Allarme Democrazia! Sulle infiltrazioni in Potere al Popolo e Cambiare Rotta.

Esprimiamo la nostra massima solidarietà all3 compagn3 di Potere al Popolo e di Cambiare Rotta che negli scorsi mesi sono stat3 vittime di infiltrazioni da parte di agenti di polizia sotto copertura.

Nelle scorse settimane Potere al Popolo, con l’aiuto di Fanpage, ha scoperto e denunciato l’infiltrazione di cinque agenti dell’antiterrorismo sotto copertura che si erano inseriti nelle organizzazioni giovanili del CAU e di CR. I cinque agenti si sarebbero infiltrati nel Collettivo Autonomo Universitario di Napoli e all’interno di Cambiare Rotta a Milano e a Bologna, mentre a Roma l’operazione non sarebbe riuscita. Si tratta di un fatto di una gravità inaudita che testimonia la crescente tendenza autoritaria e la preoccupante stretta repressiva portata avanti dal governo Meloni. Infatti, questa operazione di controllo e spionaggio si dimostra perfettamente in linea con l’approvazione del DDL 1660 e con le altre misure volte a inasprire i reati politici e di sciopero nel nostro Paese. Non è un caso, infine, che le infiltrazioni si verifichino dopo le denunce a pioggia che avevano già colpito alcun3 militanti di Cambiare Rotta iscritt3 all’Unibo.

Per questo motivo apprendiamo la notizia con preoccupazione ma non con stupore. Non è un caso che il nostro governo, impegnato su diversi fronti a condurre politiche antipopolari (come il rialzo della spesa militare al 5% del PIL e la prosecuzione degli aiuti a Israele mentre porta avanti il genocidio del popolo palestinese), si preoccupi di colpire le organizzazioni che si oppongono con forza ai suoi progetti criminali. Questo tipo di infiltrazioni nelle organizzazioni di classe non sono una novità se si guarda alla storia del nostro Paese, ma si tratta comunque di un episodio sconcertante che ci deve mettere in guardia.

La notizia, ovviamente, è passata sotto il silenzio stampa dei media mainstream. I nostri giornali e le nostre emittenti televisive, legate ai principali gruppi imprenditoriali italiani (come il Gruppo Gedi, Cairo o Mediaset) hanno dimostrato ancora una volta quali interessi e quali potentati vogliono servire. Anche solo una cinquantina d’anni fa, quando le istituzioni erano più attente alla garanzia dei diritti costituzionali per le classi subalterne e il giornalismo poteva dirsi più indipendente, questa notizia avrebbe fatto scandalo. Nell’Italia di oggi, invece, attentati alla democrazia come questo non trovano più alcuna risonanza. Anche per questo motivo è di fondamentale importanza alzare la voce, diffondere la notizia e fare pressione nei confronti del governo Meloni, che ancora non si è degnato di rispondere alle tre interrogazioni parlamentari che gli sono state rivolte nel merito.

Per tutte queste ragioni anche noi saremo presenti al presidio davanti al rettorato (via Zamboni 33) martedì 1 Luglio alle 17.00 per denunciare l’accaduto e per chiedere delle spiegazioni.

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Femminismi e antispecismi: un’alleanza necessaria [di Ninel]

Troppo spesso le lotte antispeciste vengono vissute come diverse rispetto a quelle femministe. Ma sono realmente tali? Le matrici dell’oppressione femminile e animale sono davvero così differenti tra loro?

Per molti, il concetto di “mascolinità tossica” si esplica nel rapporto che il maschile ha con la controparte femminile, pensando che la sua influenza si limiti al controllo e alla manipolazione delle donne o alla creazione di norme e leggi rivolte agli stessi uomini. Il discorso, in questo modo, risulta esclusivamente antropocentrico. Ma è realmente così?

Lo stretto rapporto tra mascolinità tossica e consumo di carne è, in verità, un aspetto proprio della nostra società. Mangiare carne è una caratteristica che molti uomini ritengono indispensabile ai fini della loro virilità; il consumo di altri esseri viventi è un mezzo di affermazione e dimostrazione di potere. Per questo, come afferma Carol J. Adams, «gli uomini che scelgono di non mangiare carne ripudiano uno dei loro privilegi maschili». Al contrario, il consumo di prodotti vegetali viene spesso associato alle donne, perché la presupposta carenza di nutrienti dei vegetali meglio si addice all’idea del femminile come debole e delicato.

Se, dunque, il “semplice” mangiare carne si maschera da atto naturale, per poi rivelarsi un fenomeno culturale di matrice maschilista, si potrebbe iniziare a intravedere una similitudine tra quelle dinamiche patriarcali che regolano la vita degli esseri umani e quelle che regolano la vita degli esseri non umani.

Esaminando più a fondo questa prima somiglianza, si potrebbe allora individuare, nelle forme più comuni di violenza machista, una pratica condivisa che colpisce sia le femmine umane che quelle di altre specie.

Il primo strumento impiegato nell’istituzionalizzazione dell’oppressione è il linguaggio. La cultura patriarcale ha generato logiche sociali che permettono di utilizzare lo stesso tipo di linguaggio per animali e donne, al fine di materializzarne la presupposta inferiorità. Si pensi a come una stessa parola possa indicare tanto un animale quanto una donna (soprattutto in relazione alla sua sessualità): “vacca”, “cagna”, “scrofa”. Oppure a come le donne stesse, vittime di violenza, si associno agli animali definendosi, per esempio, “pezzi di carne”. Questo atteggiamento, sempre secondo Adams, avviene perché «la politica sessuale della carne è un’attitudine, una prassi che animalizza le donne e sessualizza e femminizza gli animali».

Per di più, sempre citando Adams, «gli animali vengono resi assenti attraverso il linguaggio, che rinomina i loro corpi morti prima che il consumatore se ne alimenti». Di fatto, noi non mangiamo “animali morti”, bensì bistecche, prosciutto, cotolette e così via. Questa logica porta a due conseguenze: da un lato, l’animale viene privato della sua essenza e trasformato in prodotto; dall’altro, si manifesta il tentativo di alleggerire il senso di colpa legato all’uccisione e al consumo di un essere vivente. Questo meccanismo, riflettendo, si riscontra anche nel modo in cui il potere patriarcale minimizza l’oppressione femminile da esso stesso perpetuata.

È chiaro, dunque, come il gruppo sociale dominante abbia realizzato un linguaggio che gli consenta di porsi al vertice, a discapito di una serie di categorie oppresse, come quella animale e femminile.

La violenza discorsiva, però, non è sufficiente per affermare superiorità e operare controllo: è necessaria anche quella materiale. Nelle logiche patriarcali e capitaliste, questo avviene mettendo al centro il corpo. Il controllo di animali e donne avviene attraverso dinamiche di abuso, sessualizzazione e strumentalizzazione, a cui si aggiunge il fine di produrre profitto. Se queste dinamiche, per quanto riguarda i corpi femminili umani, sono molto più difficili da individuare perché ben nascoste, quelle a cui sono sottoposte le femmine non umane sono invece chiaramente visibili. Le femmine animali, costrette a sottostare ai regimi di produzione, subiscono abusi e sofferenze sistematiche, che prevedono l’ingabbiamento, lo stupro, la privazione dei loro corpi e della loro maternità. Tutto ciò fino a quando l’animale è in grado di reggere i ritmi di produzione; quando smette di farlo, il profitto verrà generato dalla sua morte attraverso la messa in commercio delle sue parti.

Continuando sulla via della similitudine, si può allora cercare di trovare somiglianze anche nelle dinamiche di oppressione. L’imposizione della sottomissione, la necessità di rendere la vittima inerme prima di esercitare la violenza e l’immobilizzazione del corpo per affermare la superiorità fisica sono tutte strategie che, non solo rafforzano l’idea di inferiorità di donne e animali, ma permettono anche l’oggettificazione della vittima che, in quanto oggetto, non necessita di consenso, ma anzi invita al possesso.

Privare l’essere non umano di coscienza, volontà e sentimenti ne permette, in più, l’alienazione produttiva. L’animale è visto, nei migliori dei casi, come forma di compagnia (sempre secondo un punto di vista antropocentrico); nei peggiori, come strumento di produzione. Questo ne permette la privazione dell’identità di essere vivente e la conseguente trasformazione in oggetto/ prodotto.

Nonostante, fino ad ora, l’attenzione sia stata posta soprattutto sulla carne e sugli animali femmine, il discorso portato avanti in questo articolo vuole, in realtà, essere generale ed esteso a ogni essere non umano. La creazione di una “categoria animale” colloca qualsiasi essere non umano in una condizione di inferiorità, giustificando così il suo sfruttamento. Questo meccanismo è reso possibile dalla gerarchia di valori imposta dal sistema patriarcale e capitalista, che non si limita a opprimere gli animali, ma applica la stessa logica di gerarchizzazione anche agli esseri umani. In questo modo, sia gli individui umani che quelli non umani vengono resi concettualmente inferiori, legittimando la loro subordinazione e il loro sfruttamento.

Chiunque si consideri femminist*, allora, deve riconoscere nello sfruttamento animale le medesime logiche maschiliste che opprimono le donne. Machismo e Specismo si intersecano: le loro vittime sono associate a un ruolo subordinato e inferiore in modo estremamente connesso e reciproco. Per questo, i Femminismi devono essere antispecisti e gli Antispecismi devono essere femministi.

Non si possono creare gerarchie di oppressi: decidendo di non metterci in discussione, perché non direttamente toccati dalla forma di oppressione in questione, esercitiamo il nostro privilegio e diventiamo complici del sistema che lo alimenta. Dobbiamo abbandonare i nostri privilegi e attaccare la sistematicità e l’istituzionalizzazione dello specismo in tutte le sue rappresentazioni. Solo così si arriverà a una liberazione animale, ma soprattutto universale.

N.B.

Bibliografia

C.J. Adams, (1990), Carne da macello. La politica sessuale della carne. Una teoria critica femminista vegetariana, Milano, 1990.

G. H. Di Loreto, (2021), Perché l’Antispecismo deve essere Femminista ed il Femminismo deve essere Antispecista, Balthazar, 2, Milano, 2021.

R.R. Simonsen, (2014), Manifesto queer vegan, Aprilia, 2014.

S. Dalouli, (2022-2023), Transfemmnismo e antispecismo: analizzare l’oppressione patriarcale tra le specie, Padova, 2022-2023.

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Penso dunque sono, o l’esistenza è qualcosa di più? [di Agattina]

Ideologia e conflitto tra Descartes, Hobbes e Spinoza

“Ora non ammetto” scrive René Descartes nelle Meditazioni metafisiche “se non quanto sia vero necessariamente: sono dunque, precisamente, soltanto una cosa che pensa, e cioè una mente, o un animo, o un intelletto, o una ragione”[1].

La cultura occidentale si è sviluppata dal tempo della Grecia antica su un’opposizione tra noi e gli altri, che trovava il proprio distinguo nel logos: una ragione di cui solo noi eravamo detentori e di cui gli altri erano privi. Ma chi siamo noi? E chi sono gli altri? La cosa interessante è che queste domande trovano risposte variabili nella storia, seppur siano rintracciabili delle costanti. Gli altri come esseri irrazionali possono essere gli stranieri, le donne, gli animali non umani, i folli, i poveri.

Ciò che prescinde dalla distinzione per categorie è però che queste siano create ad hoc per giustificare l’esercizio di un dominio, ed è un dominio che passa attraverso una auto-legittimazione ideologica di principi di parte che vengono spacciati per universali in virtù della loro presunta razionalità. Ma che rapporto c’è tra ciò che si dice ragione e ciò che non lo è? E cosa significa fare i conti con il fatto che un presunto essere razionale, quale l’umano è, debba vivere la propria esistenza in balia di pulsioni che non seguono i principi stabili e ordinati della logica, vale a dire in un corpo? E con il fatto che la suddetta ragione non sia un principio che i subalterni seguono spontaneamente?

E, ancora, che riflesso ha sul piano individuale e politico la scelta di ergere la ragione a paradigma per stabilire un regime di verità? Ciò che segue è un abbozzato tentativo di fornire, attraverso tre filosofi protagonisti della modernità, prima un quadro che rispecchia il nostro mondo, e poi un quadro alternativo che è stato trascurato perché non ideologizzante. Il primo dotato di un regime di verità rigido al punto da causare una caduta delle verità statuali in favore di un tetro there is no alternative, con cui la verità come entità conoscibile si eclissa perdendo la sua consistenza (il che non significa che non possa rimanere dietro le quinte operando ideologicamente). Il secondo, che non ha mai preteso di dare alcuna consistenza alla verità come qualcosa di conoscibile una volta per tutte.

Partendo dalle concezioni morali e antropologiche di René Descartes, Thomas Hobbes e Baruch Spinoza, è possibile avventurarsi negli arcani dell’ideologia indagando le giustificazioni su cui si sono costruiti i nostri rapporti materiali.

Con l’inizio della modernità e subendo gli influssi della rivoluzione scientifica, la filosofia di René Descartes è il paradigma che si instaura come base di sviluppo della razionalità e dell’antropologia liberale.

Cartesianamente, la ragione umana ovvero il cogito, che è esperienza intellettuale e al tempo stesso esistenziale, si concepisce di per sé, come principio immateriale. Il cogito cartesiano, a differenza della teoria della conoscenza medievale scolastica, non si adegua al mondo esterno ma adatta la realtà naturale alle idee della mente, rendendola indipendente come principio d’ordine della conoscenza dei corpi naturali. La realtà esterna non è più qualcosa di naturale ma diviene qualcosa di costruito artificialmente dall’intelletto umano, che riordina i corpi esterni secondo leggi meccaniche che vi proietta. In questo senso, la matematica è il modello paradigmatico, che costruisce rapporti e proporzioni che l’umano applica all’indagine della realtà naturale.

L’essere degli oggetti non è più una sostanza astratta a cui i corpi nella loro materialità si conformano (come avveniva per Aristotele, per il quale esisteva ad esempio l’individuo concreto e particolare la cui essenza era di essere un individuo umano astratto), non è qualcosa di fisso e stabile che l’umano studia a distanza ma richiede intervento attivo, lavoro umano. La frattura che troverà il suo apice sul finire del Settecento nella rivoluzione copernicana di Kant si apre qui: non esiste più una realtà esterna, esiste solo la mente umana che la ordina secondo le proprie strutture.

L’individuo umano, che si identifica con la propria mente, si scopre autonomo dal mondo, dalla natura esterna. Trova la propria ragion d’essere nell’atto del pensiero, che è fonte di ogni azione. Tutto è ricondotto alla ragione, mentre ogni corpo, tanto quello umano quanto qualsiasi oggetto esterno, segue solo leggi meccaniche.

L’azione della mente è quindi assolta dalla relazione col corpo, divenendo esperienza pura che si risolve solipsisticamente in sé stessa. L’anima e il corpo divengono qualcosa di distinto secondo un modello che è sì dualistico ma anche gerarchico. Quando Descartes scrive il suo Discorso del Metodo, l’obiettivo esplicito è quello di costruire una scienza che stia sotto il comando dell’utile. Il modello a cui si ispira sono le arti meccaniche, il sapere pratico degli artigiani: un mondo dove regna l’ordine e che rappresenta la capacità umana di costruire una presa di modifica e controllo sul mondo mediante la tecnica.

