le prime cure mediche ricevute sul posto, il soldato 22enne era stato trasportato in elicottero in ospedale, dove era morto in mattinata. I primi risultati dell’inchiesta della giustizia militare sono attesi fra alcune settimane»[8].
Non ci sono stati dei campanelli d’allarme? Che rabbia! Ogni anno succede qualcosa, ogni anno o quasi qualcuno perde la vita, rimane ferito gravemente, subisce traumi fisici o psicologici in maniera del tutto legale. Che si tratti di un incidente avvenuto durante un’esercitazione oppure che si tratti di un suicidio queste disgrazie accompagnano un esercito di milizia che nulla ha di sensato, a maggior ragione per un paese che l’ultima guerra che ha combattuto era una guerra civile durata un mese circa 180 anni fa. Se arrivasse la guerra gli svizzeri potrebbero al massimo ritirarsi nelle montagne come in nani. Questa è la mia emotiva sentenza: le alabarde vanno lasciate agli alabardieri. Purtroppo, però, la demilitarizzazione della Svizzera resta un sogno, in quanto il piano della Confederazione dei prossimi anni si inserisce perfettamente nella tendenza al riarmo generale dei paesi dell’Occidente:
Nel dicembre 2024 il Parlamento ha deciso di aumentare di 4 miliardi di franchi il limite di spesa per l’esercito 2025-2028, portandolo a 29,8 miliardi di franchi. Ha l’intenzione di raggiungere l’obiettivo di spesa militare dell’1% del PIL per il 2032[9].
Se non lo hanno già fatto, speriamo almeno che alcune di queste risorse economiche siano investite per dei nuovi lanciamine, giusto per evitare che esplodano. Sarebbe un bel modo per non perdere la faccia. Della mia esperienza ho ricordi vividi, forse perché infondo non è passato così tanto tempo. Quello che ho voglia di condividere lo lascio nell’ultimo paragrafo.
Un uomo muscoloso, altissimo e rasato a zero espande la mimetica gridando in dialetto svizzero tedesco. Sputa degli ordini che non riusciamo a capire, è il primodemente. Sembra arrabbiato, ma sta godendo, pensa che abbiamo paura di lui, si nutre di questa paura, la paura gli gonfia il petto, stira le nervose fibre clavicolari e gli squadra la mascella. Ha gli occhi sgranati e spiritati, ha pochi anni in più di me ed è più giovane di alcuni dei miei compagni. È una creatura senza tempo. Il simbolo del grado militare stampato sulle mostrine annulla ogni differenza di età e ridefinisce gli anelli della catena alimentare. Se hai un grado più basso devi eseguire, devi avere timore, l’insubordinazione non piace. Dormirai meno, mangerai freddo, verrai svegliato di notte a pulire gli scarponi già perfettamente puliti, starai in posizione di attenti nel freddo gelido per delle mezzore. Perché ridevi? Forse non riderai più davanti ad un pazzo che grida. Forse una mattina non avrai il tempo di rasarti la barba e allora quando il tenente lo noterà ti ordinerà di correre dal villaggio di esercizio alla caserma a fare il lavoraccio dicendoti: «hai 20 minuti, muovi il culo!». Mi ricordo che pur di non correre quei due chilometri con gli anfibi e il pacchettaggio completo con alcuni compagni ci rasammo vicendevolmente col coltello d’ordinanza. Ho avuto la pelle irritata per una settimana ma ero contento di averlo fatto. Queste immagini grottesche mi hanno accompagnato per circa 18 settimane. La pesantezza è condivisa con altri cinquanta ragazzi, che ti capiscono e che ti aiutano, sono compagni con cui litighi, ridi e ti azzuffi. Forse piangerai davanti a dei maschi, stremato e privato del sonno e andrà bene così, perché in quel contesto loro comprenderanno, ma tornati nella vita civile questi gesti resteranno femminili, inammissibili, dimostrando che l’intimità che si è stretta coi compagni non è che illusoria e funzionale ad un temporaneo schema di sopravvivenza collettiva. Pensavo che avrei imparato a salvare la gente, ma adesso non saprei srotolare nemmeno un tubo, non saprei mettere un respiratore, non saprei montare un bacino idrico. Le cose utili me le sono dimenticate. La pesantezza delle regole disciplinari invece me la ricordo bene, mi ricordo come si spara, perché sparare è di una facilità disarmante. Basta letteralmente premere il grilletto. Nell’esercito ho imparato tanto su di me, sull’ingiustizia, sulle armi, sul loro peso, sulle loro regole di ingaggio, ho realizzato con stupore con quale velocità un ferro gelido possa diventare incandescente, ho scoperto la naturalezza con cui ci si abitua ad avere un fucile d’assalto attaccato al proprio copro per buona parte della giornata, la gravosità di un oggetto ideato per annientare esseri umani diventa abitudine. Resta il fastidio di doverlo pulire quando si incrosta di fango, il fastidio di doverlo portare ovunque, di tenerlo d’occhio e curarlo come un piccolo animale. È un essere vivente, perché si anima quando sputa fuoco. Ho riflettuto sull’ordine degli ebeti, che crea tutto questo caos, ho finto di essere un tipo di maschio che non mi piace, ho represso tante emozioni, ho cercato di capire che cosa sentissi sulla mia pelle, cosa mi facessero sentire queste forze oppressive e che cosa facessero sentire ai compagni – mi ha sempre angosciato doverli forzatamente chiamare “camerati”. Abbiamo parlato tanto di tutto e abbiamo finito questa cosa insieme. Dall’esercito ho ereditato degli anfibi molto comodi che ho risignificato. Prima mi servivano per marciare e fare rumore picchiando i piedi sul cemento della piazza d’armi al ritmo cadenzato dalle urla dei sergenti, ora mi servono per resistere al freddo umido di Bologna mentre bevo all’aperto nelle sere d’inverno e fumo una sigaretta con la consapevolezza che domani non mi dovrò svegliare alle 05:30 e soprattutto che non dovrò vedere la bandiera della nazione in cui sono casualmente nato issarsi su un’asta congelata. Ho imparato che cosa significa non scegliere e fare, ho imparato a valorizzare il tempo, la notte, i piccoli sonni, i fugaci momenti di lettura e la forza liberatoria della bestemmia condivisa. Cosa sia rimasto di quei mesi, oltre agli stivali, qualche ricordo e la rabbia, l’ho capito leggendo quella frase di Du Camp: la «fatica dei lenti pattugliamenti attraverso la città, la malinconia delle notti passate al posto di guardia, la noia snervante delle lunghe veglie» e basta.
Bibliografia
Marc Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, Torino, Einaudi, 2009.
Marc Bloch, La guerra e le false notizie. Ricordi (1914-1915) e riflessioni (1921), Roma, Fazi Editore, 2014.
[1] Carlo Ginzburg, Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Macerata, Quodlibet, 2022, p. 126, dall’opera Maxime Du Camp, Souvenirs de l’année 1848, Paris, Hachette et Cie, 1876, p. 130.
[2] Marc Bloch, La guerra e le false notizie. Ricordi (1914-1915) e riflessioni (1921), Roma, Fazi Editore, 2014, p. 13.
[3] Eric J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella Prima guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 2014, p. 158.
[4] Marc Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, Torino, Einaudi, 2009, p. 69.
Quando il Presidente Mao Tse Dong accolse Richard Nixon, il movimento comunista internazionale restò sbalordito. Nessuno riusciva a spiegarsi per quale ragione la Repubblica popolare potesse accogliere un tale f4sc1st4 in pompa magna. Mao, con calma, rispose “i reazionari mi piacciono perché parlano chiaro”.
Ecco, dunque, che cosa ci piace di Meloni: che sia così spudoratamente f4sc1st4. E non ci sorprendono – anzi ci annoiano – tutti quei video-soccorso delle talpe di fanpage dentro le sedi dei fratellini d’Itaglia. Non ci aspettiamo nulla di più che questo: saluti romani, WilDu(s)c3 e l’altro tizio più cattivo di lui. Fanno ridere. E ci sarebbe da capire come chiudere le sedi di questa gentaglia piuttosto che ficcarcisi dentro per filmarli: il problema fondamentale non è che dicano WilDu(s)c3 o che guardino “M il figlio del secolo” facendo il tifo per il Du(s)c3 e sperando che non finisca appeso a testa in giù e pieno di piscio (e merda). Il problema è ciò che fanno in funzione di ciò in cui credono. Ma Loro – i f4sc1st1 – sono, almeno, riconoscibili. I f4sc1st1 al governo e i loro sostenitori (fasci anche loro) sono tutti uguali: non sanno mettere due parole in fila, odiano donne, arabi e comunità LGBTQI+ (anche se non sanno per cosa stia la sigla) e – paradosso del nuovo secolo – amano profondamente Israele. Noi, però, in quest’articolo non vogliamo parlare dei nostalgici del Ventennio, né tanto meno turlupinare i nostri e le nostre colleghe che ci leggono in questo momento con la solita manfrina su quanto sia reazionario il nostro governo, su come Meloni sia una serva di Washington (genuflessa con Biden, genuflessa con Trump), o, peggio ancora, spiegare perché il nostro governo – più che f4sc1st4 – sia profondamente neoliberista: sono tutte cose note.
Il nostro obiettivo, in quest’articolo, è un altro. Dalle parole di Mao Tse Dong, vogliamo cercare di spiegare perché nel nostro paese l’unica cosa peggiore della destra è il PD. Per farlo, procederemo per gradi. Anzitutto, cercheremo di tratteggiare il profilo generale di questa deforme massa pseudopolitica dal nome sterile, dalla grafica oscena e dal contenuto assente che chiamiamo PD, per poi definirne brevemente le responsabilità nella degenerazione dello Stato sociale nel nostro paese. Non abbiamo la minima intenzione di esaurire l’argomento in queste poche righe. Piuttosto, abbiamo intenzione di aprire un dibattito, di approfondire un problema e di cercare, per quanto difficile possa essere, di trovare un accenno di soluzioni.
Il PD, lo spirito del neoliberalismo
Il PD. Da dove cominciare? Ci siamo chiesti di che cosa parlare, quali riforme approfondire, quali personaggi nominare. Ci sarebbe il materiale per scrivere un libro. Anzi no, una trilogia. Immaginiamo il titolo: Il PD: la morte della sinistra (2000-2010); Il PD: il cadavere putrefatto della sinistra (2011-2016); Il PD: dai ancora non vi siete levati dal c4zz0? (2017-). Non ne abbiamo il tempo. Abbiamo allora deciso di cominciare tentando di dare una definizione a questa grigia sigla, “PD”[1].
I più pignoli noteranno che il Partito Democratico con questa denominazione nasce solo nel 2007 e che quindi noi sbaglieremmo a riferirci con questo epiteto (PD) all’intera storia del Partito Democratico della Sinistra (la sventurata sigla PDS) sommata a quella del partito dei Democratici di Sinistra (l’altrettanto sventurata sigla DS) e a tutte le volte che questi hanno fatto parte della coalizione dell’Ulivo insieme con La Margherita. Bene, tagliamo la testa al toro, facciamola corta: la marmaglia infeconda che ha governato questo paese negli ultimi trent’anni sotto il nome dell’Ulivo prodiano corrisponde in quest’articolo al PD, di cui ci serviamo più come di una categoria politico-analitica che di una esclusivamente storico-descrittiva. Il PD è la metafora della Sinistra che ha perduto la propria identità politica. “PD” significa fine delle lotte sociali, abbandono della classe lavoratrice e della giustizia sociale e quindi può racchiudere, deve racchiudere tutti coloro i quali hanno contribuito a ché ciò si realizzasse. In breve: non esiste cosa più partitodemocratica di eliminare l’aggettivo comunista dal titolo del proprio partito, Occhetto docet.
Fatta questa breve, ma necessaria precisazione, torniamo al discorso principale: come smascherare il PD? Come provare brevemente il suo carattere estremamente ed eminentemente reazionario e il modo in cui si fanno prendere per il culo tutti quelli che lo votano, o peggio ancora che se ne fanno in buona fede la tessera? Prima di tutto, abbiamo pensato di provare a vedere se il PD avesse mai fatto qualcosa “di sinistra” (che brutta espressione). In uno dei pochi bei libri obbligatori per superare gli esami qui ad Unibo[2], si trova scritto che se proprio si vuole restringere il campo, l’unica vera differenza storica tra Destra e Sinistra è che la prima ha sempre difeso l’inasprimento delle diseguaglianze, mentre la seconda ha sempre tentato di restringerle.
Dunque, la destra combatte per la diseguaglianza e la sinistra combatte per l’uguaglianza (in tutti sensi descritti dall’articolo 3 della nostra costituzione[3]). Da Berlusconi a Salvini, passando per Meloni, possiamo dire che per la destra l’esame è superato a pieni voti. Ma cosa dire dei vari D’Alema, Prodi, Rutelli, Renzi, Gentiloni, Letta e Schlein? Se teniamo come paradigma analitico la dicotomia uguaglianza/diseguaglianza, questi cialtroni e insieme con loro questo rigurgito democristiano che qualcuno ha avuto la brillante idea di chiamare Partito Democratico andrebbero messi nel campo della Destra. Sentiamo già il sudore del sedicente studente iscritto all’albo dei giovani democratici (e ad ogni sua formale estroflessione) scendergli goccia dopo goccia giù per il viso. “Ma come si permettono?! E i matrimoni egualitari?! E la cannabis a scopo terapeutico?! E l’europeismo?! E la libertà?!?!”. Intendiamoci, sono tutte cose molto serie, eccezion fatta per l’”europeismo”, che ad oggi ci pare descriva più il narcisismo di quello sfigato di Carlo Calenda ed un desiderio nascosto di distruzione nucleare, che non una vera “corrente politica”. E infatti, non perculiamo il piddino per la natura dei diritti civili, i quali costituiscono una parte fondamentale della lotta politica cui noi in primo luogo aderiamo. Qui, ci limitiamo a rilevare il consumarsi di un passaggio storico, di uno spostamento paradigmatico epocale avvenuto con la crisi della società salariale e la trasformazione della liberaldemcorazia in democrazia liberista, la quale ha per carattere fondamentale l’inesistenza di un piano politico che operi positivamente in ambito sociale e collettivo. È la vittoria della libertà del singolo, di classe elevata, sull’uguaglianza sociale progressiva della collettività in nome della riduzione delle differenze di classe. È la ragione neoliberale, che opera a destra e a sinistra, da destra a sinistra, senza freni né opposizione.
A questo punto occorre fare un breve riassunto delle responsabilità della classe dirigente del Partito Democratico nella storia recente del nostro paese. Indirettamente o direttamente, il PD e i volti che l’hanno colorato con l’incedere del tempo sono responsabili di: 1. intervento militare in Jugoslavia (D’Alema I); 2. Riforma del titolo V della Costituzione (Amato I, segretario Fassino); 3. Alleanza con Berlusconi, riforma Fornero del lavoro e delle pensioni, pareggio di bilancio in costituzione (Monti I, segretario del PD Bersani); 4. Jobs act, Buona Scuola e memorandum con la Libia con annesso tentativo di distruggere la costituzione italiana (Renzi I); 5. Essere contro il salario minimo e contro il Reddito di cittadinanza (Gentiloni, Martina, Zingaretti, Orlando); 6. Aver governato con la Leganord e aver sostenuto il governo Draghi, la consegna di armi senza fine all’Ucraina e ad Israele; 7. Aver accolto Carlo Calenda nelle liste elettorali per le elezioni politiche del 2022 (che ne uscì fondando il Terzo Polo); 8. Elly Schlein.
La somma di queste porcherie, che riassumono con un volo pindarico trent’anni di massacri sociali e corruzione della politica, ci fanno giungere ad una conclusione: nel preciso istante in cui Achille Occhetto ha pronunciato l’abolizione del nome Partito Comunista Italiano (oltre ad essersi segretamente cagato addosso mentre piangeva lacrime coccodrilliche) ha confermato l’abolizione del progetto politico che quel partito aveva rappresentato per 70 anni, attraverso la clandestinità sotto il f4scismo, la lotta di liberazione partigiana e contro gli intrighi del potere democristiano.
Non abbiamo la presunzione, né tanto meno l’intenzione di attribuire al PD le ragioni complessive della sconfitta politica del movimento operaio nel nostro paese. È nel solco del più ampio processo di disarticolazione della democrazia liberale a contenuto sociale (formatasi in Italia dopo il 1945) che il PD è nato ed ha cominciato ad operare. Esso è, diciamo, l’esempio più calzante della fine del ruolo di corpo intermedio tra Stato e Società che i partiti hanno svolto nel nostro paese nella seconda metà del XX secolo. Di questo bisogna parlare: non di quello che sarebbe potuto essere, ma solo di ciò che è e di ciò che fa il PD, in modo tale da comprendere l’intima funzione che svolge.
Le responsabilità del Partito Democratico risiedono essenzialmente nell’aver abbandonato la lotta per la giustizia sociale e per la difesa di una proprietà sociale diffusa in un programma politico di progressiva redistribuzione della ricchezza, divenendo – non meno di Thatcher in Inghilterra e Reagan negli USA – il più caloroso alfiere delle pratiche politico-economiche del neoliberalismo in Italia. Sono delle grandissime responsabilità, dalle quali riteniamo di dover trarre un’unica, urgente conclusione: il PD è l’ombra di sé stesso. È un partito già morto, che muore ogni giorno di più. Accanto a questo, si consideri il supino consenso ed il costante stato di genuflessione nei confronti di Washington che caratterizza la postura di ogni membro di ciò che oramai, più che un partito, pare essere divenuta una semplice (e malfunzionante) macchina elettorale. Come tale, il PD millanta una presunzione antipopolare. Ha abbandonato le istanze paradigmatiche della sinistra e, nel buio ideologico più totale, tenta di costruire la propria identità attorno ad un’opposizione che non c’è, che non fa: che non ha la forza, né la legittimità di fare.
Il PD sprofonda insieme con il parlamento. Dovrebbe far opposizione ad una destra che più destra non si può, e non fa nulla. In questa direzione, davanti alla linea politica internazionale del governo, caratterizzata esclusivamente dal “fare ciò che ordinano gli Stati Uniti” (che si tratti di Biden piuttosto che di Trump), compreso invio di armi sino ad esaurimento ucraini per distruggereh la Russiah! (da leggersi con voce di Rampini) e compartecipazione allo sterminio dei palestinesi a Gaza, ci aspetteremmo da parte della sinistra una forte opposizione, delle battaglie condotte in nome della pace, o quanto meno (quanto meno!) la condanna del genocidio condotto da Israele in Palestina.
Cerchiamo di fare una breve ricostruzione[4]. Com’è noto, sabato scorso, il peggio della politica, del giornalismo e del mondo dello spettacolo italiano è sceso in piazza con le lacrime agli occhi, il viso rosso di sudore e le mani nei capelli al grido “EU-RO-PA EU-RO-PA EU-RO-PA!!!”. Che qualcuno spieghi a questi signori che l’EUROPAH per la quale piangono e si dimenano ha appena ordinato un progetto di RIARMO dal costo di 800 MILIARDI di euro (650 da raggiungere con l’aumento della percentuale PIL destinato alla spesa militare sino all’1,5% e 150 a debito). La stessa Europa che ha rifiutato di fare debito in passato, facendo morire la gente, decide adesso sì di fare debito, ma per fare morire la gente.
È successo un disastro: dopo che Trump e Vance hanno bullizzato in diretta mondiale il Zelensky, per poi bloccare gli aiuti militari all’Ucraina dopo averla spremuta, schiacciata e spappolata come un’arancia a Ivrea, in tutta Europa si sono persi i punti di riferimento. Non si capisce più quale culo leccare. Ma, per nostra grande fortuna, in Italia esiste la Sinistra, coerente, guerrafondaia e complice del genocidio palestinese chiunque occupi la Casa Bianca.
Abbiamo assistito, negli ultimi due anni, ad una sostanziale equivalenza tra governo e PD (formalmente all’opposizione) in politica estera. Vediamo, insieme, in tal senso, un piccolo estratto di un intervento parlamento fatto a sinistra avvenuto prima dei fatti della Sala ovale.