La natura retrocede, l’umano si emancipa da essa e rompe qualsiasi rapporto di relazione e unità che vi poteva instaurare. I corpi vanno studiati, ordinati come fossero macchine, ed è l’intelletto ad occuparsene.

Ma c’è qualcosa che è libero dalle leggi meccaniche ed è l’identità personale, che si scopre come volontà libera. L’io cartesiano è un io che sa di esistere perché sa di poter scegliere, si sente capace di guidare le proprie azioni attraverso la volontà della ragione. La libertà è affermazione della volontà, è illuministicamente consapevolezza che la ragione umana è qualcosa che può e, anzi, deve ergersi al di sopra delle possibilità naturali.

Scrive Silvia Federici in Calibano e la Strega[2] che intorno alla metà del XVI secolo nelle aree dell’Europa occidentale più toccate dalla riforma protestante e dall’ascesa economica della borghesia mercantile vediamo emergere in ogni articolazione della vita sociale una nuova concezione della persona[3].

Non è certo Descartes la causa di tutte le conseguenze che analizzeremo in quanto derivanti da questa antropologia, ma è il primo a esplicitare nella propria trattazione filosofica come l’unione di mente e corpo sia qualcosa di problematico e conflittuale, ed è a questo punto che si apre quella frattura che sarà affrontata nella filosofia morale dell’epoca, per cui si vedrà quello scontro che possiamo definire, con una eco letteraria che fa sorridere, tra ragione e sentimento.

In questo nuovo paradigma antropologico, la persona diventa un terreno su cui si profila una battaglia: il conflitto è vissuto tutto internamente, ed è uno scontro per il dominio che la ragione deve esercitare sulle passioni. La situazione in cui ci troviamo è la seguente: da un lato i vizi del corpo, dall’altra la virtù della ragione che deve contenere e disciplinare i primi.

Le conseguenze di questa filosofia non rimangono vincolate alla sfera del pensiero ma trovano espressione materiale e storica, oltre che nella rivoluzione scientifica, nell’illuminismo settecentesco e nel tentativo esplicito di educazione e disciplinamento finalizzato alla formazione di un nuovo tipo di borghesia.

Come rileva l’analisi di Max Weber, per la nuova borghesia in ascesa il guadagno è lo scopo della vita, e in favore di questo i piaceri naturali vanno abbandonati. Il capitalismo comanda superamento della natura: i cicli naturali non possono più regolare la quotidianità degli individui, e in nome della produttività il corpo è sottomesso a ritmi di lavoro che lo mortificano.

L’immagine che Marx restituisce nella sua produzione filosofico-politica, per cui il lavoro è libero nel senso che è merce di cui il lavoratore con il proprio corpo dispone e a cui si riferisce per scambiarla sul mercato in cambio di un salario, è quella di un lavoratore che è già stato plasmato dalla disciplina del lavoro capitalistica[4].

Riprendendo nuovamente il testo di Federici, ciò che viene evidenziato è che questo disciplinamento ha richiesto un lunghissimo processo che non si è innescato però senza resistenza. La classe dominante ha progressivamente aumentato le pene delle trasgressioni alle leggi, instaurando un regime di terrore finalizzato a legare il proletariato al lavoro come già i servi erano stati legati alla terra[5]. A questa altezza storica, in Francia e in Inghilterra vengono proibiti i giochi d’azzardo, chiuse le taverne, penalizzata la nudità e condannate le forme improduttive di sessualità e socialità.

La classe dominante instaura questo regime di terrore poiché si mostra intimorita per due aspetti fondamentali: il primo riguarda il concreto timore che la presenza di folle di vagabondi improduttivi e pericolosi incuteva alla nuova borghesia mentre camminava per le strade, e il secondo riguarda la costituzione del nuovo Stato che, come Thomas Hobbes sapeva bene, era minacciata dalla possibilità di tumulti e rivolte.

Ma se il corpo umano da un lato incuteva ribrezzo e timore, dall’altro suscitava nella borghesia un desiderio di impadronirsi della merce particolare che questo incarnava: la forza lavoro.

La filosofia hobbesiana, oltre a delineare quelli che sono i fondamenti della politica moderna, è una filosofia empirista: il filosofo inglese radicalizza le istanze cartesiane ponendo anche la mente e la sua libera volontà in un meccanicismo corporeo che trasforma la totalità dell’essere umano in una grande macchina da studiare e controllare nelle sue possibilità tanto quanto nei suoi limiti. È un individuo che nella sua corporeità risulta pericoloso e deve essere necessariamente sottomesso all’autorità statale perché non si distrugga vicendevolmente con gli altri.

Tormentato da cause esterne che lo corrompono e guidano, il corpo umano è tormentato anche dal nuovo spirito borghese che su di esso calcola, classifica, distingue per razionalizzare le facoltà che gli appartengono e massimizzare la sua utilità sociale. La comprensione è finalizzata al controllo, del corpo degli individui tanto quanto del corpo sociale.

Possiamo dire che il corpo umano è associabile nei suoi meccanismi, quando non controllati, a quella folla di individui che nella sua sregolatezza è caratterizzata da volontà molteplici e non ordinate, incapaci di unità e denominati da Thomas Hobbes moltitudine. Hobbes, e con lui il nuovo ordine della politica moderna liberale, si preoccupa di fornire un’immagine che possa sostituire questa folla disordinata, e vi oppone perciò l’idea di popolo come unità rappresentativa sovrana: una massa di individui che in maniera compatta è soggetto dell’azione politica nella misura in cui collettivamente cede il proprio diritto e potere ad un’entità sovrana che se ne fa carico.

Così si annullano le individualità e gli orientamenti divergenti di ciascun individuo, creando quell’uguaglianza formale di fronte allo Stato propria del mondo liberale per cui ogni tratto personale viene relegato a privatezza divenendo politicamente indifferente.

Ma per essere indifferente dal punto di vista politico, il popolo deve foucaultianamente interiorizzare la disciplina che il potere promuove per auto-legittimarsi, e l’operazione di ingegneria sociale che la classe dominante attua per raggiungere questo scopo deve passare per il terrore di un controllo feroce sul corpo.

Se il corpo è qualcosa di bestiale e accessorio rispetto alla mente, da un lato è legittimata l’idea che questo possa essere sottomesso al potere sovrano dello Stato e, dall’altro, va da sé che, per proteggersi da quest’ultimo e dalle sue punizioni, sia scaricato sul singolo individuo il compito di contenerne i desideri e le pulsioni.

Come già detto, però, il corpo letteralmente incarna altresì quella merce preziosa che è la forza-lavoro. L’analisi di Federici si concentra sulla tesi che, affinché la concezione del corpo come macchina si affermasse come modello, è stata necessaria la scomparsa di una concezione magica che lo vedeva, al contrario, dotato di poteri sovrannaturali che si scontravano con le logiche razionali che si stavano affermando.

È qui che il potere costituito si organizza al fine di eliminare quell’insieme di pratiche e credenze sociali secondo cui era contemplata la possibilità che, per il perseguimento di determinati fini, si potessero seguire scorciatoie che deviavano dall’attività lavorativa e che predicavano l’esistenza di poteri altri e quindi potenzialmente sovversivi.

È nella caccia alle streghe compiuta in Europa nel XVI-XVII secolo che, sul corpo di milioni di donne attraverso l’utilizzo di pratiche genocidarie, viene definitivamente spazzata via dal mondo occidentale la possibilità per la popolazione povera di credere nella realizzazione dei propri desideri e nella possibilità di legittimarli attraverso l’azione organizzata[6].

Con la “magia” veniva meno il principio della responsabilità individuale, e ciò minava l’obbedienza civile al punto che persino Hobbes arriva a parlare esplicitamente di stregoneria per condannarla.

Torture, roghi, dissezioni anatomiche post-mortem, dice ancora Federici[7], diventano i laboratori in cui si sedimenta molta disciplina sociale e si acquisisce molta conoscenza sul corpo umano.

Il processo che viene promosso e che rende possibile la sovranità voluta da Thomas Hobbes è quello di una standardizzazione dell’individuo, che viene concepito nella sua astrattezza e de-caratterizzazione.

L’individuo cartesiano controlla il proprio comportamento tramite la ragione, si slega dalla natura e dalle sue contingenze così come si isola dagli altri individui. I legami comunitari si rompono e l’umano si concepisce nella sua autonomia isolata come nel De Cive di Thomas Hobbes: “uomini come se fossero venuti su tutti all’improvviso, a guisa di funghi, dalla terra, e già adulti, senza alcun obbligo reciproco”[8]. Ma privati della loro individualità singolare, che persisteva invece nella moltitudine.

È la solitudine di un individuo che si concepisce come sovrano e al contempo come parte di una comunità illusoria che è quella dello Stato. Domina sé come domina la natura, nonostante sia materialmente privo di potere sociale reale[9].

Congedo il testo di Federici con la seguente citazione: “il corpo umano, e non la macchina a vapore e nemmeno l’orologio, è stata la prima macchina che il capitalismo ha sviluppato”.

Il conflitto sociale cade laddove questo viene interiorizzato dalla persona e dall’obbligo che sente di doversi conformare nel comportamento alla sfera sociale della cittadinanza che abita, perché se non c’è legislazione interiore il pericolo della resistenza e della rivolta contro il potere è sempre dietro l’angolo.

La soggettività borghese che l’illuminismo (francese in particolare) costruisce si fonda su un io sradicato che deve trovare sé stesso nel mondo, costruendosi da solo per trovare il suo posto. L’Ottocento, grande soglia della modernità, è il secolo del romanzo di formazione, genere borghese per eccellenza che trova le sue radici nella letteratura del XI secolo, momento in cui avviene il primo distacco dall’entità ordinatrice sovrannaturale che è dio all’interno della filosofia di Giovanni Duns Scoto e Guglielmo da Ockam, e in cui la persona ha la libertà di divenire canone a sé stessa discostandosi dalla provvidenza divina.

La filosofia come la letteratura, e con esse la borghesia ottocentesca che si occupa di scrivere questa pagina di storia, mette a frutto questa tradizione adattandola al proprio tempo e alle proprie circostanze: l’individuo che è canone dell’epoca, ovvero un maschio bianco e benestante in un contesto in cui la differenziazione sociale per ceti è stata abolita, affronta l’impresa di creare individualmente la propria esistenza.

In una tensione tra contingenza e ordine, ogni protagonista del Bildungsroman[10] affronta un cammino travagliato e colmo di difficoltà, fino a che, superando gli incidenti di percorso, trova il suo posto nella società borghese, sanato dall’illusione di poterne rimanere al di fuori e pronto ad essere un bravo cittadino.

I presupposti sono mantra che già conosciamo: responsabilità individuale, uguaglianza formale che non tiene conto delle condizioni materiali di partenza, successo premiato da un merito e un talento astratti, e se qualcuno non ce la fa la colpa è sua perché l’impegno non era sufficiente. Lo Stato può così governare un individuo mansueto che è pronto a farsi governare.

Il passaggio per cui questo possesso di sé, da prerogativa della borghesia che era, subisce una democratizzazione estendendosi finanche al proletariato è lento e violento, quandanche utopico se lo consideriamo realisticamente.

Il proletariato rimane, agli occhi della classe dominante, un corpo bestiale e indisciplinato, non razionale, praticamente un’altra razza. O meglio, un’altra classe. O meglio, un altro ceto, come lo era il terzo stato per la nobiltà.

È ironico quanto molte di quelle misure di comportamento che ruotano attorno al principio del decoro sociale vengano prese in prestito dall’antico regime e dalla nobiltà, universalizzando convenzioni verso le quali ci si diceva in discontinuità. Se prima la nobiltà trovava la propria ragion d’essere proprio nel distacco da tutto ciò che era altro, ora l’esser altro è qualcosa di non più ammissibile, o almeno non è più ammissibile che l’altro sia visibile nello spazio sociale della cittadinanza.

Così, mentre la borghesia puritana lotta contro il proprio corpo, producendo e riproducendo i propri standard di comportamento e disciplina, la moltitudine proletaria viene ghettizzata rispetto al centro del potere sociale, dal centro città alle periferie, nei quartieri operai.

Mentre femministe borghesi come Mary Wallstonecraft lamentano la disciplina a cui sono costrette dai mariti e dalla società, che le costringono ad essere localizzate nella loro socializzazione e a comportarsi come galline, lottando per il diritto al lavoro, femministe operaie come Emma Goldman prendono voce dalla fabbrica, mostrando che la disciplina borghese con il suo privilegio economico non è qualcosa che riguarda le donne che sono sempre state costrette a lavorare e che sul proprio corpo patiscono tanto la schiavitù a cui le costringe la sessuazione dell’essere donne quanto la schiavitù della necessità che le espone allo sfruttamento del salario.

Attraverso il ricatto del lavoro, questa folla animale che è il proletariato è colonizzata, sfruttata, violentata e ridotta alla fame ad opera di chi detiene potere sociale nelle proprie tasche.

Ma la democrazia liberale governata dallo Stato crolla su sé stessa e sulla disuguaglianza sociale di cui necessita per essere tale, perché un proletariato che viva materialmente ogni giorno sulla propria pelle la violenza del sistema, all’idea di uguaglianza che questa democrazia predica non può credere nemmeno se vuole.

Quando il malcontento e le rivolte prenderanno piede, la classe dominante accetterà finanche di cedere il suo potere legislativo pur di continuare a vedere tutelati i propri interessi, ovvero la sua proprietà, portando lo Stato ad accentrarsi così che la violenza nazionalista possa schiacciare i movimenti di resistenza sociale.

Il conflitto economico inizierà a giocarsi su un campo che supererà i confini, e il proletariato continuerà a lottare per la sopravvivenza con delle armi in mano in un’enorme e reciproca autodistruzione transnazionale.

Il liberalismo troverà la sua crisi in un problema che già Spinoza aveva teorizzato nel Seicento proprio in opposizione a Hobbes: gli individui, anche una volta sottoposti ad un potere sovrano, rimangono pur sempre umani, e in quanto tali hanno nella propria natura la resistenza.

La democrazia liberale dovrà trovarsi a superare la sua crisi, che questo assioma apre e che non era stato considerato a sufficienza, andando a chiudere quegli spazi di manovra che erano stati lasciati aperti alla possibilità che l’azione collettiva prendesse piede.

In questo processo, avviato dai teorici del neoliberalismo, il corpo umano come quello politico dovrà essere reso, da centrale che era rimasto nel tentativo di disciplinarlo, qualcosa di politicamente indifferente. La ragione come verità sparirà dal quadro del possibile in quanto troppo pericolosa perché identificabile, lasciandoci una cittadinanza desertificata e atomizzata di verità provvisorie, sfuggevoli e dimenticabili.

C’è un filosofo che la sinistra radicale odierna tende a non considerare tra i propri riferimenti politici, pur avendo costruito una trattazione filosofica in aperta polemica con coloro che sono stati iniziatori della tradizione politica liberale di cui oggi siamo noi eredi, vale a dire Descartes e Hobbes.

Eppure, Baruch Spinoza vive in contemporanea ad entrambi, e con entrambi si confronta apertamente, fornendo un’architettura concettuale politica che ribalta i paradigmi che andavano affermandosi e che risignifica, sull’impronta del realismo politico di Niccolò Machiavelli, una serie di termini e concezioni che rappresentano una risorsa significativa a cui attingere per l’azione politica[11].

La filosofia spinoziana si slega dalla concezione cartesiana secondo cui esiste un dio che opera come primo motore immobile nella natura, da cui quindi i corpi naturali sono posti a grande distanza: il presupposto ontologico della realtà è per Spinoza la nozione di causa sui, che vede la natura concepita come dio, una natura causa di sé stessa che non dipende da null’altro e che si manifesta nel reale in maniera immanente e panteistica.

Questo ente infinito denominato sostanza si fa oggetto esprimendo sé stesso in tutti gli ordini della realtà, e ciò significa che, a differenza di quanto avveniva nelle concezioni cartesiane e hobbesiane, gli enti naturali non vivono in un’individualità atomistica dipendendo nel loro agire da leggi meccaniche che li rendono indipendenti gli uni dagli altri ma, al contrario, ogni creatura naturale è parte di questa sostanza in movimento, in una relazione reciproca inevitabile e necessaria. Da ciò deriva che l’umano stesso, così come ogni altra creatura esistente, è attributo di questa sostanza infinita, di un dio che non è distante ma assolutamente prossimo.

Di nuovo l’umano è considerato nella sua composizione di mente e corpo, pensiero ed estensione, che però non possono essere colti nella loro separatezza e chiusura reciproca, in quanto entrambi espressione di una stessa realtà che dispiega sé stessa secondo due modalità diverse. Tuttavia, non per questa ragione l’individuo vive l’interazione tra le sue parti in maniera pacifica.

Essendo il corpo la situazione con cui l’umano si approccia alla realtà in cui vive, è attraverso questo che la conosce e giudica; e da ciò deriva che qualsiasi idea raggiunga la mente è prima stata modificata passando attraverso il corpo e le sue passioni secondo impulsi che, di per sé, non sono ordinati.

Come nell’antropologia hobbesiana, l’essere umano spinoziano è un ente mosso dal desiderio, un ente passionale che esprime il proprio bisogno auto-conservativo attraverso il corpo, e l’espressione di questo conatus si configura in una tensione tra l’individuo e le cause esterne che lo determinano, e con cui può entrare in un rapporto attivo o passivo.

Il desiderio è il fattore che orienta il giudizio umano sugli oggetti esterni, ragion per cui ciò che la mente pensa di volere o non volere ha andamento ambivalente e porta ad una condizione di instabilità e fluttuazione nel giudizio che porta a una circostanza di potenziale inquietudine e turbamento.

L’essere umano ha quindi restituita un’immagine distorta della natura, e si approccia ad essa ricercando il proprio utile e proiettando poi sugli oggetti delle finalità che dipendono in realtà dal proprio giudizio relativo.

Prendere consapevolezza del meccanismo del desiderio è quindi essenziale per individuare una visione antropocentrica e finalistica del mondo, frutto di una proiezione immaginativa che ci impedisce di concepire gli altri esseri naturali conferendo loro la dignità, l’autonomia e il rispetto che dovrebbero avere in quanto manifestazione della natura di cui noi stessi siamo parte.

I termini del gioco personale tanto quanto del gioco politico cambiano: la mente umana si trova su un’asse che oscilla tra attività e passività, in una costante trasformazione che è data dall’incontro con altri enti naturali, in una relazione tra potenze che si scontrano per affermarsi.

Ogni ente naturale è un ente che vive e si concepisce necessariamente nella relazione con gli altri enti, esprimendo la propria potenza in una spinta auto-conservativa interna che si esprime nel contatto con l’esterno. Conoscere e operare nel reale significa comprenderne il sistema di rapporti che fanno dell’oggetto che ne fa parte un ente relazionale, e quindi conflittuale.

Definire gli enti, umani e non, come desiderio significa definirli all’interno della tensione in cui vivono: il conflitto viene radicalizzato e soprattutto risignificato, esteso a motore di una realtà che diviene viva e in perenne trasformazione.

Ogni creatura esiste resistendo, in un incontro-scontro che diviene necessario per lo sviluppo della propria libertà. Il conflitto quindi non dev’essere rifuggito, ma gestito e dislocato al fine di superare gli effetti potenzialmente distruttivi che ne potrebbero derivare, ed è su questa capacità di gestione che si esprimono la potenza e la resistenza tanto sul piano individuale quanto sul piano politico.

Per quanto concerne l’individuo, la gestione del conflitto si basa su uno sforzo di superare l’andamento ambivalente causato dalla mente che riflette in maniera passiva ciò che accade nel corpo, e ciò non significa attuare un silenziamento delle passioni ad opera della ragione ma, al contrario, compiere uno sforzo attivo di comprensione del carattere immaginifico delle rappresentazioni che queste forniscono stabilendo un rapporto di ascolto, di relazione aperta.

Il difetto non è attribuibile al corpo coi suoi desideri, ma alla mancanza di consapevolezza del fatto che questi esprimono la medesima natura infinita e necessaria, seppur in modi diversi.

Raggiungere uno stato di serenità sul piano individuale prevede quindi non un biasimo e una repressione del desiderio, bensì una sua positiva accettazione e accoglienza ad opera della mente, la quale ha poi il compito di resistere ai potenziali effetti distruttivi a cui potrebbe condurre, reindirizzandolo.

L’individuo libero è prima di tutto un ente capace di organizzare il suo equilibrio interiore: raggiungere la libertà e la saggezza individuale è già risultato politico che si raggiunge attraverso un principio di resistenza, dirigendo al meglio i propri schieramenti interni.

Inoltre, superare l’immagine falsata della natura esterna che il nostro corpo con l’immaginazione ci restituisce, significa scoprire che le nostre idee non sono qualcosa di autonomo, che rimandano ad un’entità chiusa come quella del cogito cartesiano, ma provengono direttamente dalla natura stessa di cui siamo parte, che pensa e produce idee attraverso di noi.

Da ciò deriva che la responsabilità di un agire corretto, di uno stato mentale sereno passa attraverso la presa di consapevolezza della nostra connessione necessaria con la natura tutta. La nostra esistenza finita è al tempo stesso necessaria: avere una concezione adeguata della realtà significa riconoscere quell’unità tra noi e il tutto che la filosofia cartesiana aveva negato. Conoscere non significa essere dotati di una ragione che domina e controlla la natura in cui viviamo, bensì riconoscere la positiva affermazione di sé e di tutto ciò che esiste in essa: che tutto ciò che esiste va riconosciuto nella propria esistenza.

Crolla l’idea che possa sussistere qualsiasi orizzonte morale-politico trascendente le differenze intra-individuali: viene sconfessato l’universalismo che il liberalismo promuove, poiché gli individui, trovandosi in situazioni e posizioni differenti della società, provano sempre e necessariamente la pulsione che deriva dalla spinta conservativa di far valere i propri interessi e il proprio utile.

Prepararsi ad affrontare la vita come singoli significa prepararsi ad affrontare la vita come società, il piano della vita individuale si intreccia radicalmente al piano della vita politica negando l’idea hobbesiana di una sfera che al di sotto dello Stato rimane spoliticizzata.

Pensare che individui diversi con desideri diversi possano naturalmente accordarsi intorno a valori e giudizi è un’illusione mistificatoria, perché nella diversità materiale della vita non può nascere alcun accordo spontaneo. Il paradigma hobbesiano, che voleva eludere il movimento attivo attraverso il contratto sociale rendendo la realtà stabile e sicura e relegando il conflitto ad una condizione presente soltanto allo stato di natura, viene ribaltato nell’affermazione di una politica e di una cittadinanza in cui il conflitto non potrà mai arrestarsi.

Se Thomas Hobbes sosteneva che per gli individui allo stato di natura il diritto era qualcosa di coincidente con il potere di fare ciò che si desidera, compito dello Stato era proprio quello di bloccare questa potenza in favore della sicurezza generale. Dalla concezione di Spinoza evinciamo al contrario che, proprio perché conflitto e resistenza fanno parte della natura in ogni creatura vivente, inclusa quella umana, lo stato della società civile non può e non potrà mai essere uno stato pacificato.

È illusorio pensare che la sovranità possa essere trasferita nelle mani di un sovrano in quanto è impossibile che gli individui neghino la propria natura, rinunciando alla propria azione: il trasferimento della sovranità non può essere assoluto in quanto naturalmente e fisicamente limitato, perché nessuna creatura può privarsi della facoltà di difendersi.

In questo quadro, la vita diviene qualcosa di più della mera sopravvivenza biologica e la concordia non è più l’unico e primario valore di una comunità politica: l’azione del potere deve sottomettersi all’interesse degli individui e alla loro spinta di rivendicazione e salvaguardia della propria libertà che passa attraverso il dispiegamento del conflitto, pena la resistenza attiva da parte della comunità.

Quindi, lo Stato non può e non deve lasciare gli individui alla loro privatezza, in quanto il conflitto si innesca necessariamente e direttamente col potere, che non può mantenersi senza un consenso attivo della cittadinanza.

Come non esiste nell’individuo la possibilità di una ragione che regni senza scontrarsi con gli affetti del corpo, così non esiste potere sociale e politico che non si si interfacci con il conflitto, la cui assenza denota solo una realtà che ha perso il contatto con la dimensione della libertà.

La vita del corpo del singolo quanto del corpo sociale si gioca, così, nella dimensione dell’attuazione politica. La libertà diviene qualcosa che si conquista continuamente a partire dallo spazio ordinario della vita: la necessità della politica si basa non sul superamento della natura umana come dinamica e conflittuale ma sulla necessità di riconoscere e gestire attivamente questo conflitto.

L’individuo in società rimane pur sempre umano, e sempre è e sarà attraversato dagli affetti del desiderio, ragion per cui nessuna riflessione politica può essere sviluppata senza che quest’ultimo ne sia al centro. Accettare che l’azione umana si dà in termini mobili, di mutamento costante, significa che la politica si gioca su azioni e valori che devono riconfermarsi di continuo passando la prova dell’esperienza, che tutto si costruisce e sviluppa in una dialettica tra insoddisfazione e desiderio.

La pace viene risignificata e non indica più la semplice assenza di una guerra aperta, ma è una virtù che ha origine dall’affermazione di una forza comune:

una cittadinanza i cui sudditi non prendono le armi per paura, è da dirsi senza guerra piuttosto che in pace. La pace non è la privazione della guerra, ma una virtù che scaturisce dalla forza d’animo; l’obbedienza infatti […] è la costante volontà di eseguire ciò che va fatto per comune decisione della cittadinanza. Ma una cittadinanza la cui pace dipende dall’inerzia dei sudditi, che si lasciano condurre come pecore per imparare soltanto a servire, piuttosto che una cittadinanza potrà chiamarsi deserto.[12]

L’obbedienza hobbesiana intesa come sottomissione timorosa alla legge perde completamente valore e diviene qualcosa di, anzi, biasimevole.

Pace corrisponde ora ad una vigilanza attiva di cittadini che, spinti dal desiderio ad unirsi in società, stabiliscono attraverso confronto e dialogo sempre aperti obiettivi comuni da perseguire e organizzano la propria resistenza istituendo leggi e ordini allo scopo di rispondere e rendere ragione delle forze contrarie che abitano la cittadinanza.

La soggezione alla sovranità mediante il timore è qualcosa che può sussistere nel momento in cui ci fosse un’ideologia dominante che si proponesse come universale mascherando e occultando un interesse di parte, ma ciò creerebbe solo una cittadinanza vuota la cui potenza sarebbe impossibilitata ad esprimersi.

Una libertà e un bene comune che non siano ideologici si sviluppano tramite lo scontro: tramite confronto, discussione, tentativi per giungere alle condizioni migliori possibili. Il timore non corregge o muove gli individui, ma è sulla speranza attiva del vantaggio individuale e poi collettivo che maturano i migliori effetti.

Se i singoli hanno una volontà incostante, è proprio dall’unione dei molti che si raggiunge una razionalità sufficiente alla gestione di una cittadinanza. Ed è qui che il paradigma hobbesiano della sovranità subisce il ribaltamento più netto: la sovranità non è qualcosa che può appartenere al popolo come insieme di individui che perdono la propria potenza in favore di un’unità, ma deve appartenere alla moltitudine, che si configura come unico e vero soggetto in grado di agire politicamente in una convergenza di potenze individuali che affermano sé stesse.

Qualsiasi potere sovrano non può quindi mai avere potere illimitato, in quanto la sua azione è sottomessa al rispetto di un legame comune fondato sull’interesse: una comunità libera è una comunità che obbedisce solo a sé stessa, laddove l’obbedienza implica presenza attiva anziché passività timorosa, e coincide quindi con la libertà.

Porre la moltitudine disordinata come soggetto politico e radicalizzare il concetto di democrazia non significa illudersi e idealizzare il carattere e le virtù politiche di una grande massa di individui, ma riconoscere che la debolezza e i vizi che potrebbero derivare dalla sua espressione non dipendono dal molteplice in quanto tale ma dal fatto che esso sia composto da vari individuali che hanno la pretesa di farsi universali in quanto si concepiscono come entità isolate.

Prendendo coscienza della propria unione con la realtà tutta e con ogni creatura che la abita, è possibile far prevalere elementi di connessione in grado di rendere la moltitudine un luogo di relazione e scambio anziché un luogo di muta espressione singola.

Avere un approccio politico alla realtà, quindi trasformativo ed efficace, significa passare per l’affermazione e il riconoscimento delle differenti sfaccettature del reale. Agire politicamente significa prendere atto che la realtà non è ordinata o disordinata, buona o cattiva, giusta o ingiusta ma semplicemente una realtà che va affrontata con strenuo realismo e con la consapevolezza che la si può orientare solo se non ci si appella a concetti trascendenti la concretezza che affrontiamo con la nostra azione giorno per giorno.

Come la mente non può guidare il corpo dall’alto, così non ci si può appellare ad una ragione che promuova obiettivi ultimi ponendo una razionalità estrinseca che trascende il reale movimento democratico attraverso il conflitto.

Va da sé che non ci si può realisticamente aspettare un collettivo orientamento alla ragione da parte di ogni individuo, a meno che non si proponga una ragione che sotto tale termine nasconda un’ideologia dominante che schiacci la libertà di pensiero e l’autonomia individuale.

Compito etico della filosofia non è la creazione di un mondo di saggi, illusione utopistica che annullerebbe anche la necessità della politica stessa, ma una consapevolezza profonda del meccanismo del conflitto così da muovere all’azione della sua gestione al fine di inscriverlo dentro un sistema di rapporti ordinati.

Individui umani, possedendo la medesima natura, possono puntare a creare le condizioni migliori possibili solo abbracciando i conflitti e le differenze del corpo collettivo, così come nel singolo individuo un equilibrio è raggiungibile solo abbracciando le dinamiche delle passioni del corpo. Ciò non implica che il comportamento, umano e non, non possa essere regolato e indirizzato, semplicemente non è ciò a cui si può auspicare in maniera realistica.

Nonostante la diversità spinga verso il conflitto, il peggiore nemico per l’umano che esprime il proprio desiderio è sempre la solitudine, sicché l’autonomia diviene apertura anziché chiusura. La conoscenza, e al contempo la libertà, per l’individuo acquisisce un nuovo significato, divenendo conoscenza del reale e quindi degli altri enti naturali e degli altri individui, divenendo già conoscenza politica.