Che cosa avrà mai detto, allora, il senatore Delrio (PD), davanti alla tracotanza guerrafondaia del f4sc1st4 Ignazio La Russa? Chiediamo scusa se non l’abbiamo messo tutto, ma non siamo riusciti neanche noi a finirlo:
Grazie presidente, signor ministro. I democratici italiani confermano il pieno appoggio alle Sue comunicazioni. Appoggio serio, perché Lei ha detto parole serie. Siamo molto in sintonia sulla politica estera. Anzi, direi che più che noi ad essere d’accordo con voi, siete voi d’accordo con noi, finalmente. Perché questa politica estera è stata decisa quando c’era un governo in cui era presente il Partito Democratico. Ricordo per esempio un po’ di polemiche della presidente Meloni nel 2016 quando il Governo Renzi decise di potenziare il contingente Nato in Lettonia. Questo per dire che facciamo adesso finalmente le stessi analisi[…]
Prrrrrrrrrrrrr. Si, una pernacchia. È questa l’unica cosa seria che ci sembra possibile poter affermare. Ma, volendo argomentare, allora non possiamo fare altro che ri-confermare la sostanziale identità tra PD e Governo in politica estera. Al parlamento europeo, al netto dell’inutilità politica dell’unico organo eletto democraticamente dell’Unione, PD e Fratelli d’Italia hanno votato per il riarmo. Più precisamente, i reazionari che parlano chiaro (Fratelli d’Italia) hanno votato compattamente per il a favore del Rearm Europe, mentre i reazionari nascosti (PD) si sono divisi tra dieci voti a favore e undici astensioni (Compagni!). Oggi, che Schlein scende in piazza unendosi al giubilo psicotico e guerrafondaio di Von Der Leyen e che Meloni si presenta camaleonticamente alla riunione dei volenterosi[5] dividendosi tra capre (Trump) e cavoli (Bruxelles), la situazione è sostanzialmente immutata. Se cambierà, pare che non sarà in meglio, staremo a vedere. In ogni caso, abbiamo elementi a sufficienza per affermare che prima di presentarsi formalmente come un’alternativa alla destra in questo paese, il PD dovrebbe confermare di esserlo sostanzialmente. Ma ciò che il PD è sostanzialmente è il nulla politico. Una scoreggia silenziosa.
È questo il grande dilemma a spirale che risucchia costantemente la sinistra e che, francamente, ce li fanno stare davvero molto, molto antipatici. È nell’incapacità di porsi come un’alternativa a ciò che dichiarano essere il loro opposto categorico che si spiega l’incontro tra Mao e Nixon.
Il PD dovrebbe dire che l’Italia è in recessione, che il 2024 si è chiuso con più di 1000 morti sul lavoro e che i contratti sono sempre più precari. Ma il suo spirito è neoliberista. Deputati e ministri del PD hanno compiuto il Jobs Act, hanno avallato Berlusconi, Monti, Draghi, hanno tentato di sventrare irreversibilmente la Costituzione italiana e ora si fanno complici di un riarmo psicopatico, che butta un sacco di soldi nel campo della morte, togliendoli dall’istruzione, dalla sanità, dal lavoro, dalle università. Non hanno speso una singola parola in favore della resistenza palestinese, né di condanna nei confronti del genocidio sionista. Non ci hanno capito niente e continuano a non capirci nulla sulla Guerra in Ucraina, per la gestione della quale si sono addirittura complimentati con La Russa e Meloni… mentre adesso gridano il disperato desiderio di continuare ad armare una guerra persa, perfettamente consapevoli di stare nutrendo così il più pericolo dei mostri: il mercato delle armi, della guerra, della morte. Non c’è possibilità di argomento. Sono prigionieri della loro storia: la storia di una reazione nascosta, che oggi cominciamo a smascherare.
Gt Ung
Bibliografia e fonti
Caporali, Riccardo; Uguaglianza; Bologna; Il Mulino; 2012.
[1] I più attenti sapranno già che cosa dovrebbe voler dire “PD” per far sì che “la carta del partito” la voglia “pure io”.
[2] Caporali, Roberto, Uguaglianza, Bologna, Il Mulino, 2012.
[3] Cit. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
[4] con la consapevolezza che, alla velocità con la quale si verificano i rivolgimenti geopolitici per la contraddittorietà della fase che stiamo vivendo, quando l’articola sarà uscito, potrebbe essere già cambiato tutto.
[5] Volenterosi di fare la Terza Guerra mondiale, cioè di spedire truppe di “peacekeeping” e di esportazionedemocratica in Ucraina.
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Che sventurati anni, quelli tra il 2014 e il 2016, quando Matteo Renzi ha svolto la carica di Presidente del Consiglio dei ministri. Genio del gioco politico, infame nella sua ambiguità, il fondatore di Italia Viva non si è risparmiato nulla: Renzi sindaco, Renzi segretario, Renzi presidente del Consiglio, Renzi senatore; Renzi quaquaraquà.
Sappiamo che la sua figura è controversa, e che alcuni sostenitori del Partito Democratico oggi si discostano indignati dalle opere del suo governo. Un po’ sospetto questo improvviso cambio di rotta, dal momento che l’attuale senatore ha rappresentato il PD per ben quattro anni[1], eletto con una maggioranza schiacciante alle primarie del 2013. Di certo, quest’elezione ha reso manifesto ciò che accomuna il PD e l’ex segretario: la capacità di trasformarsi più e più volte, senza un’idea, un programma politico, giocando a braccio di ferro con la destra su chi sia più capace a piegarsi alle dinamiche del neoliberalismo. Infatti, nei tre malcapitati anni in cui Renzi ha “guidato” il Paese, ha distrutto la tutela dei lavoratori in modi che sembrano incontrovertibili, tradendo il voto degli elettori che vedevano nel PD la famosa “alternativa”. Non lo è, ed ecco il mio ruolo in questo disvelamento: accompagnarvi arrabbiati e tristi oltre lo Stige come Caronte con le anime dannate. E come farvi veramente incazzare se non partendo dall’apice della distruzione del lavoro stabile? Sì, partiamo da qui: dal d.lgs. 23/2015, parte più scandalosa del “Jobs Act”.
Cari lavoratori e lavoratrici che siete entrati a far parte del mondo del lavoro a partire dall’8 marzo del 2015, mi rivolgo direttamente a voi in quanto destinatari delle norme del “contratto di lavoro a tutele crescenti”, che poteva benissimo essere chiamato “come eliminiamo per sempre la stabilità lavorativa”. Magari vi sentite sicuri ora che avete raggiunto un contratto a tempo indeterminato, dopo anni di abusi di tirocini non retribuiti, apprendistato e contratti a termine. Forse prima potevate stare tranquilli, ora, grazie alla “sinistra”, no.
Vi ricordate il tanto agognato e sudato Statuto dei Lavoratori?
La l.300/70 ha rappresentato nella memoria collettiva “l’ingresso della Costituzione nelle fabbriche”. Questa conquista è stata una pietra miliare delle battaglie del movimento operaio volte al conseguimento di un lavoro che fosse una vera “attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” (art.4 Cost.). Finalmente, i lavoratori vedevano riconosciuti i loro diritti fondamentali, individuali e collettivi, nei posti di lavoro.
Era possibile la manifestazione del pensiero, senza la possibilità di essere discriminati per questo, o per motivi legati al genere, all’etnia, al sesso, alla religione, all’orientamento politico e alla partecipazione ad un’associazione sindacale[2]. Le sanzioni disciplinari non erano più rimesse alla libera potestas del datore-padrone, ma disciplinate dalla contrattazione collettiva[3]. Era possibile riunirsi in assemblee e i sindacati avevano il diritto di utilizzare appositi locali per l’esercizio delle loro attività, che dovevano essere messi a disposizione dall’azienda[4]. Insomma, per la prima volta veniva riconosciuta la dignità del lavoro e dei lavoratori, con le dovute conquiste ancora da raggiungere.
L’art.18 S.L. è – o meglio, era – il fondamento senza il quale gli altri diritti riconosciuti dallo Statuto non potevano realizzarsi. Infatti, rappresentava lo strumento attraverso il quale rivendicare il diritto costituzionale alla stabilità lavorativa contro i licenziamenti ingiustificati. Il meccanismo era semplice: nel momento in cui un lavoratore veniva licenziato senza giusta causa o giustificato motivo aveva il diritto di adire il giudice e chiedere la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione e al risarcimento dei danni[5]. Quest’ultimo consisteva di tutte le retribuzioni che il lavoratore avrebbe conseguito presso il datore di lavoro dal momento del licenziamento al momento della reintegra, a cui si aggiungeva il risarcimento per i danni di qualsiasi tipo creati al lavoratore per questo abuso di potere. Erano, insomma, garantiti non solo la stabilità del posto di lavoro grazie alla reintegrazione, ma anche un risarcimento dei danni completo. Per esempio, se il lavoratore aveva appena contratto un mutuo in base alla sicurezza data dal contratto a tempo indeterminato, il datore di lavoro avrebbe dovuto risarcire anche questo danno.
L’art.18 S.L. dava un senso al contratto a tempo indeterminato, era uno strumento contro il precariato, contro le ingiustizie, contro la disoccupazione. Poi, con il tempo, è stato oggetto di picconate da destra, da sinistra, dall’Unione Europea, da governi tecnici come il governo Monti, fino a cadere definitivamente con il Jobs Act[6]. In ultimo, è stato parzialmente rianimato dalla Corte costituzionale. Tuttavia, in questa sede il mio intento è mostrare l’assetto giuslavoristico per come ce l’ha lasciato il nostro amato Partito Democratico, al fine di condividere assieme la delusione recataci da questa – neanche troppo metaforica – coltellata alla schiena, e per comprendere perché le masse popolari scelgono di non esercitare il diritto di voto o di appoggiare l’offerta politica repressiva, antidemocratica e populista della destra.
Giusta causa e Giustificato motivo; probabilmente peccando di troppa puntigliosità – mi scuserete, deformazione da aspirante giurista – vorrei spiegare cosa sia un licenziamento giustificato, ovvero cosa si intende per “giusta causa” e per “giustificato motivo”, in modo da avere un quadro generale del recesso dal rapporto di lavoro ed evidenziare quanto già scarsamente fosse garantito il posto di lavoro prima dell’intervento del magnanimo governo Renzi.
Nel parlare di Giustificato Motivo dobbiamo distinguere due fattispecie: il giustificato motivo Oggettivo e Soggettivo.
Parliamo di giustificato motivo Oggettivo ogniqualvolta il licenziamento si fonda su “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”[7]. Sono dunque legittimi i licenziamenti dovuti a una diversa organizzazione della struttura o all’opportunità di esternalizzare un’attività (appaltare, ecco il trabocchetto), oppure ancora, cosa più grave, a una scelta volta alla persecuzione del maggior profitto per il datore di lavoro.
Il giustificato motivo soggettivo, invece, si configura quando vi è un “notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore”[8]. Perché il recesso dal rapporto di lavoro sia legittimo, dunque, è necessario che il lavoratore versi in uno stato di colpa per il suo scarso rendimento, riconducibile ad una sua scarsa diligenza, prudenza o perizia.
Per Giusta Causa si intende “una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto” [9]. Per distinguere quest’ipotesi dal giustificato motivo soggettivo, la giurisprudenza e la dottrina hanno interpretato la norma nel senso di un “notevolissimo” inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro, ma anche come qualsiasi altra circostanza esterna al rapporto di lavoro, idonea a ledere il vincolo di fiducia tra le parti[10].