La democrazia è ora intesa come conoscenza: non ci sono valori e fini esterni, ma solo un’auto-perfezionamento della potenza della moltitudine attraverso un reale movimento di sottrazione alla schiavitù attraverso reti di cooperazione, resistenza, rivendicazione e conflitto con cui si difende la libertà.

Alla limitatezza dei singoli individui si oppone la razionalità collettiva, che attraverso una pratica di vita comune e della discussione produce effetti reali sul diritto e sulle istituzioni, che non possono a loro volta configurarsi come qualcosa di stabile e definitivo, in quanto il diritto naturale stabilisce la scelta continua di ciò che si ritiene essere un male minore o un bene maggiore.

La dimensione del diritto effettivo e reale diviene perciò prioritaria a quella della legge, che può essere il cuore pulsante di una cittadinanza politicamente attiva tanto quanto un insieme di macchie d’inchiostro su carta in una cittadinanza annichilita e atomizzata.

Il patto sociale hobbesiano, fondato sul rispetto di promesse invariabili, non ha alcuna forza se non in ragione dell’utilità, la quale è però principio in costante mutamento. L’obbligo dura, perciò, fintanto che la cittadinanza lo desidera, in una logica del consenso spinta alle massime conseguenze.

Lo sviluppo del bene comune diviene attività, processo concreto e attuale, verificato e vivificato continuamente in una democrazia che non esiste come sistema rigido di regole, come una particolare forma di governo sulle altre ma come pratica propria dell’individuo molteplice che si auto-organizza per sviluppare e accrescere la propria potenza e la propria libertà.

La limitatezza umana, con le sue pulsioni e i suoi desideri, non si configura più come limite allo sviluppo di un perfezionamento, individuale o politica che sia, ma ne diviene l’ausilio essenziale e necessario.

La perfezione si configura non più come raggiungimento di un obiettivo ultimo e immutabile ma si fa viva e concreta, sporcandosi di esperienza e materialità, di costruzione pratica attenta, resistente e dinamica.


[1] R. Descartes, Meditazioni metafisiche, Bari, Laterza, p. 45.

[2] utilizzo l’opera di Federici come spunto di ispirazione per la parte centrale di questo articolo, cogliendone le parti che riguardano il controllo del corpo per poi discostarmene nella riflessione puramente legata alla filosofia politica.

[3]  S. Federici, Calibano e la strega, Sesto San Giovanni, Mimesis, p. 170.

[4]  S. Federici, Calibano e la strega, Sesto San Giovanni, Mimesis, p. 173.

[5]  Ivi, p. 174.

[6]  Se da un lato si può leggere, come spesso il marxismo ha fatto, la credenza in poteri sovrannaturali come una variabile distraente rispetto ai meccanismi socio-economici del dominio sociale che attraversa la società, annichilendo l’azione politica in virtù di sentimenti di speranza cieca e impotenza, non possiamo ignorare come questo tipo di fede abbia altresì costruito spazi di costruzione e affermazione di realtà e comportamenti sociali alternativi a quelli imposti dai poteri centrali (per rimanere nel contesto, ricordiamo le sette dei valdesi, ma gli esempi possibili di figure che hanno trasformato la fede in uno strumento di liberazione e resistenza sono infiniti).

[7]  S. Federici, Calibano e la strega, Sesto San Giovanni, Mimesis, p. 186.

[8]  T. Hobbes, De Cive. Elementi filosofici sul cittadino, Torino, UTET, p. 205.

[9]  Analisi marxiana che troviamo all’altezza di scritti come La questione ebraica e L’ideologia tedesca.

[10]  il termine tedesco Bildung rimanda appunto al termine costruzione, edificazione. Paradigmatico del genere è il Wilhelm Meister di Goethe, in cui il protagonista devia dalla carriera che il padre commerciante aveva pensato per lui, seguendo le proprie illusioni giovanili per poi tornare sul cammino che era stato tracciato per lui.

[11]  Nella trattazione che segue, utilizzo come riferimento e chiave interpretativa principale il testo Tumulti e indignatio. Conflitto, diritto e moltitudine in Machiavelli e Spinoza, F. Del Lucchese, edizione Mimesis.

[12] B. Spinoza, Trattato politico, V, 4.

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Università Neoliberale – L’incubo da indigestione [di Zia Polly]

Sabato 22 marzo 2025, nel corso del convegno “Quale università? Quale ricerca? Quale sapere? Per quale società?” – organizzato da Cambiare Rotta presso la facoltà di Ingegneria della Sapienza – si sono levate voci cariche di delusione, rabbia e frustrazione, ma anche di speranza. E proprio questa speranza, a parere di chi scrive, nasce dalla scena che si è presentata agli occhi dei partecipanti: un’aula gremita di studenti, ricercatori, dottorandi, professori (sia strutturati che precari) e sindacalisti. Soggettività diverse, spesso distanti tra loro, unite però dalla volontà di condividere studi, esperienze di lotta e riflessioni critiche, con l’obiettivo di smascherare e contrastare le contraddizioni che affliggono l’università contemporanea.

Non è possibile, in questa sede, riportare tutti gli interventi che si sono susseguiti durante l’incontro, ma mi muoverò tra quelli che ho ritenuto più significativi per costruire insieme una riflessione più ampia: una riflessione che tenti di spiegare perché sia necessario – oggi più che mai – rivendicare lo smantellamento di un sistema universitario corrotto e disumano.

Vulnerabilità e resistenza: studenti e docenti sotto il giogo del capitale

 Durante il convegno, Chiara Giubilaro del CUIR[1] ha posto una domanda cruciale: “Cosa accomuna tutti noi?”. La sua risposta è stata netta: la vulnerabilità. Siamo tutti vulnerabili perché la logica del “capitale umano”[2] – l’impiego delle nostre capacità, conoscenze, esperienze per la crescita economica – nei fatti si traduce nella mera strumentalità di ciascuno rispetto a un sistema che ci sfrutta e ci logora. “Tale vulnerabilità non deve tradursi in rassegnazione, ma in lotta” conclude Giubilaro.

Ma cos’è, in realtà, l’università? E soprattutto, cosa dovrebbe essere? L’etimologia stessa della parola “studiare” – dal latino “studium”, ovvero meraviglia, ardore, cura, entusiasmo, desiderio – ci restituisce un’immagine radicalmente opposta a quella dell’università odierna. Chi, tra i lettori, si riconosce ancora in questa visione dello studente curioso, appassionato, desideroso di conoscere? Pochi, purtroppo. Oggi, molti studenti e ricercatori sono esausti, depressi, in burnout, schiacciati da un sistema che li spinge fino al limite, fino a gesti estremi. Come non ricordare lo striscione apparso l’anno scorso nel piazzale del Dipartimento di Milano (e non solo): “Non si può morire di università. Contro un merito che ci uccide!?  

Il mito tossico della meritocrazia ha portato a una competizione spietata tra studenti, alimentata da un sistema che si regge sul principio del “dividi et impera”.  Gli studenti sono trattati come futuri lavoratori da inquadrare nei processi produttivi tramite un prodotto preconfezionato – la cosiddetta “offerta formativa” – il cui unico scopo è renderli competitivi sul mercato del lavoro. Non hanno voce in capitolo nella definizione dei programmi, non dispongono di spazi in cui esprimersi e non vengono considerati come soggetti attivi nella costruzione del sapere. A questa critica si è aggiunto Francesco Maria Pezzulli, sociologo e autore de “L’università indigesta”, che ha definito gli studenti “indigesti”, poiché costretti a ingurgitare una quantità infinita di nozioni, senza il tempo necessario per assimilarle, per adattarsi ai ritmi frenetici imposti dal capitalismo.

Ma gli studenti non sono le uniche vittime di questo sistema. Anche i docenti hanno perso il senso del loro ruolo, frammentato in tre figure contraddittorie: professore, impiegato, imprenditore. Intrappolati nella macchina burocratica, sono costretti a sacrificare i contenuti didattici in nome delle procedure, a orientare il loro lavoro in base ai questionari di soddisfazione compilati dagli studenti, a pubblicare in modo frenetico (“publish or perish”) e a rendere l’università competitiva per adempiere alla Terza Missione. Anche loro sono soli, gerarchizzati, schiacciati da un modello che li trasforma in funzionari del mercato anziché in guide intellettuali.

L’università neoliberale: come siamo arrivati a questo punto?

 Il lessico economico – con i suoi creditidebiti formativiofferta didatticacompetitività – ha invaso l’università, plasmando un’istituzione che dovrebbe essere dedicata alla cultura e al sapere. Ma come si è giunti a questa mercificazione dell’educazione?

Il primo passo verso il “capitalismo accademico” risale al 1980, quando negli Stati Uniti la legge Bayh-Dole permise alle università di brevettare e commercializzare scoperte realizzate con fondi pubblici. L’Italia, da brava ghiandaia imitatrice, ha recepito rapidamente le direttive del New Public Management reaganiano e thatcheriano.

Con la riforma Ruberti (1989)[3], il declino è stato inarrestabile: si è iniziato a parlare di autonomia finanziariaefficienzacosti standard di produzione per studente, introducendo criteri di finanziamento basati su analisi comparative di costi e rendimenti, di produttività della ricerca e di gestione delle risorse pubbliche. Una svolta decisiva è stata realizzata dalla riforma “aziendalista” Berlinguer (1999)[4], che ha imposto la divisione tra lauree triennali e magistrali, moltiplicando i titoli di studio per creare ruoli professionali ad hoc e rendere l’università un’azienda al servizio del mercato. Berlinguer lo ha ammesso senza mezzi termini: L’aziendalizzazione è necessaria per rendere gli studenti competitivi nel mercato del lavoro europeo[5].

Nel corso del suo intervento, Lucia Donat Cattin (USB Scuola) ha sostenuto che questa divisione del percorso universitario ha portato all’equivalenza tra laurea triennale di oggi e diploma di vent’anni fa, e ha reso la magistrale un titolo d’élite, accessibile solo a chi può permetterselo. Infatti, solo 418.000 studenti sono iscritti a una magistrale, contro 1.200.000 alle triennali: meno della metà. “La cultura di massa non piace al capitale in crisi”, ha commentato amaramente.

I governi Berlusconi hanno completato l’opera: Moratti[6] ha fissato i CFU in 180 per la triennale e 120 per la magistrale, imponendo una gerarchia tra insegnamenti che ignora il reale desiderio conoscitivo degli studenti ed è funzionale alla riproduzione ideologica delle classi dirigenti; Gelmini[7]  ha anticipato in televisione quanto la sua riforma avrebbe corrotto l’università, dichiarando come secondo lei l’università fosse fatta da “lauree inutili, come scienza della comunicazione e altre amenità umanistiche(…) e lauree utili, in materie scientifiche, che servono all’impresa”[8]. Coerentemente con questa riprovevole affermazione, Gelmini ha legato i finanziamenti universitari esclusivamente a parametri di mercato; ha messo fine al ruolo di ricercatore a tempo indeterminato, portando ad una precarizzazione totale dei ricercatori; e, dulcis in fundo, ha introdotto la Terza Missione: le università devono “interagire con il tessuto economico”, togliendo tempo e qualità alle uniche due vere missioni – la didattica e la ricerca – e trasformandole in merci. Momento formativo e momento lavorativo diventano così indistinguibili, tanto da poter sostenere una sostanziale equiparazione tra studenti e lavoratori precari. Le università sono diventate delle agenzie di formazione qualificate e gli studenti imprenditori di se stessi. Da qui, si è contabilizzato l’apprendimento in debiti-crediti, si è parlato di “carriera” e di formazione come un prodotto, non come un processo.

Il tossico trinomio: Meritocrazia, Eccellenza, Valutazione

 Mentre gli studenti affondano nella depressione, mentre qualcuno muore sotto il peso di un sistema che schiaccia ogni aspirazione, lo Stato continua a ripetere il suo mantra: “Meritocrazia, Eccellenza, Valutazione”. Tre parole apparentemente virtuose, ma che nella realtà nascondono un meccanismo perverso di esclusione, sfruttamento e vuoto didattico. La “meritocrazia”, in teoria, dovrebbe premiare chi studia, chi si impegna, chi ha talento. Ma in un sistema che non garantisce pari condizioni di partenza, il “merito” è solo un alibi per perpetuare le disuguaglianze. Chi nasce in una famiglia benestante può permettersi ripetizioni, affitti in città universitarie, libri costosi, tempo per studiare senza dover lavorare. Chi invece proviene da contesti svantaggiati deve lottare contro precariato, debiti, mancanza di alloggi, ritmi di studio insostenibili. La meritocrazia è un sistema che premia chi è già avvantaggiato, non è giustizia sociale: è selezione di classe.

L’ “eccellenza”, nel linguaggio neoliberale, non significa alta qualità della didattica o della ricerca. Significa, invece, massimizzare i risultati con il minor investimento possibile; tagliare i fondi al personale precario; trasformare le lezioni in prodotti standardizzati. L’università diventa così una fabbrica[9] di crediti formativi, dove l’unica “eccellenza” riconosciuta è quella che produce dati statistici favorevoli, non menti critiche.

La “valutazione” dovrebbe misurare la qualità dell’insegnamento e della ricerca. Invece, si è ridotta a questionari di soddisfazione (compilati da studenti esausti, trattati come “clienti”); parametri di Terza Missione, cioè quanto l’università riesce a vendere conoscenza alle aziende o a brevettare scoperte; e pubblicazioni frenetiche, anche a costo di ricerche superficiali, pur di riempire curriculum. Insomma, un sistema che misura tutto, ma non ciò che conta. Questo trinomio Meritocrazia-Eccellenza-Valutazione serve a nascondere i tagli dietro una facciata di “efficienza”, a giustificare le disuguaglianze con la scusa del “merito”, a trasformare studenti e docenti in macchine da valutare, ottimizzare, scartare. Ma l’università non è un’azienda. Il sapere non è una merce. E noi non siamo capitale umano.

La militarizzazione della conoscenza

 Nel momento in cui l’università abdica alla sua missione formativa per trasformarsi in un’azienda subordinata alle esigenze del mercato, il suo orizzonte si restringe inevitabilmente attorno ai settori più redditizi. Tra questi, il più lucrativo è senza dubbio quello bellico, che in Italia si incarna in colossi come Leonardo[10], Fincantieri[11] e Avio Aero[12]. L’università diventa così un ingranaggio del complesso militare-industriale: l’offerta formativa viene plasmata in base alle logiche bellicistiche, i finanziamenti si dirigono prevalentemente nei settori STEM, trasformati in uno strumento della guerra, e la ricerca viene totalmente asservita alla parola “difesa”. Risale proprio al 6 dello scorso mese l’articolo de la Repubblica dal titolo: «il “riarmo” porta nuova ricerca e il Politecnico è già al lavoro»[13]. Il proliferare di progetti di ricerca civili-militari (“dual-use”) e gli accordi tra i dipartimenti e lo stato genocida di Israele sono due delle manifestazioni più eclatanti dell’indissolubile legame tra università neoliberale e ideologia imperialista e guerrafondaia.

Nel marzo 2024, trecento docenti, ricercatori e membri del personale tecnico-amministrativo dell’università di Bologna hanno firmato una petizione con cui hanno richiesto l’interruzione immediata dei progetti di ricerca e collaborazione con il gruppo Thales e l’istituto israeliano Technion, perché ancillari rispetto al perpetrarsi del genocidio dei palestinesi e sintomo di una corresponsabilità dell’università di Bologna nelle violazioni dei diritti umani che ogni giorno si consumano nella striscia di Gaza. Da una parte, il gruppo Thales opera nel settore delle tecnologie aerospaziali, in quelle di difesa e sicurezza e nelle tecnologie di identificazione biometrica e di identità digitale. All’interno della petizione, i docenti mettono in evidenza – per dirne una – che “con la compagnia israeliana Elbit System, Thales produce il killer drone Hermes 450, utilizzato dall’esercito israeliano contro la popolazione civile e responsabile della strage dei sette volontari dell’Ong World Kitchen, avvenuta a Gaza il 3 Aprile 2024”[14]. Dall’altra parte, i presentatori della petizione reclamano indignati che l’istituto israeliano Technion è “un’istituzione cruciale per lo sviluppo delle tecnologie utilizzate dall’esercito israeliano contro i palestinesi in azioni regolari e diffuse di sorveglianza, furto di terreni, sfratti ingiustificati, restrizioni alla libertà di movimento e repressione violenta”[15]. Inutile dire che ad oggi questo collaborazionismo non si è fermato, nonostante si sia aperto un tavolo di discussione per una “ricerca etica”. Da marzo 2024 ad oggi, forse UniBo sta ancora cercando di capire cosa significhi “etica” o come far rientrare l’agevolazione del massacro di un’intera popolazione nel significato del termine.  

Per restituire un’immagine complessiva della militarizzazione dell’università più antica del mondo, è inevitabile citare anche i rapporti instaurati tra UniBo e NATO. Nel 2023, l’università di Bologna ha partecipato all’esercitazione “Mare Aperto”, organizzata dalla Marina Militare italiana ma perfettamente inserita nel quadro degli interessi strategici della NATO nel Mediterraneo. Quest’operazione includeva simulazioni ad alto realismo, lotte contro minacce convenzionali e asimmetriche, raid su siti costieri d’interesse, esercitazioni di sicurezza marittima[16]. A questo si aggiunga la preoccupante cooperazione con NATO – ACT (il Comando Alleato Trasformazione della NATO), che, attraverso iniziative come NATO Model Event, istruisce gli studenti a discutere e decidere come reagire in uno scenario di crisi internazionale prefigurato. È così che Unibo si adopera per il “processo di innovazione della NATO”[17], preparando i ricercatori e gli studenti a giustificare le guerre imperialiste della NATO, spacciate per missioni di pace.

Per avere ancora più contezza di quanto la guerra sia una questione dirimente ancora – e soprattutto – oggi, guardiamo gli agghiaccianti dati offerti da Giulio Marcon della campagna Sbilanciamoci: l’Italia è il sesto esportatore mondiale di armi (4,3% del mercato globale), con un +138% tra il 2015 e il 2019. Armi vendute a dittature, mentre i governi si riempiono la bocca di parole come democrazia e libertà

E mentre la spesa militare è aumentata del 61% in 10 anni (ora è al 2% del PIL per rispettare gli impegni con la NATO), quella per università e ricerca è ferma a un misero 1,5% (uno dei più bassi d’Europa). Se l’Unione Europea deciderà di procedere con il ReArm Europe, la spesa militare italiana salirà almeno al 3% del PIL – il doppio di quanto si investe per università e ricerca[18]. Marcon ha mostrato cosa potremmo finanziare, invece: con i 130 milioni necessari per 1 solo cacciabombardiere F35 potremmo avere 6.500 residenze universitarie; con il miliardo necessario per un sottomarino sarebbe possibile assumere per 5 anni 8000 infermieri. Eppure, mentre l’Italia acquista 25 nuovi F35[19], nelle università mancano alloggi, gli affitti sono proibitivi e le condizioni di vita sono disumane.

Di fronte a tutto questo, la domanda è inevitabile: che università vogliamo?

Innanzitutto, per creare un’università diversa è necessario che i fondi statali non siano mai più asserviti alle logiche imperialiste nazionali ed europee. Dunque, vogliamo molti più fondi per università e scuola, per la stabilizzazione dei precari, per la costruzione di nuovi studentati, per un reale diritto allo studio. E, soprattutto, nemmeno un centesimo per il riarmo europeo.

Di fronte ad un’università che ci vuole intellettualmente amorfi, passivi, politicamente docili, rivendichiamo spazi di autogestione, una partecipazione attiva alla didattica, e la volontà di una conoscenza reale, conformata in base ai nostri desideri, non a quelli del mercato. Vogliamo una ricerca libera, avulsa dal mercato bellico e volta alla conoscenza in quanto fondamentale di per sé e necessaria per un avanzamento sociale e umano.

Ritengo che per realizzare queste rivendicazioni sia innanzitutto necessario svegliarci dall’incubo dell’impotenza.

Mark Fisher – in Realismo Capitalista – ha descritto la condizione studentesca con l’espressione “impotenza riflessiva”: pur consapevoli della situazione in cui versano, gli studenti subiscono in silenzio perché ritengono di non avere alternativa. Ed è questa mancanza di prospettiva che porta – a detta del filosofo – la realizzazione del classico fenomeno psicologico della profezia che si autoavvera. Invece di piegarci pedissequamente al potere che ci vuole ingranaggi ben oleati, iniziamo a esercitare il libero arbitrio e a colpire il sistema dello sfruttamento per creare una falla che possa far crollare tutto l’impianto. Mi vengono in mente mille frasi accorate per spingere chiunque legga a una qualsiasi mobilitazione, ma credo sia meglio lasciare la parola a Fisher stesso: “ogni politica di emancipazione deve puntare a distruggere l’apparenza dell’«ordine naturale», deve rivelare che quello che ci viene presentato come necessario e inevitabile altro non è che una contingenza, deve insomma dimostrare che quanto abbiamo finora reputato impossibile è, al contrario, a portata di mano.”[20]

Tengo però a dire un’ultima cosa, per restituire la complessità delle mobilitazioni e delle lotte che si stanno muovendo in questa direzione. Si ricordino, per esempio: le contro-manifestazioni di Potere al Popolo! del 15 marzo e del 6 aprile alle piazze guerrafondaie indette da Michele Serra, con la prossima manifestazione del 21 giugno contro il ReArm Europe (o, mutatis mutandis, “Readiness Europe”), contro la guerra e contro la NATO; lo sciopero del comparto della formazione del 4 aprile; le occupazioni che si stanno susseguendo in vari licei; le manifestazioni per la liberazione del popolo palestinese; lo sciopero del 12 maggio indetto da Assemblea Precaria. Tutti questi percorsi di lotta hanno dato il via ad una mobilitazione che apre le porte alla speranza di costruire davvero quest’alternativa.

Porte che stanno cercando – e forse riuscendo – a serrare con il Decreto Sicurezza, reso Decreto-legge[21] lo scorso 12 aprile con l’ennesimo colpo alle reni della democrazia. Atto che si propone il precipuo obiettivo di annichilire il dissenso, di imporre il silenzio con la minaccia delle carceri e di pene pecuniarie oltraggiose, facendosi beffe della nostra Costituzione antifascista. Mi chiedo, però, cosa spinge il governo a questa feroce repressione. Sarà mica la reazione a un sentimento di paura? E allora, forse, gli unici a non aver chiaro il ruolo determinante che giochiamo attraverso il dissenso e la lotta politica siamo noi.

Per questo, mobilitarci oggi non è un’opzione: è una necessità. Perché, vulnerabili e indigesti, solo uniti possiamo smantellare questo sistema.

Bibliografia essenziale.

F.M. Pezzulli, L’università indigesta, DeriveApprodi, 2024

M. Fisher, Realismo capitalista, Produzioni Nero, 2018

C. Palazzo, Il “riarmo” porta nuova ricerca e il Politecnico è già al lavoro, “la Repubblica”, 6 aprile 2025

A.M. Selini, La collaborazione tra l’Università di Bologna e il complesso militare industriale israeliano, “Altreconomia”, 19 giugno 2024

SIPRI (Arms Transfers Database, Military Expenditure Database); NATO (Defence Expenditure 2023); Eurostat (Education and R&D statistics); Commissione UE (European Defence Fund).

Cooperazione con NATO-ACT, Memorandum d’intesa tra l’Università di Bologna e il Comando Alleato Trasformazione. https://dsps.unibo.it/it/dipartimento/accordi-e-collaborazioni/cooperazione-con-nato-act.

G. Curcio, Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, https://osservatorionomilscuola.com/2023/10/05/dossier-unibo-universita-guerra/


[1] Coordinamento Universitario In Rivolta

[2] La nozione di “capitale umano” è stata coniata dall’economista neoliberale e premio Nobel nel 1992 Gary Becker. Non avendo lo spazio, in questa sede, per approfondire la questione, ci limitiamo a dire che Becker concepiva l’individuo come un agente economico razionale, che ha il compito di investire le proprie risorse al fine di aumentare la propria quantità di capitale umano, la quale, sommata al resto del capitale umano detenuto dagli altri componenti della società, produrrebbe un miglioramento del benessere della collettività nel suo complesso. L’effetto di questa teoria sulla concezione del lavoro nel pieno sviluppo della globalizzazione ha prodotto una giustificazione sia morale che economica ai processi di soppressione dei sistemi di protezione sociale. Per un approfondimento, si veda la lezione del 28 marzo 1979 nel corso “La nascita della biopolitica” tenuto al Collège de France da Michel Foucault.

[3]  L. 168/1989, promossa dall’allora Ministro dell’Università e della Ricerca Antonio Ruberti (governo Andreotti VI)

[4] L. 508/1999, promossa dall’allora Ministro dell’Università e della Ricerca Luigi Berlinguer (governo D’Alema I)

[5] Intervista a Giovanni Berlinguer, “la Repubblica”, 01 aprile 1998

[6] Decreto 270/2004, promossa dall’allora Ministra dell’Università e della Ricerca Letizia Moratti (Berlusconi II)

[7] L.240/2010, promossa dall’allora Ministra dell’Università e della Ricerca Mariastella Gelmini (Berlusconi IV)

[8] Trasmissione Rai, Ballarò (gennaio 2011)

[9] Di qui la pubblicità “Sapiens, Fabbrica di saperi”

[10] 9,3 miliardi di fatturato, 32.000 dipendenti

[11] 4,2 miliardi, 10.000 occupati

[12] 1,1 miliardi, 4.000 addetti

[13] C. Palazzo, Il “riarmo” porta nuova ricerca e il Politecnico è già al lavoro, “la Repubblica”, 6 aprile 2025

[14] A.M. Selini, La collaborazione tra l’Università di Bologna e il complesso militare industriale israeliano, “Altreconomia”, 19 giugno 2024

[15] Ibidem

[16] G. Curcio, Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, https://osservatorionomilscuola.com/2023/10/05/dossier-unibo-universita-guerra/ Per un approfondimento sugli altri progetti organizzati da Unibo con la NATO guardare il sito indicato

[17] Cooperazione con NATO-ACT, Memorandum d’intesa tra l’Università di Bologna e il Comando Alleato Trasformazione. https://dsps.unibo.it/it/dipartimento/accordi-e-collaborazioni/cooperazione-con-nato-act. Per approfondire altri progetti organizzati da Unibo con la NATO guardare il sito indicato

[18] Fonti: SIPRI (Arms Transfers Database, Military Expenditure Database); NATO (Defence Expenditure 2023); Eurostat (Education and R&D statistics); Commissione UE (European Defence Fund).

[19] DPP (Documento Programmatico Pluriennale per la Difesa) 2024-2026

[20] M. Fisher, Realismo capitalista, Produzioni Nero, 2018, pag. 51

[21] Decreto-legge 11 aprile 2025, n. 48

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«Al lupo al lupo»? Caso Minghetti e clima repressivo: I tempi cambiano e qualcuno se ne accorge. Ma è davvero in atto una stretta repressiva o stiamo sprecando fiato? [di Tito R. e Collettivo Minghetti]

Al lupo al lupo?

Caso Minghetti e clima repressivo: i tempi cambiano e qualcuno se ne accorge. Ma è davvero in atto una stretta repressiva o stiamo sprecando fiato?

Martedì 18 marzo: Liceo Minghetti occupato.

Mercoledì 26 marzo, mattina: Sui giornali appaiono notizie di denunce e sei in condotta per 12 studenti. Restiamo completamente all’oscuro per tutto il giorno, non viene pubblicata nessuna circolare.

Mercoledì 26 marzo, pomeriggio: organizziamo un’azione davanti alla nostra scuola per ricevere chiarezza sui temi. Il Preside non dà risposte.

Giovedì 27 marzo: i genitori convocano autonomamente una riunione, alla quale partecipano in più di 150. Indiciamo un appello alla cittadinanza per ritirare le sanzioni.

Venerdì 28 marzo: cogliamo l’opportunità e leggiamo un comunicato alla fine di uno spettacolo teatrale. Raccogliamo sempre più consensi.

Sabato 29: l’appello raggiunge le 6500 firme. Arrivano lettere in sostegno da diverse realtà.

Martedì 1 aprile: chiamiamo una conferenza stampa di fronte al nostro Liceo.

Martedì 8 aprile: raggiungiamo le 15.000 firme.

Giovedì 10 aprile: si concludono i Consigli di classe straordinari. Due studenti vengono sanzionati, gli altri 5 assolti. Non ci è ancora dato sapere chi di noi ha ricevuto la denuncia.

L’azione forte che abbiamo portato avanti come Collettivo Minghetti, la scelta di occupare il nostro Liceo, è il grido di rabbia verso quella che il ministro Valditara svende come la “scuola del futuro”: scorre davanti ai nostri occhi un fiume di bugie di fronte al quale non possiamo più stare in silenzio. Una linea, quella Valditara, volta unicamente all’inasprimento della divaricazione sociale, e che a noi, più che del futuro, pare solamente essere la perfetta rappresentazione di un presente reazionario e classista.

Accanto alla scuola di Valditara, con la riforma 4+2 dei tecnici-professionali, l’alternanza scuola-lavoro, ora PCTO, vediamo un piano agghiacciante di riarmo europeo, che sarà sostenuto da un fondo di 800 miliardi finalizzati alla spesa bellica e conseguente taglio all’istruzione. A seguito di un lungo percorso che ci vede come protagonisti in scioperi, azioni, manifestazioni e mobilitazioni studentesche, abbiamo agito in maniera forte, netta. Non è la prima volta che succede, nella nostra scuola. Non è la prima volta che gli studenti portano la politica nelle mura del Liceo, non è la prima volta che si confrontano, che mostrano sdegno e rabbia. Eppure, qualcosa è andato diversamente. Denunce, consigli di classe straordinari, sospensioni. Una sola parola: repressione.

Questa, troppo spesso nominata distrattamente e accompagnata da riflessioni prive di reale riscontro, si è invece eretta e scagliata in tutta la sua concretezza su un gruppo ristretto di circadieci studenti, ritenendo giusto e doveroso che fungessero da exemplum agli altri di noi presenti durante le giornate di occupazione.

Le decisioni del Preside, lo sappiamo, creano un sentiero di briciole che conduce alle porte del Ministero: premiando la soggettività, annientando chi alza la testa, zittendo le voci fuori dal coro. La barbarie consumatasi nell’ecosistema scolastico in cui viviamo si è plasmata in maniera proporzionale, nella forza e nell’entità, all’ambiente in cui è stata esercitata: riteniamo infatti che questo sopra citato non sia un episodio da analizzare in maniera acritica e sradicata dal contesto politico attuale, bensì come un figlio sano del nostro tempo, collocato naturalmente, come un tassello di puzzle, nella scena politica. L’astrazione quindi è doverosa per annoverare l’episodio della nostra scuola in una rete più ampia di politiche autoritarie e repressive, in un periodo storico dove si percepisce un cambiamento di tendenza nei rapporti fra il governo e i cittadini.