Ritengo di concludere da questo breve riepilogo che già dalla disciplina precedente all’avvento del Jobs act il datore di lavoro avesse anche troppa libertà di concludere il rapporto, persino quando questo fosse dovuto alla sola ingorda ricerca di un maggior profitto. La tutela del diritto del lavoro era già minima, occorreva davvero spingersi a tutelare i datori di lavoro anche quando licenziano ingiustificatamente? Vi chiedo: può un partito che si dice di sinistra realizzare delle riforme volte alla tutela esclusiva dei datori di lavoro, persino quando questi agiscono contra legem? Avrete capito a questo punto che la mia non è una domanda retorica. Non navighiamo di certo nel mare delle ipotesi: questo è ciò che il governo Renzi ha realizzato, e che il PD ha difeso e continua a difendere. A questo aggiungiamo l’aggravante che i destinatari di questa tutela sono le Grandi imprese (cioè, quelle che vantano più di 15 dipendenti per unità produttiva) e non solo le piccole imprese, dove il rapporto si consuma gomito a gomito. Parliamo di colossi multinazionali, come Eni, Enel, Amazon, ecc… imprese multimiliardarie che non dovrebbero essere tutelate con sfere di immunità, ma messe a ferro e fuoco dai lavoratori in quanto emblema dell’accentramento di capitale nelle mani di pochi padroni capitalisti, dello sfruttamento del lavoro e di territori altrui, e del profitto a qualsiasi costo, ambientale e umano.
Come è stata uccisa l’anima dell’art.18 S.L.?
In primis, il d.lgs.23/2015 ha previsto che la reintegrazione nel posto di lavoro a seguito di licenziamento illegittimo potesse realizzarsi solo in ipotesi limitatissime: licenziamento discriminatorio; licenziamento orale; insussistenza dell’inidoneità psicofisica; licenziamento della lavoratrice in stato di gravidanza o entro un anno dal matrimonio; licenziamento ritorsivo (che si configura quando il lavoratore viene licenziato per aver fatto valere i propri diritti); insussistenza del fatto materiale. Riguardo a quest’ultima ipotesi, vorrei sottolineare che prima del Jobs Act, a seguito della riforma Fornero, si parlava di una generica “insussistenza del fatto”. Nella piena, infame consapevolezza del legislatore, l’aggiunta del termine “materiale” ha impedito un’interpretazione estensiva di questa fattispecie, rendendo quasi impossibile una sua configurazione. Vi faccio un esempio per maggiore chiarezza: arrivate con un ritardo di 30 minuti per il crollo di un ponte e non potete in alcun modo arrivare in orario. Prima del Jobs Act, avreste avuto diritto alla reintegra per l’estraneità del fatto alla vostra sfera di competenza. Dopo il d.lgs. 23/2015, non dovreste materialmente essere in ritardo per poter essere reintegrati/e. Non importa se vi è crollata la casa addosso, non avrete comunque diritto al vostro posto di lavoro – avrete, in compenso, tutto il dovere di morire di fame.
Vorrei fare un altro appunto di non poco conto: non è facile dimostrare che il licenziamento sia avvenuto a causa di una discriminazione, nonostante i meccanismi presuntivi instaurati dalla giurisprudenza. E, se possibile, è ancora più difficile provare che si tratti di un licenziamento ritorsivo, perché in questo caso non esistono neanche presunzioni di cui potreste avvalervi.
Sono queste le ragioni per cui sostenevo che l’art.18 sta alla base dell’intero Statuto dei lavoratori. Se non si ha la sicurezza del proprio posto di lavoro, non si eserciteranno più i propri diritti sindacali. Il Jobs Act ha reso la reintegrazione un’eccezione, e carta straccia la maggiore conquista dei lavoratori dalla nascita della Costituzione.
È evidente il rimando alle politiche della flexsecurity provenienti dall’Unione Europea. Più lavoratori in uscita, più lavoratori in entrata! Semplice, no? Peccato che sappiamo fin troppo bene che il lavoro per tutti non c’è poiché nessuno vuole rinunciare a un centesimo di profitto. La flexsecurity è la precarizzazione che diventa regola, obiettivo politico e normativo, ed è inaccettabile una legittimazione dell’instabilità lavorativa da parte di un partito di sinistra. A nulla serve reclamare la buona fede del Jobs act, che avrebbe dovuto semplicemente scoraggiare i contratti flessibili e rendere più appetitoso il contratto a tempo indeterminato per i datori di lavoro. È un controsenso rendere flessibile anche l’unico contratto stabile millantando una lotta alla disoccupazione o alla precarizzazione. La sua illogicità è palese a chiunque viva oggi il mondo lavorativo. Se l’obiettivo fosse stato intervenire sui contratti flessibili, sarebbe stato allora il caso di sopprimerli o, tuttalpiù, di apportare maggiori garanzie per i lavoratori con i medesimi contratti. All’inverso, il governo Renzi ha reso il contratto a tempo indeterminato un contratto con recesso ad nutum [11], e ha anche liberalizzato il contratto a tempo determinato prevedendo che non avesse bisogno di cause giustificatrici per i primi tre anni. Ma i contratti flessibili sono un’altra storia e potete contare sul fatto che la racconteremo.
Se non vi ho ancora convinti, non vi preoccupate. Il viaggio prosegue ancora più mesto e incollerito.
Chiediamoci: cosa succede in tutti gli altri casi in cui il licenziamento è ingiustificato, ma non rientra nelle ipotesi di reintegrazione? Il lavoratore ha diritto ad un risarcimento dei danni.
Ci avete creduto? Non potevano mica prevedere un risarcimento globale, se no chi mai avrebbe licenziato senza motivo? Quindi, per aiutare il povero padrone miliardario, il governo Renzi ha deciso di prevedere in questi casi una mera indennità. Quest’ultima non vuole risarcire i danni creati al lavoratore, ma semplicemente fingere di porre un ostacolo alla tirannia del datore di lavoro. Infatti, il valore di quest’indennità non è legato a fattori inerenti al danno, come l’età o il carico familiare del lavoratore, ma si computa in base all’unico criterio dell’anzianità di servizio. Da un minimo di 2 a un massimo di 12 mensilità, il datore di lavoro sarà condannato a corrispondervi una somma pari a 2 mensilità per ogni anno di servizio. Avete lavorato 3 anni presso di lui? Bene, se – e, ripeto, se – vincerete la causa, avrete diritto a 6 mensilità. Vi sembrano tante? Anche al governo Renzi sono sembrate troppe. Quindi, ha introdotto un altro meccanismo di distruzione del diritto al lavoro: l’offerta di conciliazione. Nel momento in cui manifesterete la volontà di instaurare una causa contro il licenziamento, il datore di lavoro avrà il diritto di proporre quest’offerta, agevolata da esenzioni fiscali, che sarà pari alla metà della somma a cui avreste diritto nel remoto caso di vittoria del processo. Preferireste 3 mensilità subito o 6 mensilità tra 7/8 anni di spese processuali? Condizioni strutturali impongono a tanti di optare per il primo termine. Non è da biasimare chi accetta, lo è chi ha previsto una tutela tanto irrisoria del diritto al lavoro. La sinistra dovrebbe essere fatta dai lavoratori per i lavoratori. Non dai padroni per i padroni.
Eccovi ora dall’altra parte, e l’inferno alla fine è un po’ meglio di come ve l’ho descritto, perché sul Jobs Act è intervenuta la Corte costituzionale. Non c’è alcun merito della politica parlamentare. Neanche quelle cose inutili[12] del Movimento 5 Stelle sono riusciti a intervenire. Il focus della protezione dei diritti si è spostato ufficialmente dalle Camere alla Magistratura nelle sue varie forme. Quasi tutti gli aspetti dignitosi della disciplina lavoristica che ancora – e chissà per quanto – conserviamo sono il frutto del lavoro di giuristi che credono nella Costituzione. È evidente come il loro sforzo isolato non sia sufficiente, è necessaria una rappresentanza che combatta davvero per la salvaguardia dei lavoratori per tentare quantomeno di riequilibrare le dinamiche del mercato del lavoro.
In parte vi ho già parlato delle questioni del d.lgs. 23/2015 illegittime da un punto di vista costituzionale, preferisco dunque riportare direttamente alcune parole di questa lodevole (stavolta non ironicamente) sentenza[13]:
[…] Il «diritto al lavoro» e la «tutela» del lavoro «in tutte le sue forme ed applicazioni» (art. 35, primo comma, Cost.) comportano la garanzia dell’esercizio nei luoghi di lavoro di altri diritti fondamentali costituzionalmente garantiti. Il nesso che lega queste sfere di diritti della persona, quando si intenda procedere a licenziamenti, emerge nella già richiamata sentenza n. 45 del 1965, che fa riferimento ai «principi fondamentali di libertà sindacale, politica e religiosa», oltre che nella sentenza n. 63 del 1966, là dove si afferma che «il timore del recesso, cioè del licenziamento, spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia a una parte dei propri diritti». […]
[…]Alla luce di quanto si è sopra argomentato circa il fatto che l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte appena citata, prevede una tutela economica che non costituisce né un adeguato ristoro del danno prodotto nei vari casi, dal licenziamento, né un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente, risulta evidente che una siffatta tutela dell’interesse del lavoratore alla stabilità dell’occupazione non può ritenersi rispettosa degli artt. 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost., che tale interesse, appunto, proteggono. […]
Dunque, la disciplina del licenziamento ingiustificato nelle grandi imprese, a seguito della pronuncia di illegittimità della Consulta, è parzialmente cambiata. Le causali necessarie per la reintegrazione nel posto di lavoro, purtroppo, rimangono le stesse. Tuttavia, l’indennità che il datore di lavoro deve corrispondere a titolo di risarcimento dei danni non è più legata al solo criterio dell’anzianità di servizio, perché questo automatismo è contrario agli articoli 4 e 35 della Costituzione. Si rimette invece al giudice la determinazione dell’indennità entro i parametri previsti dal Decreto Dignità del M5S: da 6 a 36 mensilità. La scelta dell’entità indennitaria tiene conto di diversi parametri così da fungere da adeguato ristoro al danno subìto. In ogni caso, si tratta di un gravissimo passo indietro nella tutela del diritto al lavoro, se consideriamo che il risarcimento previsto dallo Statuto dei Lavoratori poteva ammontare a entità superiori alle 50 mensilità, oltre alla necessaria reintegrazione.