Ciò che abbiamo vissuto è solo l’eco di una politica che mina le piazze e la libertà del dissenso del nostro Paese.

La maggior parte di noi, durante i pomeriggi di fermento, ha assistito al becero spettacolo del dialogo fra le istituzioni scolastiche e la componente studentesca: l’ossimoro chiaro fra le rivendicazioni estremamente concrete del collettivo e le risposte vaghe e prive di sostanza del Preside, che più volte ha trasformato il colloquio in una vera e propria interrogazione su temi di cittadinanza attiva, sono state l’esempio lampante di come la cultura oggigiorno diventi, per la classe dirigente, un mezzo per tarpare le ali e chiudere la bocca. Il sapere non è più funzionale ad emancipare e formare individui verso una conoscenza di valore e una coscienza critica personale e collettiva, ma a umiliare sul piano strettamente individuale. Propone concorrenza, richiede altissima preparazione e stanca profondamente. Inoltre, lo abbiamo visto con numerose dichiarazioni del Premier Giorgia Meloni, la storia e l’insegnamento che essa porta con sé possono essere dirottati, falsificati, modificati, plasmati, ottenendo un’informazione liofilizzata, errata e marginale, che diseduca e demoralizza profondamente.

La verità è che il nemico che ci si pone davanti, come è stato detto, non è sostanza ipotetica, metafisica, lettere in fila una dietro l’altra, aeree speculazioni, ma ha le unghie per ferire, i denti per strappare. La libertà che ci viene insegnata come sostantivo femminile singolare si radica nella Costituzione, ma non assume nessun valore nell’impostazione puramente teorica degli articoli (non fraintendiate, importantissimi), quanto più nella sua reale applicazione. Dandole concretezza, questa si spinge nelle strade, nelle menti, nelle case, nei teatri e nella televisione.

Il significato astratto di quest’ultima tuttavia è debole, labile, può essere inquinato, modificato, distorto. E va sorvegliata, la libertà, perché è bene prezioso. Con essa torna il senso forte di appartenenza alla nostra democrazia, torna il dissenso come esaltazione di quest’ultima, e soprattutto emerge abbagliante la verità: la libertà, raccolta sui monti, sudicia, ferita, da partigiani della nostra età, li ha visti sacrificati ad una guerra che non avrebbero voluto, ma per la quale non esisteva altra soluzione. Giovani di diciassette, diciotto, venti anni hanno liberato il nostro paese, perché “se noi ci accontentassimo della Libertà in senso astratto, la Libertà diventerebbe una conquista fragile e poi non sarebbe goduta da tutto il Popolo Italiano, perché non può considerarsi libero.” (S. Pertini)

Abbiamo il dovere di essere forti, il dovere di lottare e il dovere di conoscere, sia se il coro sarà flebile, sia se il coro (ci auspichiamo) farà crollare le misere pareti di questa ormai traballante democrazia.

Collettivo Minghetti

Queste le parole e le riflessioni del collettivo studentesco del Liceo Minghetti. Per spiegare i motivi dell’indignazione che questa vicenda ha suscitato in una significativa porzione della comunità civica bolognese -il numero di firme raccolte parla da sé- bisogna chiarire il contesto nel quale i fatti si sono svolti: il Liceo Minghetti è uno dei due licei classici di Bologna ed eredita una tradizione d’impegno politico di sinistra e di ampia partecipazione studentesca. La lunga storia delle sue occupazioni mostra la tendenza a una ricomposizione gestita internamente, dal corpo docenti e dagli studenti insieme, adottando pratiche di auto-disciplina.

Come riportato dal Collettivo Minghetti, quest’anno la reazione del dirigente è stata invece di minacciare sospensioni, 6 in condotta e denunciare alcuni studenti, scelti in modo arbitrario, a titolo individuale. Gli sviluppi della vicenda, con l’agitazione degli studenti e i tempi necessari dei consigli di classe (unico soggetto dotato di facoltà sulle sanzioni disciplinari, come disciplinato dal DPR 249 del 1998 e come spesso si dimentica), hanno visto solamente due studenti sospesi. Sulle denunce rimane ancora un alone di mistero: il preside non ha comunicato nulla né pubblicamente né ai diretti interessati.

Le conseguenze dell’occupazione di quest’anno, a prescindere da come sia andata a finire tra denunce e sanzioni disciplinari, significheranno condizioni diverse per gli studenti degli anni prossimi: dovranno misurarsi con un precedente ingombrante, di evidente severità, e occupare richiederà, oltre che coraggio in più, un salto di consapevolezza.

Provando a predire gli sviluppi, si può pensare che forse discuteranno di più, troveranno argomentazioni più valide a sostegno delle loro idee e della scelta dell’occupazione come manifestazione del dissenso. Misurandosi con limiti più severi sapranno, forse, formare consapevolezze radicate o compiere scelte radicali…forse, insomma, capiranno come confrontarsi con l’autorità in maniera seria.

Forse succederà questo, o forse avranno semplicemente paura: della denuncia, della sospensione, di perdere treni e di rischiare troppo. “Non romperanno più i coglioni”. Passeranno meno tempo riuniti in collettivo e sceglieranno più spesso di divertirsi, invece che pensare alla politica. Forse, quindi, saranno innocui e disciplinati. L’equilibrio tra questi esiti è fragile e imprevedibile. Le motivazioni che hanno guidato dirigente, professori e studenti in questa vicenda difficili da giudicare. Si potrebbe ridurre tutto al gioco delle parti tra studenti e preside, all’invadenza dei genitori, all’irrequietezza degli studenti. Eppure, vi sono alcuni elementi, alcuni fatti, che sembrano suggerirci la necessità di allargare la prospettiva oltre la dimensione specifica del Liceo Minghetti e prendere sul serio quello che è successo. Alcuni elementi suggeriscono infatti la costruzione intenzionale d’un ambiente repressivo e autoritario, con precisi strumenti giuridici e con precise scelte politiche.

Per quanto riguarda il mondo della scuola, si citano due azioni dell’operato di Valditara: una circolare del febbraio 2024 e il decreto-legge d’ottobre 2024. Questi due testi, diversi nel valore e nel merito, sono significativi proprio perché in modi diversi mirano allo stesso obiettivo, che è l’inasprimento del disciplinamento e delle misure sanzionatorie nei confronti degli studenti. Testo privo di forza di legge, la circolare amministrativa si propone di indirizzare l’operato dei funzionari, e la nota 485 del 5 febbraio 2024, invitava a verificare estremi per le denunce, calcolare i danni economici e farli pagare agli studenti responsabili.

Il disegno di legge 1830, approvato il 25 settembre 2024 e conosciuto con il nome del ministro, oltre a introdurre il voto numerico per la condotta e l’automatica bocciatura con il 5, fondava l’impegno politico di provvedere “alla revisione della disciplina in materia di valutazione del comportamento delle studentesse e degli studenti” al fine di “ripristinare la cultura del rispetto, di affermare l’autorevolezza dei docenti delle istituzioni scolastiche… di rimettere al centro il principio della responsabilità e di restituire piena serenità al contesto lavorativo degli insegnanti…”. Pur prendendo i fini in buona fede, il senso delle invocate culture di rispetto e autorevolezza ha tutt’altra origine che nella disciplina delle valutazioni del comportamento, riformata o inasprita quanto si vuole.

È invece più recente la promulgazione con decreto-legge delle discusse norme sulla sicurezza. Dopo più di un anno di discussione parlamentare, mobilitazione di membri della società civile e riscontri costituzionali dal Quirinale, è stata infatti votato in consiglio di ministri il D.L. 48/2025. Modo e merito dell’operazione sono discutibili e pericolose. Per il modo, c’è chi ha parlato di “golpe burocratico”: come minimo è stato un gesto autoritario di governo. Per il merito, e dunque per il contenuto della legge, nonostante siano stati accolti i riscontri di possibili incostituzionalità del Presidente della Repubblica, è rimasto l’impianto autoritario e repressivo, tra fattispecie di reato nuove e inasprimento delle sanzioni per reati già esistenti. Si può prendere ad esempio la novità della “occupazione arbitraria di immobili destinati a domicilio altrui” e l’inasprimento delle sanzioni per deturpamento o imbrattamento di “beni mobili e immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche”. Non potendo citare e analizzare in questa sede ogni articolo, si lascia a titolo riassuntivo la citazione dell’associazione Antigone, che lodefinisce “il più grande attacco alla libertà di protesta della storia repubblicana”. E non possiamo non notare che è in questo contesto che si rende possibile la scelta indubbiamente repressiva e la politica di imposizione della disciplina da parte del dirigente d’una scuola tradizionalmente “politicizzata” e abituata all’auto-disciplina nei casi d’occupazione.
Insomma, succede che un preside prenda scelte appropriate all’aria, viziata dalle precise scelte politiche di cui si scriveva poc’anzi, che gli viene detto di respirare e di far respirare. E quindi si ritorna alla domanda iniziale: stiamo sprecando fiato? Stiamo perdendo tempo a parlare di questi episodi? Stiamo esagerando fatti normali, abituali, e delle scuole e della politica parlamentare italiana? Assuefatti e disorientati, potremmo credere che sia così.
D’altronde, lo squilibrio di potere nelle dinamiche politiche a favore del governo e l’adozione massiccia di strumenti legislativi d’origine esecutiva sono prassi da anni. D’altronde, la prassi punitiva degli studenti che “sbagliano” rientra tra i compiti “educativi” delle scuole da tempo immemore. Forse, in fin dei conti, non sta accadendo nulla di grave e le cose che succedono in questi giorni sono le stesse cose che sono sempre successe.

Forse, quindi, stiamo inconsapevolmente mettendo in scena la rappresentazione della favola “al lupo, al lupo”.

Nell’incertezza di questi dubbi, che è bene tenere sempre vivi in quanto insuperabili strumenti legittimanti critiche convinte e radicali, l’unica chiave di volta sembra essere l’affidamento ai fatti, osservati, valutati e analizzati in una prospettiva più ampia e critica possibile. E i fatti che abbiamo brevemente considerato sono da intendersi come particolarmente gravi sotto due prospettive simili e complementari, cioè sia perché significano un cambiamento, sia perché ne rendono possibili altri.
La mortificazione del dialogo parlamentare e democratico avvenuta con la decretazione d’urgenza delle nuove norme di sicurezza significa un cambiamento sia nella forma, e dunque nei modi della legislazione, che nei contenuti della legge. Infatti, se non è certo la prima volta che si adotta la decretazione d’urgenza per superare un’impasse parlamentare, tale scelta, legittima, sembra assumere inaudita e inedita gravità quando tronca un lungo e ricco dialogo democratico tra opposizioni, maggioranza, membri della società civile e Quirinale.
E, prendendo un esempio dai tanti contenuti del decreto- legge, se non è certo una novità la difesa dell’operato delle forze dell’ordine da sanzioni e procedure, lo è l’istituzione di un credito di diecimila euro a sostegno delle spese legali d’ogni membro delle forze dell’ordine che si trovi sotto processo, per ogni grado di giudizio.
Dunque, ciò significa innanzitutto un cambiamento delle cose, perché si è mortificata ulteriormente la prassi parlamentare e perché si è scritta una nuova legge, e poi che ne sono resi possibili altri, perché si stabilisce un precedente e si dota di nuovi e più sicuri strumenti la prossima- potenziale- stretta repressiva o autoritaria.
Fatte le dovute proporzioni, la dinamica dei fatti e delle potenzialità è simile a livello nazionale e bolognese, cioè sono simili le vicende della nuova legge sulla sicurezza, il modo in cui è stata promulgata e le sue conseguenze certe e possibili, e la punizione e il disciplinamento del preside in seguito all’occupazione del Liceo Minghetti, per il modo autoritario in cui è stata gestita e per le sue conseguenze certe e possibili.
E qui sta il senso di questo commento, che vuole essere una nota a margine di alcuni degli ultimi eventi politici e di cronaca. Partendo dalla considerazione che siano in atto dinamiche repressive e autoritarie, più o meno evidenti e pericolose a seconda della sensibilità dell’osservatore, risulta sempre più necessario interrogarsi e dubitare, riflettere e analizzare, scrivere e discutere senza paura di sprecare fiato.

È necessario infatti riscaldare la voce, affinarla e renderla più arguta, prepararla insomma, perché pure accettando che di lupi veri e propri ancora non ce ne sono, è possibile che ce ne saranno, in un futuro molto prossimo. Ce lo dicono i fatti: più o meno consapevolmente, si sta preparando il terreno ai lupi di domani. In conclusione, si propongono le calzanti parole di Anna Cocchi, presidentessa ANPI Bologna, pronunciate in Piazza del Nettuno per celebrare l’ottantesimo Anniversario della Liberazione: “Non è vero che non cambia mai nulla. Le cose stanno cambiando. E in peggio”.

A tutti noi notarlo e farlo notare.

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Documento contro le Nuove Indicazioni Nazionali di Valditara

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Elezioni studentesche del 14 e 15 maggio

Il 14 e 15 maggio, anche all’università di Bologna, si voterà per il rinnovo delle cariche di ateneo e per il Consiglio nazionale degli studenti universitari.
Per molt3 student3 questa ricorrenza non significa quasi nulla: il ruolo di rappresentante è percepito nella stragrande maggioranza dei casi come un3 “rappresentante di classe”, un3 semplice amic3 che passa le dispense e si prende la briga di chiedere all3 professor3 un appello straordinario per gli esami. È esattamente per questa ragione, ogni anno in cui si svolgono le elezioni in università, l’affluenza è bassissima e a nessun3 student3 interessa quasi nulla di chi l3 rappresenterà negli organi universitari.
Associazioni e sindacati studenteschi compaiono come funghi dopo la pioggia per chiederci il voto o di candidarsi con loro. Un caffè per poi accompagnarci al seggio a votare, più o meno come facevano i notabili liberali nell’Italia di inizio novecento.
Quando si tratta di protestare per il diritto allo studio e contro la guerra e il genocidio, però, i nostri “amici” rossi, arancio o viola, non hanno il coraggio di presentarsi.
Per non parlare dei loro alter-ego in giallo e in nero, legati a potentati e a partiti di governo, esplicitamente sostenitori dello smantellamento dell’università pubblica e delle politiche guerrafondaie.
Di politica però, non parla nessun3.
La rappresentanza studentesca, che potrebbe essere il megafono delle lotte e uno strumento di contestazione in università, viene svuotata del suo significato in favore di un modello di rappresentanza concertativo e da “promoter”. E chi ci rimette sono l3 student3 che pagano sulla loro pelle le logiche di un’università sempre più costosa e asservita alle imprese e al complesso bellico.
Questo non vale solo per il Consiglio nazionale degli studenti universitari. Anche negli organi studenteschi considerati “minori”, come il Consiglio degli studenti e il Consiglio di dipartimento, non abbiamo bisogno di questo tipo di rappresentanza.
Noi vogliamo una rappresentanza che non si esaurisce con la delega, perché i diritti si conquistano attraverso la lotta e non chiedendo cortesemente le briciole ai burocrati del ministero. Vogliamo una rappresentanza combattiva, che contesti questo modello di università in ogni occasione possibile. Una rappresentanza politica a 360° che si preoccupi anche di cosa studiamo e del ruolo sociale dell’istruzione universitaria.
Per fortuna però, ci sono anche gruppi politici che organizzano le lotte al fianco dell3 student3 e dell3 lavorator3 e che hanno deciso di candidarsi per difendere i nostri diritti. Un paio di candidature coraggiose di militant3 e attivist3 che non scompariranno il 16 maggio a risultato ottenuto.
Come Area scettica, volendo essere promotor3 di convergenza, non crediamo che il nostro compito sia quello di esprimere una indicazione di voto. Quello che possiamo dire però, è che ci auguriamo di vedere elett3 l3 rappresentanti che già sono scesi in piazza al nostro fianco, e che un domani continueranno a farlo, e non dell3 giovan3 carrierist3 che scompariranno il giorno dopo le elezioni.