Vi chiedo, per l’ultima volta, un partito sedicente di sinistra, “paladino dell’interesse dei lavoratori”, proporrebbe mai una disciplina che si pone nettamente in contrasto con le disposizioni costituzionali di tutela del lavoro? Concludiamo che il PD si è delegittimato come rappresentante della sinistra. Non è un’alternativa valida, ed è proprio l’assenza di un punto di riferimento forte a piegare le masse popolari ai più beceri nazionalismi. È la paura che dilaga e ci inonda. La fragilità dell’oggi dovuta alla disoccupazione, al precariato, alle guerre, alla crisi ambientale, non ci deve atterrire e paralizzare, ma spingere a creare per noi stessi questa famosa alternativa. Capisco il senso di impotenza, ma abbiamo ancora una flebile voce: l’8 e il 9 giugno si terrà un referendum. Saremo chiamati a pronunciarci su cinque quesiti: uno di questi sarà proprio l’abrogazione del Jobs Act. Mi auguro che quanto avete letto possa esservi utile per sfruttare al meglio uno dei pochi spazi democratici che possiamo ancora – e, anche qui, chissà per quanto – rivendicare.
Zia Polly
Bibliografia e fonti
Carinci, R. Tamajo, P. Tosi, T. Treu, Diritto del lavoro. 1. Il diritto sindacale, 8° edizione, Utet Giuridica, Milano, 2018
Carinci, R. Tamajo, P. Tosi, T. Treu, Diritto del lavoro. 2. Il rapporto di lavoro subordinato, 10° edizione, Utet giuridica, Milano, 2019
Legge 20 maggio 1970, n. 300 – Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento. GU n.131 del 27-05-1970
Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23 – Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183. GU n.54 del 06-03-2015
3 decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (“Decreto-dignità”) Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese. GU n.161 del 13-07-2018. Convertito con modificazioni dalla legge 9 agosto 2018, n. 96. GU n.186 del 11-08-2018.
[5] Art.18 l.300/70 “Reintegrazione nel posto di lavoro”: Ferma restando l’esperibilità delle procedure previste dall’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604 il giudice, con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell’articolo 2 della legge predetta o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro.
Il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno subito per il licenziamento di cui sia stata accertata la inefficacia o l’invalidità a norma del comma precedente. […]
[6] D’ora in poi, sineddoche per indicare gli artt. 1-9 d.lgs. 23/2015
FINALMENTE CI VEDIAMO: GIOVEDÌ 27 MARZO ALLE 16:00 IN AULA SEMINARI 2.
Racconteremo cosa è il Coordinamento Area Scettica e discuteremo insieme delle indicazioni nazionali per i programmi scolastici pubblicati dal governo, che sostiene posizioni sull’insegnamento e sullo scopo della storia inaccettabili, contro le quali dobbiamo mobilitarci in quanto studenti e studentesse, dottorand3, ricercator3 e docenti.
«Solo l’Occidente conosce la storia»
Abbiamo letto queste parole molte volte in questi giorni, increduli sulla viltà che ci vuole non solo per sostenerle, ma persino per scriverle, nero su bianco, e farne l’introduzione alle direttive per l’insegnamento della storia nelle linee guida per l’insegnamento del 2025. Una sequela di assurdità, fortunatamente lontane da quello che abbiamo imparato nelle aule di questa università e che non siamo disposti a ritrattare. Non possiamo pensare che chi di noi lavorerà nelle scuole sarà obbligato a insegnare una storiografia nazionalistica e reazionaria. Non accettiamo che il valore critico e trasformativo del nostro mestiere sia distrutto con un colpo di spugna.
«Gli altri le hanno queste cose?»
Per il ministro Valditara e per Galli della Loggia è chiaro come il sole il primato della tradizione occidentale sulle altre, le quali infatti non trovano minimo spazio nei programmi ministeriali. Una presunta superiorità europea compare, non a caso, anche nel discorso di Vecchioni nella piazza blu e gialla di questo sabato 15 marzo: Socrate, Manzoni e Shakespeare non sono ingenui portavoci di una cultura comune europea, ma diventano ciò che, in virtù di un valore intrinsecamente occidentale, giustifica la nostra elevazione a continente superiore agli altri. Niente di diverso dal solito e criminale paradigma coloniale, che adesso rischia di diventare il perno orgoglioso della nostra identità europea e italiana.
Almeno una cosa positiva c’è nelle indicazioni scolastiche di Valditara. Sono “materiali per il dibattito pubblico”, e noi lo chiamiamo giovedì 27 marzo nella nostra sede. Ci vediamo in aula Seminari 2 di San Giovanni in Monte.
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Il 15 marzo 2025 a Roma, città eterna, si sono svolte due manifestazioni: l’una in favore della Terza guerra mondiale e l’altra contro la Terza guerra mondiale. Della prima, indetta da Michele Serra, frequentata da Carlo Calenda, Elly Schlein, Nicola Fratoianni, Maria Elena Boschi, e poi Luciana Litizzetto, Claudio Bisio, Fabio Fazio, eccetera, non ci preme parlarne. Sono incommentabili e non meritano alcun commento. Basti pensare che hanno deciso di riunirsi a Roma per festeggiare uno dei più grandi crimini sociali mai compiuti dai tempi del draghiano Whatever it takes: 800 miliardi da destinare alla guerra, e non alla pace, non alle scuole, non al lavoro, non alla transizione energetica, non all’università, alla sanità, all’istruzione. Soldi chiesti e celebrati per LeonardoSPA. Ci sembra così assurdo, che non vale la pena perdere tempo a discuterne.
Vogliamo raccontare piuttosto che c’è un’altra Italia. Che, mentre l’analfabetismo borghese festeggiava uno dei più colossali investimenti nel mercato bellico della Storia dell’Unione Europea, altrettante migliaia di persone sono scese in piazza: lavoratori, Sindacati di base, organizzazioni studentesche, parti del movimento hanno attraversato Roma per gridare un secco NO alle politiche del riarmo.
Dopo l’assemblea nazionale di Potere al Popolo!, il corteo svoltosi a qualche isolato dal raduno piddiano della borghesia radical chic italiana con l’elmetto ha dato voce a quella parte del paese che non vuole la guerra e che non vuole che neanche un euro venga destinato alle multinazionali delle armi. Questa parte del paese cresce sempre di più e, ad oggi, corrisponde al 39% dei cittadini, secondo un sondaggio Ipsos presentato dal Corriere della Sera. È una buona notizia. Rilanciamo per questo la necessità di organizzare una manifestazione nazionale contro la guerra e contro un’Unione Europea produttrice di morte, genocidio e devastazione.
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Era il 2014 e avevo dodici anni quando regalarono a mia sorella un CD stranissimo: la copertina recava una massa di capelli ricci e neri sulla sommità di un alberello davanti al mare, come a fare da chioma; intorno, alcuni animali (dell’arca di Noè?) osservavano questa strana pianta circondata da una corona di luce (lo spirito santo?), mentre il mare si spaccava in due lasciando intravedere l’orizzonte (Mosè? Le acque del mar Rosso?). Il titolo era anch’esso particolare: Museica, il museo, la musa, o le due cose assieme. Ed infatti quell’album era proprio un museo, si capiva fin dalla canzone introduttiva, la Canzone all’entrata, un ammonimento alla libertà e alla scorrettezza dell’album. Nei titoli delle canzoni, espliciti e impliciti riferimenti al mondo delle arti visive, a grandi artisti, a correnti famose come il dadaismo. Chi diamine è l’autore di questo concept album così allucinato? Caparezza. E chi è?- pensai. Un rapper, anche se nessuno ormai lo chiama più così. Mio padre ridacchiò, accostandolo istintivamente ai suoi pezzi più inflazionati di inizio anni 2000, Fuori dal Tunnel su tutti. Ma il museo mi aveva rapito, e rientrai subito per passeggiare e perdermi tra le tele-canzoni. Il primo contatto con la profondità della musica di Caparezza era avvenuto.
Capisco perfettamente che tutto ciò può sembrare altisonante, decisamente troppo. Il nome è buffo, capa-rezza, la “testa riccia”; è un rapper, e il rap ha quasi sempre qualcosina di cringe, anche per noi che ci siamo cresciuti in mezzo. La voce nasale, questi motivetti strani, l’immediata associazione al ritornello tarantellato di Vieni a ballare in Puglia: per gli adulti è un piacevole passaggio in radio, per molti tra noi un guru conosciuto al massimo superficialmente, cui guardare con un minimo di distacco per la pesantezza dei testi e delle canzoni. Un po’ a metà insomma, non un rapper di quelli classici e neanche un musicista che si possa separare completamente dall’hip hop. Ma se cerchiamo di abbandonare i vari topoi musicali che consideriamo gusto personale (e che spesso sono invece abitudine), le canzoni, gli album e i testi di Caparezza aprono una botola verso più profonde stratificazioni di significato. Non che debba piacere per forza, ovviamente, né deve essere universalmente considerato geniale: questo che state leggendo è un semplice esercizio di sguardo suggerito da un fan di lunga data, cioè io, perché si possano apprezzare assieme i significati che Caparezza dissemina nei suoi brani.
Dovremmo restare qui un bel po’ per completare quest’opera. È chiara la “svolta interiore” che la discografia di Capa sta prendendo, almeno da Prisoner 709, con un maggiore fuoco sul suo percorso e su argomenti più introspettivi che pure lo hanno sempre accompagnato (Capa sente di stare invecchiando e diventa sempre più “brontolone”? La politica lo ha deluso particolarmente?). Ciò che mi interessa sottolineare qui e ora è piuttosto un certo carattere delle sue canzoni, anche di quelle meno esplicite, che talvolta è negletto o ridimensionato per comodità intellettuale: il loro carattere politico. Wikipedia afferma che Caparezza «è di tendenza politica comunista», probabilmente esagerando un po’ grossolanamente certi aspetti del suo modo di vedere il mondo e la società. Forse è vero, anche se Capa, da quel che so, non si è mai esplicitamente definito tale. Ad ogni modo, nelle sue canzoni emerge una profondissima consapevolezza della realtà di classe, specificamente di quella italiana, e delle sue problematiche sociali, trattate spesso con grande radicalità. Non pretendo esaustività, né di trasformare Caparezza in un eroe del proletariato, ma solo di condividere qualche elemento per vederlo con occhi diversi: e andate a recuperarvi dischi e canzoni, spaccano.
Caparezza era partito da Molfetta, in Puglia, a metà degli anni ’90, per studiare belle arti a Milano, dove aveva sperimentato l’infame antimeridionalismo che in quegli anni veniva peraltro alimentato dalla Lega Nord, il partito populista di estrema destra nato qualche anno prima: a questa realtà è consacrato l’ironico Inno Verdano, in cui Caparezza prega di poter entrare a far parte dello stato della Verdania, cioè la Padania secessionista di Umberto Bossi, che entra anch’egli implicitamente nell’inno (All’inizio quel tizio che s’attizza al comizio / pare un alcolista alla festa di San Patrizio). Anche l’inflazionatissima Vieni a ballare in Puglia contiene, tra gli altri elementi, un nerbo di critica all’atteggiamento tipicamente nordico nei confronti dei pugliesi, simboleggiato dal turista vacanziero coi sandali che osserva e idealizza superficialmente una regione piagata dall’inettitudine dei politici, degli imprenditori e dalla mafia. Tutto ciò accompagnato da una strumentale vicina alla tarantella, un richiamo sì alla tradizione pugliese, ma anche all’origine di quel tipo di danza, ispirata alle convulsioni malate di chi era morso dalla tarantola: danzando ci si libera dal male, si tramandava. La canzone di per sé è una critica evidente alla politica regionale e nazionale, alla mala edilizia, alla distruzione del paesaggio e dell’ambiente (l’Ilva di Taranto come esempio eminente), oltre che alla mafia, ed era questo l’aspetto critico che interessava al suo autore; il pubblico più mainstream e persino le radio lo oscurarono spesso e volentieri, riproducendo solo il ritornello simpatico e incalzante per nascondere, coscienti o no, la tragicità del brano.
Vieni a ballare in Puglia è il brano più famoso dell’album del 2008, Le dimensioni del mio caos, il mio preferito: consiglio di ascoltarlo dall’inizio alla fine, perché è un concept album incentrato sulla società italiana del 2008, con le dovute trasformazioni liriche e artistiche, puntellato da skit e racconti teatrali. Una ragazza, Ilaria (sì, quella di Ilaria Condizionata) viene catapultata in un “varco spaziotemporale” dal 1968 al 2008 ed incontra Caparezza, attraversando con lui e senza di lui l’Italia del governo Berlusconi III. Naturalmente, c’è il tema del ’68 tradito (o realizzato?): in Ilaria Condizionata, la protagonista in poco tempo si trasforma in una giovane adulta moderna e stereotipica, frivola e superficiale, drogata dalle prime apparizioni dei social network e dalle sirene del consumismo, con le relative contraddizioni della società del 2000 (L’hanno vista al corteo con la maglia del Che /Urlava, “No, alla vostra mercé” / Mentre ingoiava cioccolata Nestlé). Tra questa e la tarantella pugliese, La Grande Opera. Nella narrativa del disco, il nuovo marito di Ilaria deve costruire lo “spazioporto pugliese” una grande opera infrastrutturale di quelle che garantiscono uno sbocco di capitale verso le tasche di mafiosi e imprenditori abbottonati con la politica. Tutti la vogliono, è l’opera della provvidenza: una grande opera / macchina economica / che i massoni rifocillerà / È la grande opera / stupido chi sciopera / quante bastonate prenderà / Grandi opere che iniziano / ma che non finiranno mai. Stupido chi sciopera: e il terzo personaggio di questo viaggio, introdotto solo dopo qualche canzone, si chiama Luigi delle Bicocche, un nome nobile per una vita immiserita ma eroica. Fa il muratore, ed è verosimilmente la controparte del padre di Caparezza, Giovanni. In un’epoca di progressiva distruzione dei diritti dei lavoratori, in un’epoca di precariato sempre più istituzionalizzato, è lui l’eroe a cui tutti dobbiamo la nostra libertà: Eroe (Storia di Luigi delle Bicocche) è il capolavoro di Caparezza. La costruzione musicale della canzone, il canto lirico di sottofondo, l’intro di tromba da marcia militare, gli accordi malinconici, il testo, tutto restituisce la profonda difficoltà esistenziale di una condizione di sfruttamento e di precarietà: Su, vai a vedere nella galera / Quanti precari sono passati a malaffari / quando t’affami ti fai nemici vari. Tra gli altri, il richiamo al call center sembra una eco de Il mondo deve sapere di Michela Murgia, uno dei racconti fondanti della sottocultura (e ormai cultura) del precariato. Ma allo stesso tempo c’è la forza, la resilienza, la capacità di ribaltare questa situazione. Una trasfigurazione eroica: Sono un eroe perché lotto tutte le ore / Sono un eroe perché combatto per la pensione / Sono un eroe perché proteggo i miei cari / Dalle mani dei sicari, dei cravattari. E poi un richiamo interessante in fine di ritornello: Ti mostrerò che cosa so fare con il mio superpotere; quale superpotere? La semplice forza individuale o qualcosa di più?
Cerco di avvicinarmi ad una sorta di conclusione, ma desidero menzionare qualche altro brano che potrebbe stimolare la sensibilità politica degli ascoltatori. Caparezza s’è sempre occupato tematicamente della vanità dei media e del loro sempre progressivo scadimento nella più totale superficialità: Io diventerò qualcuno è la riproposizione capovolta del costituente Partito dell’Uomo Qualunque, che dalla “normalità” ricercata al di là dei partiti tradizionali post 1945, passa nel brano alla gloria ricercata spasmodicamente e a qualunque costo attraverso la fama mediatica, dall’Uomo Qualunque all’Uomo Qualcuno. Ma questa fama mediatica sarà comunque oggetto di un monopolio economico e contenutistico, come emerge da The Auditels Family (Habemus Capa, 2006): Noi decidiamo chi va in onda / E chi va al diavolo / i conduttori ci invocano / Con i palmi sul tavolo. Pubblicità, programmi spazzatura e un monopolio (persino familiare, vero Mediaset?), in una canzone con un clima vittoriano da fantasmi evocati, visibili ed invisibili, presenti e non presenti ma comunque agenti nel mondo dei vivi. Ma non pare essere solo la televisione o il sistema dei media: è la borghesia – qualunque cosa significhi oggi – ad essere il bersaglio tematico del primo Caparezza; nella sua avidità cieca d’accumulazione, come in Ninna nanna di Mazzarò, dove il personaggio di Verga diventa la costante della vita del protagonista della canzone, una personificazione del capitalismo dal quale bisogna guardarsi (Ninna nanna, ninna nò, sta arrivando Mazzarò / Resta sveglio che sennò, porta via quello che può). Nella sua vanità ed eccessività pasoliniana, come nel matrimonio fastoso di Felici Ma Trimoni (gioco di parole col pugliese trimone, stupido o idiota), la messa in scena di un moderno matrimonio combinato non su base familiare ma patrimoniale tra un ricco e viscido imprenditore e la superficiale figlia di un altro imprenditore: Caparezza è il prete che osserva e celebra la fetida unione. La Chiesa Cattolica ritorna ironicamente in Messa in Moto, dove il vero Dio sgrida l’istituzione ecclesiastica e le pratiche vetuste e pompose dei fedeli su una strumentale rockeggiante, per poi sgommare via in motocicletta. Non siete stato voi è un’accusa diretta alla classe politica, al suo marciume e alla sua corruzione, sulla quale non mi dilungo perché è di per sé molto esplicita (Non siete Stato voi / Col busto del duce sugli scrittoi / E la costituzione sotto i piedi, onorevole La Russa è lei?).
Insomma, gli spunti sono numerosi, e ne ho lasciati fuori molti per non annoiare. Sono andato ad impressioni, senza seguire un ordine cronologico preciso, rischiando magari di fare un po’ di confusione. Il mio consiglio è ovviamente di ascoltarsi le canzoni, ma più gli album interi: certi sono davvero delle opere narrative da seguire nel loro svolgimento, come nel caso di Museica. La musica ci può dare qualcosa di più del semplice sollazzo auditivo. Caparezza è sempre stato considerato un rapper “elevato” e talentuoso per i suoi incastri e le sue rime pregne di contenuto. Ma se è questo che pensiamo, allora facciamo il passo in più: osserviamo, nei suoi brani, cosa dice, cosa critica, a chi fa riferimento, quali sono i suoi modelli. Non è un’operazione del tutto semplice, perché sia chi legge queste parole, che chi le ha scritte c’è dentro fino al collo. Ma si parte dalle piccole cose no? Perché non cominciare quantomeno dalla musica?
Jean Cujun
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Una grande scritta “TRANS” svetta sul corteo dell’8 marzo di Bologna. È evidente che l’attacco violento della lettera scritta da ArciLesbica – e sottoscritta da UDI nazionale – dello scorso 28 febbraio non ha ottenuto gli effetti sperati. Almeno non qui, non a Bologna, dove un corteo ruggente è sceso in piazza a fianco delle sorelle trans e sex workers, alle quali Area Scettica esprime pieno sostegno e solidarietà.
Bologna, 8 Marzo 2025
Nonostante gli innumerevoli tentativi di silenziare il portato conflittuale delle rivendicazioni dell’8 marzo, questa giornata di lotta è riuscita a rompere il falso clima da festicciola anche questa volta, portando alla luce le pesanti contraddizioni che attraversano le piazze transfemministe italiane. Il clima già teso degli ultimi mesi è stato ulteriormente appesantito dalla già citata lettera aperta, scritta da un gruppo di donne che da anni ha reso la “critica al femminismo trans” il suo cavallo di battaglia. Ci riferiamo ad ArciLesbica Nazionale, che lo scorso 28 febbraio ha rinnovato il suo invito a destoricizzare il corpo, riaffermare il binarismo e identificare il dato biologico con il genere, individuando la “donna biologica” come unica degna destinataria delle lotte femministe.
Alla luce del clima grottesco creato dalle TERF (Trans-Exclusionary Radical Feminism) italiane, è necessario oggi più che mai storicizzare la piazza dell’8 marzo, ribadendo con forza che le nuove istanze di lotta – che hanno finalmente conquistato un nuovo e dovuto spazio in seno al movimento – non sovrascrivono le rivendicazioni e i traguardi raggiunti nei decenni passati. Proprio attraverso questa necessaria operazione storica Area Scettica si discosta e si oppone a qualsiasi movimento volto a parcellizzare ed escludere con mezzi violenti tali istanze.
Dà speranza la piazza dell’8 marzo di Bologna, dove si è respirato un clima di rabbia generale, rivolta tanto verso la violenza patriarcale e machista quanto verso quel femminismo TERF che strizza sempre di più l’occhio alle destre. Prendere posizione pubblicamente e tematizzare gli slogan dell’8 marzo è più che mai fondamentale in mobilitazioni storicamente eterogenee come quelle femministe.
La voce transfemminista non potrà mai essere silenziata.
Cosa rende la Storia così attraente? Certo, a tutti sarà capitato di incontrare chi, al contrario, non sopporta sentir parlare di date e di eventi, ma questi non sono altro che la punta di un enorme iceberg. La Storia è indubbiamente altro. Le ragioni che spingono al suo studio possono essere le più svariate, eppure, devo ammettere che il mio avvicinamento puberale alla disciplina è stato dettato soprattutto dall’imprescindibile mutabilità della stessa. La Storia non è statica. E, per tale ragione, mi piace immaginarla come un fiume in piena (da cui le mie origini polesane), dove nuovi alvei si formano, altri seccano e nuove isole nascono. Tuttavia, non si tratta di un flusso del tutto incontrollato. Esistono degli argini: il tentativo antropico di controllare questo moto, di dargli una direzione, un orientamento.