Area Scettica

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Report Assemblea Aperta 27 Marzo – Nuove Indicazioni Nazionali (NIN)

Sbobinare. Trascrivere per non disperdere. Ascoltare più e più volte le proprie voci registrate, per stupirsi dei termini usati e rimpiangere quelli non detti. Comprendere una parola per un’altra, e scoprirsi a torcerne il significato perché il ricamo concettuale possa comunque convincere. Vergognarsi di psicanalizzare, con l’accetta di un boia inesperto, il tono di voce, l’inflessione, l’insicurezza o la rabbia, di chi prende parola. Sentire nei muscoli la fatica di separare le frasi dette l’una sull’altra, le voci in competizione, le parole sovrapposte. L’odio incontrollato per i sussurri, l’immediato fascino per chi sussurra.  La deformazione lisergica del tempo, per la quale un fatto o un detto possono durare ore e giorni, e ripetersi nelle settimane con mosse da cavallo degli scacchi.

Sciogliere e riavvolgere la bobina, ovvero trasformarne il magnetismo vinilico nel più scorrevole inchiostro digitale.

Abituati al reportage delle nostre caotiche assemblee, guidati da una pretesa di trasparenza e serietà militante, e ispirati da chi prima di noi ha raccontato per iscritto scambi orali, abbiamo trascritto e sintetizzato ciò che è stato detto alla nostra prima assemblea aperta in San Giovanni in Monte. Ci scusino gli storici oralisti per la forma nient’affatto letterale di questa trascrizione, si indigni Fabrizia Ramondino (che in Passaggio a Trieste scrive in un diario di bordo l’esperienza insieme alle ospiti del Centro Donna di Salute Mentale di via Gambini) per la scarsa poesia che ci stiamo concedendo, e per aver scelto di restituire in anonimato gli interventi esterni.

Questa restituzione nasce dall’interesse di condivisione di quanto detto e fatto collettivamente nelle aule della nostra università e dall’occasione che genera per noi l’atto del riascoltarci. Non ne avevamo previsto il bisogno, ma spontaneamente abbiamo registrato lo svolgersi dell’assemblea. La scarsa qualità dei nostri mezzi di registrazione insieme con il mancato avviso ai partecipanti della stessa non ci hanno reso possibile una trascrizione puntuale.

Apertura dell’Assemblea e presentazione del Coordinamento e della rivista di Area Scettica

Area Scettica si costituisce come soggetto politico eterogeneo di sinistra radicale che intende risignificare e politicizzare lo spazio di San Giovanni in Monte, costruendo una mobilitazione trasversale appoggiando la lotta dei e delle precarie, lottando contro il genocidio in Palestina, contro la retorica bellicista che permea l’università, contro il riarmo e la possibilità concreta della guerra, contro questo governo e il fascismo dilagante. Questo Coordinamento è un punto di convergenza per immaginare e mettere in pratica questa lotta. Scettica è anche una rivista, che intende rompere gli argini della cultura performativa accademica. Si costituisce cantiere aperto per mobilitare il privilegio dello studio in elaborazioni e riflessioni nuove e altre.
G
li strumenti di cui si dota Area Scettica sono quindi la redazione della rivista, aperta a contributi di chiunque voglia partecipare, pur sempre in accordo con le istanze e le posizioni politiche espresse nel nostro manifesto. Vorremmo poi costruire uno spazio di dibattito costituito dalle assemblee aperte a cadenza mensile e da una serie di incontri tematici. Il primo avrà luogo l’8 aprile in aula seminari 2, intitolato Declinazioni della resistenza: spazio, memoria, consenso. Si discuterà delle ambiguità di senso che hanno storicamente investito il concetto di resistenza, con la collaborazione dei prof Baldissara e Rovatti, che non terranno un seminario frontale ma presenzieranno in qualità di esperti e moderatori del dibattito.

Apertura del dibattito sulle “Nuove indicazioni per la scuola dell’infanzia e primo ciclo di istruzione 2025”

Interventi di presentazione di Scettica del documento che verrà sottoposto a discussione collettiva:
Le linee guida sono una serie di indicazioni dateci dal Ministero sui programmi scolastici – in questo caso della scuola primaria e della scuola secondaria di primo grado. Mi concentro in particolare sulla sezione riguardo l’insegnamento della storia, che appare immediatamente come molto problematica. È una storia manipolata portare avanti dei concetti tardo ottocenteschi, la nazione, l’identità, un governo che si sente minacciato dalle diverse identità che compongono il nostro paese e che cerca di insegnare la storia in un’ottica nazionalista andando contro tutta la tradizione storiografica che si è sviluppata dal ’68 in poi. La nostra proposta è elaborare insieme un documento condiviso per prendere posizione in quanto student3 di storia e di tutte le scienze sociali.
      Si parla di contenuti fortemente eurocentrici ed orientalisti. Un atteggiamento, potremmo dire, da West vs. Rest: l’Occidente contro tutti. Si parla solo ed esclusivamente di Storia europea ed italiana, dove l’”altro” diventa un alterità estremamente generica. È chiarissima l’intenzione del voler riprendere il discorso dello scontro tra civiltà di Huntington, che ha prodotto dei danni incredibili. Il tentativo è di regimentare il fronte interno partendo anche dalla scuola, come esplicitato dallo stesso Galli della Loggia. Si stanno riabilitando posizioni – superate ampiamente anche da un punto di vista storiografico – attribuendogli una funzione eminentemente politica.
     Chiunque vi ha detto che la storia non serve a niente per la politica vi ha gettato fumo negli occhi. Per questo è importante questo momento: costruire un’opposizione a questo governo passa anche da questi dettagli. Si cita la scuola come “fucina dell’identità nazionale”. La storia ha davvero come obbiettivo quello di trasformare i singoli studenti in degli italiani provetti? Una mentalità che affonda in una logica ottocentesca risorgimentale estremamente anacronistica e razzista. È fondamentale organizzarsi, a partire da questo dibattito.
      Vorremmo aprire un discorso sulle premesse, introdotte da brevi sottocapitoli che riguardano la persona, la scuola e la famiglia. I cosiddetti capisaldi della vera identità “italiana”. Scuola e famiglia afferiscono a due ambiti molto differenti: la scuola deve occuparsi solamente dell’educazione intellettuale e cognitiva, la famiglia si occupa dell’educazione affettiva e sentimentale. Scuola e famiglia sono due universi che non dialogano con la società e da essa non sono affatto intaccati. Il termine “società” compare in questo testo come problema: rimandiamo a Thatcher, per cui esistono solo individui e famiglie, non società. Queste linee guida riflettono esattamente questo modello di individuo.
    Le reazioni negli ambienti storiografici professionali sono state diverse: la SIS [Società Italiana delle Storiche] si è espressa contro questo documento, rifacendosi alla mancanza dell’educazione sessuo-affettiva nelle scuole e alla definizione della violenza di genere come “triste patologia”, alla quale viene proposta una “complementarità delle rispettive differenze”: un comodo posizionamento che prevede un incastro perfetto tra gli stereotipi del maschile e del femminile. In breve, un’insalata di buoni sentimenti e l’amore possono bastare, purché si rimanga all’interno del modello di amore e di complementarità di ruoli già predefiniti. L’Istituto Parri – la Rete degli Istituti per la Storia della Resistenza e dell’età contemporanea esprime preoccupazione per i passi indietro contenuti in questo documento. Nella proposta storiografica, come abbiamo già detto, che esprime una visione nazionalista, anacronista e distorta, ma anche a livello metodologico: il metodo storico proposto da queste linee guida faccia è una vera e propria retrocessione rispetto alle linee guida del 2012 e al modo in cui studiamo oggi Storia in università. Un mese fa è uscito il primo manuale italiano di didattica della storia, una disciplina che ha acquisito di recente una sua solidità nel contesto italiano. Queste nuove direttive, modificando la didattica, ci sconvolgono. La svalutazione delle capacità di apprendimento dei bambini delle bambine è un primo passo nella svalutazione complessiva del ruolo della scuola come formazione di soggettività autonome e pensiero critico.

Intervento di Scettica sulle “Linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica” del 2024:
Queste linee presuppongono che l’individuo sia il nucleo centrale della società, composta da un insieme di tanti individui, e nulla di più. Il concetto di libertà, sottolineato come fondamentale, è subito collegato alla libera iniziativa economica e alla proprietà privata, definita “elemento essenziale della libertà individuale”. La libertà coincide quindi con il liberismo. Questa libertà è connotato esclusivo dell’Occidente, dell’Europa e del nostro territorio nazionale. Le democrazie occidentali, in quanto capitaliste, sono considerate le uniche portatrici di libertà. Il diverso è concepito solo come termine di paragone per il bambino bianco occidentale, cattolico e italiano che si costituisce referente primario del concetto di libertà e vera democrazia.

Intervento esterno 1: Mi preme sottolineare l’uso e l’abuso del linguaggio religioso nelle linee guida ministeriali.  Non sono solo un vezzo su cui dibattere: dall’anno scolastico 2026/2027 entreranno in vigore – magari modificate lievemente in seguito al confronto con i sindacati ed altre forme di rappresentanza – e avranno un impatto reale. Ad ogni scuola sarà demandato il modo in cui vorrà applicarle. Per insegnare dovranno essere studiate e saremo obbligati, come futuri insegnanti, ad interfacciarcisi. L’intento è quello di formare il buon patriota di domani, cristiano e occidentale. Un intento chiaramente politico e ben esplicitato dalle dichiarazioni di Galli della Loggia.

Intervento esterno 2: nell’immediato, queste indicazioni non avranno grande efficacia, dato che i maestri attuali sono abituati ad avere una certa autonomia di formazione. Avranno efficacia sul lungo periodo, così come questo attuale governo che durerà almeno altri dieci anni, con buona probabilità. Queste idee si costituiranno oggetto della manualistica scolastica. Inoltre, il sottolineare come non abbia senso insegnare il metodo critico ma piuttosto narrare la storia come favola della buonanotte… questo implica una separazione tra il mondo accademico e il suo rigore scientifico e formale e l’opinione pubblica. Chi ci sta in mezzo? Ci sta Ernesto Galli della Loggia, lo pseudo-intellettuale da televisione senza formazione accademica da storico che finirà a interfacciarsi con pedagoghi, non con storici. L’università ha una certa autonomia di gestione ed insegnamento, ed è improbabile che queste linee guida la possano permeare. Chi insegna ad elementari e medie non ha una formazione prettamente storica, in realtà. Tra le speranze e i problemi c’è il silenzio degli intellettuali e dell’università. Nella piazza di Serra abbiamo visto come l’intellighenzia di questo paese sia l’archetipo di intellettuale che si presenta in una piazza che dice tutto e dice niente. In università c’è ancora un barlume di libertà di pensiero, che va smosso.

Intervento esterno 4: non c’è senso storico o consapevolezza del passato fuori dagli ambienti universitari. È fondamentale, perciò, non pensare solo a noi stessi e dare per scontato che tutti abbiano gli stessi livelli di comprensione delle misure recenti del governo.

Intervento esterno 5: una linea d’attacco a questo genere di documento è mostrare la sua più completa ignoranza sulla storiografia. Non è solo il progetto evidentemente ideologico che ci sta dietro e lo scontro ideologico che ne consegue, ma contiene falsità storiografiche e scientifiche. Emerge anche una problematica di tipo pedagogico: il professore che deve narrare la storia come se fosse una favola ne svilisce la funzione, e la svuota di ogni senso critico. Si tratta quindi di un problema sia storico e storiografico che pedagogico. Ho una domanda: in che modo questa cosa ha un impatto sulla stesura dei libri di testo?

Federico: le case editrici si accordano sui programmi dei manuali rispettando le linee guida ministeriali sull’insegnamento. Faccio notare come la disciplina storica subisca ancora l’eredità delle riforme gentiliane di epoca fascista in cui viene considerata come ancillare rispetto alle altre discipline. Viviamo in un ambiente accademico dove ci iperspecializziamo su determinati temi, senza curare la preparazione generale.

Intervento esterno 6: gli insegnanti alle elementari sono laureati in scienze della formazione, mentre alle medie hanno lauree nelle singole discipline. Serve una multidisciplinarietà che non riusciamo a creare: per le scuole primarie è essenziale il contributo della pedagogia. I libri di testo delle elementari non hanno mai le fonti, e hanno già un’impostazione di tipo narrativo. Vorrei che le discipline comunichino maggiormente, anche perché il modello universitario non può essere applicato in quanto tale al mondo estremamente diverso della formazione elementare e primaria. Bisogna trovare una maniera alternativa, superando questo obbrobrio di linee guida, che sia adatta ai bambini e di carattere interdisciplinare.

Intervento esterno 7: la scuola è sempre un luogo dove avvengono processi di soggettivazione funzionali allo stato liberale e al governo. Va certamente tenuta presente una critica mirata a queste specifiche linee, ma bisogna contemporaneamente tenere a mente che non si tratta affatto di un’eccezione: la scuola ha sempre funzionato così.

Intervento di un membro dell’Assemblea Precaria Universitaria, che presenta brevemente l’Assemblea: guerra e militarismo stanno arruolando tanto la ricerca, quanto l’insegnamento, quanto il lavoro. Lo vediamo anche nel modo in cui le diverse discipline sono attivate nella produzione di discorsi di guerra, innovando le policy che devono regolamentare la ricerca dual use, un tipo di ricerca immediatamente finalizzato alla guerra. Questo si collega strettamente alla precarietà, perché si tratta di finanziamenti europei e a progetto, che investono ed elargiscono fondi a progetti bellicisti.
La necessità di fare movimento è un tema fondamentale: questo è il primo di una serie di momenti di discussione centrali per poter fare movimento oggi, partendo da specifici nodi problematici che riguardano anche il modo in cui abbiamo militato fino ad ora, per tentare di superare automatismi e chiamate rituali a cui spesso ci troviamo davanti. È necessario provare a capire come si costruisce un movimento forte e radicale. Come Assemblea Precaria vogliamo chiamare uno sciopero a maggio dell’università tutta, ed è necessario elaborare una sintesi comune per rendere lo sciopero effettivo. Questo lo si fa anche in spazi che affrontino in maniera netta nodi di discussione e tengano insieme strategie diverse.