Allo stesso modo, i personaggi illustri della storia sono soggetti alle oscillazioni interpretative, innalzati a idoli o rigettati in una profonda damnatio memoriae.È naturale: ogni epoca avrà i suoi paladini e i suoi mostri sotto al letto. Ma queste oscure ombre talvolta riemergono, trascinate a forza per farne opportuno uso politico. Così, il paladino è cacciato, spogliato del suo trono e del suo valore di orgoglio, mentre ci si accorge che quel mostro – il reietto – in verità, non incuteva così paura. Non credo sia possibile opporsi a tale mutamento tout court. Fa parte dello stato delle cose. Credo, tuttavia, che spetti allo storico il compito di preservare la memoria dalla menzogna, consapevole della mutazione dei valori e capace di discernere in una fonte documentaria le sue finalità dichiarate dalla presenza di elementi incontrollati e dichiarazioni non esplicite.
Pertanto, adottare una dose sana di scetticismo non dev’essere una delegittimazione della disciplina storica in quanto mera narrazione – una favoletta da raccontare – ma significa essere consci del rapporto ambivalente e traballante tra verità e finzione, del fatto che dalla finzione è possibile trarre discorsi veri e agire per mantenere aperto uno spazio di riconsiderazione, contro narrazioni dogmatiche e fisse. Oggi, in seguito alla rivoluzione storiografica e ai processi di decolonizzazione (intendiamoci, spesso di sola facciata) della seconda metà del Novecento, lo storico si ritrova dinanzi all’immenso compito di rivalutare quanto ci è stato tramandato da una disciplina storica ottocentesca ancella dei nazionalismi e dell’eurocentrismo. Molti, troppi, sono stati esclusi da questo racconto, rigettati sotto tappeti e rinchiusi in armadi dall’odore di naftalina. Sono la scuola di Storia Globale e i subaltern and post-colonial studies a tentare di dischiudere una realtà ignorata, di riabilitare quanti hanno subito vessazione e di ripagare un debito che, nella sua enorme portata, richiederà ancora molto, molto lavoro. Ma ciò non costituisce solamente il tentativo di perseguire una narrazione storica più completa, più realistica o, si presume, veritiera. Si assiste, invece, alla traduzione in pratica storica dei nuovi approdi politici.
Ma veniamo al dunque: il continente africano fu, più di tutti, danneggiato dalla narrazione teleologica imperialista, prescritta in pillole giornaliere non solo agli europei, ma agli africani stessi, affinché interiorizzassero un costrutto d’inferiorità e concordassero nella necessità della colonizzazione. Naturalmente, quale diretta conseguenza di questa scellerata ricerca di giustificazione, fu necessario apportare radicali mutazioni narrativa: la manipolazione della Storia. Ne consegue che tali trattazioni storiche appaiono (oggi, ai nostri occhi e dinanzi all’evidenza dei fatti riconsiderati) deliberatamente mirate ad occultare l’esistenza di una ricca storia africana, costituendosi, al contrario, come una faziosa storia di europei in Africa, intenzionata a erodere la memoria del continente, corromperla, disgregarla. Facciamo un esempio e pensiamo ora ad un caso piuttosto celebre: il personaggio della regina di Ndongo-Matamba Njinga Mbande (1583-1663). Per quale ragione? Perché della sua persona si è detto e scritto di tutto (pure Netflix ci ha dedicato una serie), e da diabolica idolatra, aberrante mostro e perfetto contrario della “civiltà europea” (in questo luogo ci interesserà determinarne l’uso politico esercitato da tali categorie), è divenuta motivo di orgoglio nazionale angolano e patrona della nazione. Ma prima di procedere a tracciare questo breve (lo è?) riepilogo delle distorsioni e manipolazioni subite dalla sua figura, dirò il giusto necessario per inquadrarne il contesto; dunque, della ragione per cui di lei si scrisse e si disse molto.
MANIPOLARE
Giunta nel 1624 al trono del regno di Ndongo – regione storica attualmente locata in Angola, il cui nome è dovuto proprio al titolo di Ngola, sovrano di Ndongo – dovette subito fare i conti con l’emergenza della piovra coloniale e nella sua sottospecie lusitana. Per tutta la sua vita dovette respingere l’aggressione portoghese, ma, dinanzi ad oculate scelte di tipo politico-religioso (sarebbe erroneo considerare queste due sfere quali compartimenti stagni), riuscì nel preservare l’autonomia del regno. A tal fine, fu assolutamente necessario slegare il regno dal monopolio commerciale e diplomatico lusitano, costudito gelosamente dalla unificata corona iberica asburgica prima e di Braganza poi. Njinga, inserendo il proprio regno nel contesto globale della guerra dei Trent’Anni (1618-48), trovò come proprio (ma effimero) alleato le emergenti Province Unite e la loro apparentemente inarrestabile compagnia commerciale. Tuttavia, se questa esperienza durò brevemente, considerata la ritirata improvvisa degli olandesi, essa insegnò alla regina che gli europei, seppur di religioni e lingue diverse, non differivano in merito alle intenzioni: riempire le proprie navi di schiavi [1]. A questo punto, la vera soluzione provenne dalla sfera religiosa. Non a caso, la condizione di idolatra di Njinga permise in primo luogo ai portoghesi – in accordo alla bolla papale Dum Diversas del 1452 – di muovere guerra legittima contro nemici di Cristo e, di conseguenza, di «ridurre in perpetua schiavitù le loro persone, e di annettere e conquistare anche i regni, i ducati, le contee, i principati e gli altri domìni».
Era dunque necessario procedere secondo una strada alternativa: divenire cristiani seguendo, in un certo senso, le orme dei vicini re del Kongo. Al pari di questi, Njinga intuì le potenzialità legittimanti del cristianesimo quale elemento consolidante del potere sovrano e, circondatasi di ferventi missionari alla ricerca di prodigiose conversioni (una vera e propria ossessione!), riuscì a mettersi in contatto con il papa stesso, a tal punto che papa Alessandro VII (1655-67) in una lettera le si riferì come «nostra amatissima figlia in Cristo Regina Anna Singa». Pertanto, non sarebbe erroneo affermare che il Pontifex Maximus avesse compiuto un’azione contro gli interessi del monarca lusitano. E, in effetti, ciò si spiega in un cambio di registro delle politiche papali, le quali, diversamente dalle bolle quattrocentesche, tentarono di arginare lo strapotere iberico nel mondo coloniale, rivendicando la propria universalità spirituale e la propria autorità di pastore ecumenico.
Al di là delle divagazioni contestuali (temo di avervi già annoiato…), a detenere penna e inchiostro furono in primo luogo i missionari, i quali trasmisero al pubblico europeo il primo immaginario della persona di Njinga: una regina in origine selvaggia e diabolica ma che, a seguito della conversione (come fosse una pozione magica!) si trasformò in una pacata e devota sovrana cristiana. Gli scritti missionari costituiscono una tipologia di fonte documentaria estremamente peculiare, tuttavia, consapevoli della marcata parzialità di ogni testo, esse ci ricordano come la storia delle missioni sia altrettanto una storia di potere, di disparità dei sessi, ma anche di resistenza e di sincretismo.
Consideriamo, ad esempio, la relazione del cappuccino Antonio da Gaeta, La maravigliosa conversione alla Santa Fede di Cristo della regina Singa, pubblicata nel 1669 a Napoli da Francesco Maria Gioia. La conversione, tema onnipresente nei racconti missionari secondo lo schema tipico del topos letterario, era da intendersi come momento di cesura tra un prima e un dopo: una vera e propria «metamorfosi» dell’individuo. Oltretutto, nel caso in cui il convertito fosse un sovrano – come nel nostro caso – si lasciava presupporre la prossima adozione del cristianesimo da parte dell’intero popolo. Ciò aveva indubbiamente un effetto rassicurante nei confronti di un vasto pubblico di lettori, in quanto comprovava con i fatti la validità del cristianesimo quale unica e vera fede. Infatti, l’accezione propagandistica del documento emerge chiaramente nel momento in cui la conversione è definita «meravigliosa»: termine che rievoca la dimensione miracolosa, quasi inspiegabile, dell’evento. Infatti, se da un lato la regina Njinga appariva come un essere feroce e sanguinario: «[…] beveva il sangue humano, e se ne vantava, e aspergeva il corpo all’hora, che per offerir sacrifici al Demonio uccideva come bestie gli huomini, e quando si faceva dare il giuramento di fedeltà da’ suoi vassalli, gli costringeva à bere anch’essi, com’ella faceva, di detto sangue.»
Dall’altro, a seguito della conversione, la regina appariva come radicalmente mutata: «Nell’istesso modo havendo io ritrovato la Regina del tutto diversa da quello, che mi era stato rappresentato, dico, e & affermo, ch’ella non è più quella, ch’era; è divenuta un’altra, tutta piacevole, cortese, affabile, pacifica, pia, e divota; mercè alla virtù del Santo Crocifisso, che sà operar queste metamorfosi, e queste maraviglie.»
Si assiste ad un passaggio da una totale estraneità ad un’ideale somiglianza; una tecnica stilistica in cui, quanto più l’avversario veniva enfatizzato in termini disumani o diabolici, tanto più aumentava la grandiosità della vittoria ottenuta su quest’ultimo, vale a dire la conversione. Naturalmente, gli autori della conversione – i membri dell’ordine dei cappuccini – si servirono di questo tipo di relazioni per riportare in Europa le proprie storie di successo, comprovando l’efficacia e l’utilità del loro operato.
Questo genere di racconti fece largo utilizzo di categorie stereotipizzanti e di argomentazioni proto-razziste. Troviamo così delle tassonomie dell’indigeno: dal buon selvaggio disposto ad accogliere il messaggio cristiano all’uomo-bestia dedito al cannibalismo. Inoltre, la presenza di imprese perigliose, digressioni su condizioni ambientali al limite tra inferno e paradiso e illustrazioni di riti diabolici trovava un riferimento stilistico nella letteratura cavalleresca di viaggi in terre e popoli distanti, al fine di alimentare nell’immaginario europeo la straordinarietà delle missioni. Un altro tipo di relazioni, destinate ad una circolazione più ristretta e spesso richieste da parte delle autorità stesse, mirava invece ad una dettagliata indagine di tipo geografico ed etnografico sulla base di un’osservazione diretta dei fatti. Si trattò di informazioni cautamente riportate, da non confondere come un esercizio di libera curiosità, ma in virtù della loro utilità nel rendere più efficace l’intervento in un luogo di missione. È il caso della IstoricaDescrizione de’ Tre’ Regni Congo, Matamba, et Angola scritta dal cappuccino Giovanni Antonio Cavazzi da Montecuccolo, in cui, diversamente dalla precedente opera di Antonio da Gaeta, scompare la dicotomia di Njinga-diabolica e Njinga-cristiana. Evidentemente, la monumentale opera in tre volumi non fu pensata per un vasto pubblico, ma per educare i membri del proprio ordine ad una conduzione più efficace della missione, fornendo ogni dettaglio utile acquisito nel corso della sua esperienza di missionario.
Ad ogni modo, la fortuna letteraria di Njinga sopravvisse, a tal punto che il marchese di Sade in La Philosophie dans le Boudoir scrisse: Zingua, regina dell’Angola, la più crudele delle donne, immolava i suoi amanti non appena venivano tra le sue braccia; spesso faceva combattere i guerrieri davanti ai suoi occhi e diventava il premio del vincitore; per lusingare il suo animo feroce, si divertiva a pestare in un mortaio tutte le donne che rimanevano incinte prima dei trent’anni. Oltre a testimoniare come la sua figura fosse divenuta parte di un comune (e in forma terribile) immaginario culturale europeo, la pratica sessualizzante la rigettò (quale sineddoche per l’Africa intera), in una sfera “altra”, inferiore, perversa. Non a caso, anche nella rappresentazione pittorica ad opera di Achille Devéria del 1830, Njinga appare adornata di una maestosa corona e gioielli, quale ogni regina che si rispetti, ma con seno esposto (inusuale ritratto di regalità se confrontato con le controparti europee). È dunque evidente come l’appetito del gusto europeo alimentò quanto fu detto in negativo nella relazione di Antonio Cavazzi, nella quale le descrizioni maggiormente scabrose e immorali circa i costumi africani vennero slegate dal proprio contesto, e rielaborate per trasmettere l’immagine di un perpetuo stato di caos, in cui vigeva ogni legge contraria al codificato diritto naturale: dalla poligamia al cannibalismo, dall’infanticidio all’idolatria.
Achille Devéria, Regina Nzinga Mbande, stampa di François Le Villain, 1830.
L’opera di Cavazzi, tradotta e pubblicata nel 1728 in edizione francese e in tedesco nel 1794, è stata di certo consultata anche dal filosofo tedesco G. W. Friedrich Hegel, considerando il materiale utile in essa contenuto a sostegno del principio di un’Africa esclusa dal movimento della Storia. Infatti, adoperando una rilettura basata sull’ascesa e sul progresso occidentale, Hegel attinse di frequente alle vicende biografiche dell’ormai celeberrima Njinga Mbande. Tuttavia, durante le proprie lezioni universitarie, il filosofo si si guardò bene dal citare esplicitamente il nome della regnante, non solo al fine di deformarne la figura, ma soprattutto per negarne una propria individualità. Secondo Hegel, la regina africana avrebbe comandato un gruppo di guerriere, le cosiddette «furie», poste a capo di un «regno donna» in cui uomini e bianchi venivano massacrati in modo indiscriminato; i bambini uccisi senza rimorso; il concetto di famiglia deriso; e l’ordine “naturale” sconvolto. A ciò seguirono innumerevoli manuali storici del continente africano (specificatamente della sua parte subsahariana), il quale si componeva di società la cui memoria storica veniva preservata per mezzo della tradizione orale: modalità che gli europei giudicarono inferiore in termini di sviluppo. Piuttosto, oggi diremmo che fu scritta una storia dell’europeo in Africa, dove l’anno 0 non corrisponde alla venuta di Cristo, ma all’arrivo del colonizzatore.
RIABILITARE
Il recupero di Njinga (e, con essa, della realtà sommersa e taciuta del continente) avvenne primariamente grazie alla lotta per l’indipendenza degli angolani a partire dal 1961. Chi, più di lei, si ingegnò con ogni mezzo contro l’occupante colonizzatore? Chi più di lei poteva incarnare una figura eroica, simbolo di resistenza? I fasti di un glorioso passato vennero così riesumati dalla stessa memoria orale che, precedentemente, fu considerata sintomo di arretratezza. Emerse così una nuova Njinga: non una deviata sessuale o spietata cannibale, ma una leader orgogliosa, vittoriosa in guerra e pilastro della resistenza al mostro colonialista.
L’indipendenza dal Portogallo, riconosciuta nel 1975, fu seguita da un’atroce guerra civile, secondo il tipico schema delle guerre per procura della Guerra Fredda. Tra gli schieramenti, fu il People’sMovement for the Liberation of Angola (MPLA) ad appellarsi nuovamente alla mitica regina angolana, tanto che, al fine di saldare l’unità del paese, vennero piantate le radici identitarie della nazione proprio nella storia seicentesca di Njinga. Se mai visiterete Luanda, noterete che ella appare pressoché ovunque: il suo ritratto è inciso nella moneta e la sua statua (opportunamente rimosse quelle coloniali) eretta dinanzi al museo nazionale di storia militare.
Moneta di 20 Kwanzas commemorativa del 2014, riportante il profilo di Njinga con le date di nascita e morte.
Tuttavia, anche in questo caso, il paradigma rimane lo stesso: si tratta di un racconto utile, di una versione modificata a trasmettere una determinata idea e a richiamare un determinato ideale. Sorge spontaneo chiedersi: chi fu veramente Njinga? Difficile dirlo, e, probabilmente, all’uso del singolare andrebbe contrapposto un plurale simbolico. Qualcuno però, di recente, ci ha provato. La realizzazione della serie Regine dell’Africa: Njinga a produzione yankee (Netflix) è indicatore di quanto la sua figura sia divenuta conosciuta, a tal punto da generare profitto. Ad ogni modo, per quanto ricordo di questa miniserie, ogni aspetto eticamente non conforme alla cultura egemonica occidentale è taciuto. Dove sono i riti? Dov’è la poligamia? Ancora una volta ci ritroviamo dinanzi a una riproduzione parziale e mediata in cui, evidentemente, lo scopo encomiastico appare storpiato secondo sterili principi di omogeneità culturale. Evitare intenzionalmente di rappresentare l’intero percorso di Njinga (di fatto abbandonò la poligamia per aderire a pieno alle prescrizioni cristiane in materia di sessualità) rischia inevitabilmente di non rappresentare l’enorme valore delle sue scelte, oltre che essere una grave inaccuratezza.
In una considerazione a latere,la storia di Njinga risulta oltremodo utile nella comprensione di come alcune categorie non siano altro che costrutti. Infatti, poiché donna, i portoghesi usarono il suo sesso come fattore delegittimante della sua sovranità, importando nell’orizzonte culturale del Ndongo categorie che gli erano estranee. Per Njinga risultava dunque necessario richiamare a sé i propri sudditi, e, nel farlo, si alleò alla tribù nomade-mercenaria degli imbangala (confondibili con gli Jaga del Kongo). Questi codificarono una serie di leggi (ijila), le quali regolarizzarono un rituale che avrebbe permesso il riconoscimento sociale di una donna nel rivestire il ruolo di guerriero, status tipicamente attribuito alla mascolinità. Il rituale consisteva nel sacrificio di un proprio figlio (da intendere come rinuncia alla propria fertilità femminile?), da cui, dopo averne pestato il corpo in un mortaio, si otteneva il maji a samba, un olio “sacro”. Questo, mischiato a erbe e carbone polverizzato, veniva versato sull’iniziata, indotta in uno stato di coscienza alterato dall’ausilio di musiche, tamburi e danze. A questo punto, il rituale poteva dirsi completato, e l’iniziata – ora guerriero – attraversava vera e propria transizione di genere.
Lo stesso rito fu pertanto sostenuto da Njinga allo scopo di farsi riconoscere come leader presso i suoi, permettendole di sfuggire dall’opera di delegittimazione portoghese, basata proprio sul suo essere donna. Probabilmente Hegel faceva riferimento proprio a questo episodio: Njinga, secondo l’inversione del ruolo di genere, decretò da un lato che i suoi sudditi le si riferissero al maschile e, dall’altro, che i numerosi concubini – dovendo a loro volta rispettare il nuovo status di genere – vestissero con abiti femminili e abitassero nelle stesse stanze delle guardie personali (principalmente donne). La posizione sociale di guerriero non fu dunque esclusa a corpi femminili, pur rimanendo prerogativa sociale maschile. Si tratterebbe dunque di una scissione chiarissima tra ruolo sociale e corpo sessuato, in cui l’una cosa non esclude l’altra.
Lascerò alle vostre coscienze ulteriori riflessioni sul peculiare caso di Njinga. Tuttavia, proprio mentre l’amministrazione trumpiana (nel suo delirio di ordini esecutivi) opera l’infame cancellazione storica delle identità trans dai moti di Stonewall, queste vicende ci invitano a rimanere all’erta dinanzi ai sempre più ricorrenti tentativi di manipolare il passato, rendendo evidente come la Storia possa essere il campo di gioco per eccellenza di politiche volte alla repressione e al silenzio.
Bronsa Cuerta
Fonti e bibliografia essenziale:
Antonio Cavazzi, Istorica Descrizione de’ Tre Regni Congo, Matamba, Angola, ed. Giacomo Monti, Bologna, 1687.
Antonio da Gaeta, La Maravigliosa Conversione alla Santa Fede di Cristo della Regina Singa, Napoli, ed. Francesco Maria Gioia, 1669.
Adriano Prosperi, Missionari: dalle Indie remote alle Indie interne, Bari-Roma, Laterza, 2024.
C. McCaskie, Exiled from History: Africa in Hegel’s Academic Practise, Cambridge University Press, 2018.
M. Heywood, Njinga of Angola: Africa’s Warrior Queen, Harvard University Press, 2019.
Jeremy Ball, Staging of Memory: Monuments, Commemoration, and the Demarcation of Portuguese Space in Colonial Angola, Journal of Southern African Studies, 44:1, 77-96, 2018.
John K. Thornton, L’Africa e gli africani nella formazione del mondo Atlantico (1400-1800), Bologna, Il Mulino, 2010.
[1] Evitiamo fraintendimenti: la pratica del commercio di schiavi in Africa Subsahariana era insita nell’economia africana ancor prima del contatto con gli europei. Tuttavia, è doveroso sottolineare come questo meccanismo non debba essere confuso con forme di schiavitù indiscriminata, in quanto vigevano precise indicazioni a regolarne il procedimento. Pertanto, la partecipazione del potere politico locale alla tratta degli schiavi sarebbe stata, in un primo momento, del tutto volontaria. L’insaziabile domanda di schiavi da parte europea ruppe questi equilibri, ne alterò i presupposti e si rivelò deleteria nel lungo termine, causando un crollo demografico nei paesi soggetti.