Intervento esterno 9: ricordiamo che i pedagoghi si stanno attivando nelle scuole, e stanno cercando strumenti di resistenza: Valditara ha proposto di discutere tali linee con un questionario per lo più a crocette da diffondere in tutte le scuole. I consigli di classe e di istituto si stanno trasformando in luoghi di rifiuto di compilazione del questionario, senza se e senza ma, in aperta opposizione. Esistono forme di resistenza possibili anche già in atto, ci sarà un’assemblea pubblica e vi inviteremo.

Intervento esterno 10: Mi definisco uno studente-lavoratore, europeista. L’Europa è quella realtà che è riuscita ad andare oltre i confini delle nazioni. Non è un nemico ma può essere un alleato, se lo abbandoniamo siamo in balia di altre autocrazie. L’Europa esiste e non è un nemico.

Federico: volevo solo dire che nessuno ce l’ha con i pedagoghi!

Intervento esterno 2: no, certo, la questione era mostrare come queste idee non abbiano cittadinanza all’interno del sapere storico. Chi non ha una formazione prettamente storica ha semplicemente meno mezzi per contestare queste linee guida. L’obiettivo è produrre un senso storico diffuso. L’intervento di meloni su Ventotene è un esempio [redigi e finisci]. Intersecare visioni e pratiche è fondamentale.

Matteo, tornando sulla questione del riarmo europeo: il concetto di Europa in sé non è negativo: il nemico non è l’Europa, ma questa Europa. Se ci limitiamo al campo delle linee guida in ambito scolastico dell’UE degli ultimi trent’anni, vediamo come siamo andati sempre nella stessa direzione. L’UE nasce come un progetto malato in sé. È difficile sostenere la tesi che abbia sconfitto il nazionalismo… coloro che sostengono questo tipo di conflitto e vogliono riarmarsi per partecipare a una guerra che non è nei nostri interessi sono nostri nemici.

Chiara: Sul rapporto tra pedagogia e storia, ricordo che la SIS ha preso parola, come dicevo, sulla storia come utile disciplina per approcciarsi al tema del genere. Non ha parlato solo di questo, ma ha messo in luce le problematicità che ruotano attorno alla figura del maestro, cioè come viene declinato il rapporto tra educandi ed educatori. Storia e pedagogia devono collaborare.

Chiusura: Senza dubbio si è trattato dimomento iniziale di un’importanza fondamentale, almeno per la mobilitazione all’interno di questo dipartimento e come dinamica di riappropriazione di uno spazio universitario. Cercheremo di fare una sintesi delle posizioni espresse in questa assemblea per costruire un documento unitario come coordinamento attraverso un lavoro di sintesi a cui è possibile partecipare e su cui ci si può confrontare, via mail o sui nostri canali.

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ASSEMBLEA – 13 MAGGIO

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«No! Questa cartolina rosa bisogna strapparla!» la rivolta antimilitarista del “Non si parte” e la figura rivoluzionaria di Maria Occhipinti – di Gt Ung

Chi scrive è nato e cresciuto in Sicilia, poi trapiantato a Bologna: un cervello in fuga, certo, ma di poco conto.

Questa precisazione è necessaria per giungere alla seguente premessa: la Resistenza è un fenomeno che per noi siciliani è sostanzialmente distante. Non vi sono, in Sicilia, i “luoghi della Resistenza”, non vi sono (o ce ne sono molto pochi) monumenti ai partigiani, né lapidi che ricordino i nomi dei fucilati in nome dell’antifascismo. È difficile, crescendo in un contesto di questo tipo, rendersi conto del valore fondativo dell’esperienza partigiana per la nostra Democrazia: bisogna scoprirlo, rincorrerlo, studiarlo. Ma è precisamente questo “vuoto” inseparabile dalla mia personale biografia che mi ha spinto a chiedermi quale rapporto si fosse instaurato tra la Sicilia “liberata” dal fascismo, invasa, bombardata, conquistata e poi amministrata dagli alleati e la Resistenza del centro-nord, proprio a ridosso dell’80° anniversario della Liberazione del nostro paese dal nazifascismo (25 aprile) e della fine della guerra (2 maggio).

È così, nella speranza di poter riempire un “vuoto”, ed anche – non lo nego – di trovare qualche cosa di accattivante, di onorevole per la mia terra, che in qualche modo la leghi all’esperienza della Resistenza partigiana, che mi sono imbattuto nei moti dei “Non si parte” del dicembre-gennaio del 1944-1945, una rivolta mossa dai siciliani contro la coscrizione indetta dal Regno del Sud per combattere i nazisti e i repubblichini al Nord con il rifondato Esercito Regio, al fianco degli alleati e del Cln. Un’esperienza che, contrariamente alle ragioni che mi hanno spinto a parlarne, con la Resistenza che celebriamo il 25 aprile ha ben poco a che vedere.

Quello dei Non si parte è fenomeno complicato, eterogeneo, che per anni è stato taciuto dalla storiografia; liquidato nel secondo dopo guerra da destra a sinistra come un movimento filofascista: un “rigurgito”, per comunisti e socialisti, una “resistenza al contrario” per i repubblichini.

La tesi di questo articolo è che un moto popolare e talvolta spontaneo come quello dei Non si parte, sviluppatosi in una circostanza storica assolutamente complicata, non può essere liquidato con la semplice categoria del “filofascismo” e che, al contrario, merita di essere indagato a partire dall’analisi concreta delle ragioni materiali che hanno spinto studenti, donne ed ex coscritti siciliani a rifiutare nettamente la guerra a un anno e passa dall’armistizio.

In quest’articolo, si tenterà di ripercorrere i momenti salienti di questa rivolta a partire da una contestualizzazione storica della battaglia per la conquista della Sicilia e delle condizioni in cui versavano i siciliani durante il suo svolgimento. Per farlo, ci si concentrerà sulla biografia di una figura cruciale dei moti dei “Non si parte”, Maria Occhipinti: “Una donna di Ragusa”[1], come recita il titolo della sua autobiografia, ma soprattutto una rivoluzionaria, comunista e antifascista, che ha rischiato la propria vita in nome della pace e della giustizia sociale nella Sicilia martoriata dalla guerra e dal fascismo.

L’Operazione Husky: la guerra non fa prigionieri

L’operazione Husky venne messa in campo dagli alleati all’alba del 10 luglio del 1943. Portò al collasso dello Stato fascista il 25 luglio, con le dimissioni di Mussolini, e poi all’armistizio firmato a Cassibile il 3 settembre e reso pubblico l’8 settembre dello stesso anno da Badoglio, in accordo con le forze alleate di stanza in Sicilia. L’operazione fu accompagnata da un’intensificazione progressiva dei bombardamenti a partire dai primi mesi del 1943, i quali, come fu prassi durante la Seconda Guerra mondiale, avevano l’obiettivo dichiarato di mettere in ginocchio la popolazione e costringerla al rifiuto del fascismo.  Il risultato fu ottenuto.

Sul tema dei bombardamenti alleati in Sicilia, è rilevante l’ultimo studio dello storico siciliano Rosario Mangiameli[2]. Questi racconta, ad esempio, il modo in cui Palermo fu assediata dalle bombe alleate tra il febbraio e l’aprile del ’43, con l’uccisione di 224 persone, e con un aggravio dei bombardamenti nel mese di maggio, durante il quale morirono invece almeno 373 persone. Ogni giorno, dalle 14:00, circa 20 000 persone in quei mesi hanno lasciato Palermo in cerca di un riparo nelle vicinanze. Nello stesso periodo, racconta Mangiameli, in Sicilia si trovava la figlia di Mussolini, Edda, che in una lettera implorava il padre di mandare viveri nell’Isola, sottolineando la gravità della situazione siciliana. Tutto preannunciava una disfatta assoluta: “Io sono stata in Albania e in Russia – scrive Edda – mai ho visto tanta sofferenza e dolore. E io stessa ho l’impressione di essere capitata non so dove lontana le mille miglia dalla Patria e dalla civiltà. Non si potrà per tutti, ma che abbiano l’impressione che si tenti di aiutarli”[3].  

Dopo aver annichilito la popolazione civile ed aver mostrato la debolezza militare del fascismo, gli alleati penetrarono nell’isola, contrapponendo a tale insufficienza un arsenale composto da 2.775 navi da trasporto e da guerra, 4.000 aerei, 14. 000 veicoli, 600 carri armati nelle mani di 115 000 soldati del Commonwealth e 66 000 americani[4]. Il fronte si sgretolò con eccezionale rapidità.

Non solo i bombardamenti, però, contribuirono al rifiuto del fascismo da parte dei siciliani. In questa circostanza, la perdita del consenso del regime dipese da almeno due ragioni complementari. Oltre alla schiacciante superiorità militare e tecnologica delle forze alleate, che sconfissero le divisioni italiane (10) e misero in fuga quelle tedesche (3) al di là dello Stretto di Messina, è necessario sottolineare, in primo luogo, la disorganizzazione amministrativa caratteristica del fascismo, aggravatasi nei mesi decisivi della conflitto; e, in secondo luogo, la stanchezza della popolazione civile, che, provata dalla guerra e dalla fame non riusciva più a sostenere la propaganda del regime. La stessa propaganda che aveva promesso alla popolazione che la guerra sarebbe finita in quattro e quattr’otto, che bisognava combattere gli inglesi, nemici plutocratici d’oltralpe, che “mangiavano cinque volte al giorno” e minacciavano il prestigio italiano nel Mediterraneo.

Al netto dell’aspetto eminentemente militare, è forse necessario indagare la questione a partire dalla biografia di una persona normale, dalle sue sensazioni, dalle sue emozioni e dal modo in cui queste, di concerto con la sua condizione sociale in un preciso periodo storico, hanno fatto sì che sviluppasse un rifiuto militante nei confronti della guerra e del fascismo. È il caso della biografia di Maria Occhipinti.

Maria Occhipinti, il lungo dopoguerra del ’43

È attorno alla propaganda menzognera del fascismo che Maria Occhipinti forma la propria coscienza politica. Le sue memorie sono un’opera di eccezionale importanza per comprendere dal punto di vista microcosmico di una donna, di origini contadine, nella Sicilia fascista e in guerra, poi campo di battaglia e di armistizio, che cosa potesse voler dire rifiutare la guerra. Il suo punto di vista rappresenta una prospettiva privilegiata per entrare il più possibile nelle dinamiche che hanno portato allo scoppio dei moti dei Non si parte, così come le sue riflessioni rimettono in discussione le soluzioni che la storiografia ha adottato per categorizzare queste rivolte come “filofasciste”.

Nata a Ragusa il 29 luglio del 1921, Maria Occhipinti ha narrato le contraddizioni dell’Italia fascista, il bigottismo della religione, la povertà di un popolo massacrato dai suoi governanti corrotti. Ebbe una vita particolarmente difficile. Figlia di un muratore, poi emigrato da solo nelle colonie africane dell’Italia fascista per tentare di mantenere la propria famiglia, Occhipinti non poté studiare, né dare sfogo alla sua ineguagliabile curiosità. Soffriva, amaramente. Scriveva di avere fame di musica, arte e poesia, “ma non sapevo dirlo, spiega nella sua autobiografia, perché erano cose sconosciute”[5] al mondo che lei abitava. Fu l’incontro con un avvocato antifascista, amico del padre, a cambiarle la vita, quando questi le consegnò una copia de “I Miserabili” di Victor Hugo. Un libro, racconta Occhipinti, che fagocitò con grande passione, tutto d’un fiato sotto le lenzuola e a lume di candela. Attorno alla storia di Jean Valjean, Occhipinti poté sviluppare un senso critico antifascista, cominciando a scoprire le menzogne del regime e le atrocità della guerra. Un giorno, in fila alle poste per ritirare il misero compenso che il fascismo forniva alle donne con mariti al fronte, incontrò una comare “veterana”, che aveva vissuto la Grande Guerra e adesso viveva la Seconda Guerra mondiale. Discutendo con Occhipinti, la “veterana” affermò: “Comare, pazienza ci vuole. Si sa, sono sempre le pezze che vanno per aria. E le pezze siamo noi, sono i nostri figli, soprattutto”[6]. Un’immagine, quella delle “pezze”, che in Maria Occhipinti suscitò un senso di disgrazia, di rabbia e ribellione. Una metafora perfetta, che da sola racchiude l’intera atroce ingiustizia della guerra.

La sera dell’armistizio, senza troppe domande, in provincia di Ragusa si decise di inaugurare la processione dei due santi protettori, San Giovanni e San Giorgio cavaliere, per ringraziare Iddio della fine della guerra. Nota Occhipinti, “chi poteva prevedere gli sviluppi della situazione? Chi aveva l’idea che i padroni del nostro suolo adesso erano i tedeschi e che il pericolo fosse ancora più grave di prima?”. La festa scoppiò nel paese: nessuno pareva volere accettare l’idea che la guerra non fosse finita. Era troppo grande la gioia per la fine del conflitto. Così la si pensava, così doveva essere e per questo bisognava ringraziare il Signore. Persino il governatore americano che, giunto nella piazza tra la popolazione, provò a dire che la guerra continuava e che gli americani erano ora alleati degli italiani veniva ignorato. La “fine della guerra”, al di là di ogni interpretazione politica, della fede religiosa di ognuno e dal fatto che si appoggiasse o meno il fascismo, rappresentava una gioia incontenibile. Un fatto, questo, da tenere a mente per comprendere i successivi sviluppi. E davanti a quest’esplosione di gioia religiosa, davanti al modo in cui la popolazione civile inneggiò a Dio, ringraziandolo per quella che si riteneva fosse la fine del conflitto, Occhipinti non poté sottrarsi ad un malessere interiore. “Che orrore, che orrore”, scrive, “Volevo gridare forte con tutta l’anima: Perché crediamo a questo legno, perché ci prostriamo?” e poi, da questo, il ritorno della guerra e delle sue ragioni dal cielo sulla terra, il ritorno della colpa sulle spalle dei potenti: se “la guerra è finita, non è per volontà loro, ma perché il sangue ha coperto la terra e gli uomini ne sono sazi fino alla nausea, per questo è finita e non per merito loro”[7], cioè dei santi. È già chiaro nella mente di Occhipinti: rivolgersi a Dio non sarebbe più bastato per sottrarsi alla logica di morte cui soggiace la guerra. Sarebbe servito, ad un certo punto, impugnare le armi, mettere a rischio sé stessi, il proprio corpo in nome dei propri ideali.

Ebbene, com’è noto, una volta conquistata la Sicilia e stipulato l’armistizio con il neonato Regno del Sud, gli alleati istaurarono un governo provvisorio d’amministrazione militare, l’AMGOT (Allied Military Government of Occupied Territory), sotto il controllo del generale britannico Alexander. L’Italia era ora spaccata in due, e nel frattempo la guerra imperversava. La precarietà di questa forma di governo non riuscì a sedimentare il sentimento di sincera felicità e fiducia negli alleati da parte dei siciliani per la fine della guerra. Davanti al collasso dello Stato fascista, insufficiente nella propria capacità distributiva ben prima della partecipazione al Secondo conflitto mondiale, la Sicilia soffriva l’incapacità dell’amministrazione di riprendere il controllo della catena di approvvigionamento e della distribuzione del grano. Questo stato di cose provocò lo sviluppo del mercato nero e la recrudescenza del fenomeno mafioso, che adesso tornava ad occupare in taluni casi i luoghi di potere, com’è l’esempio del capomafia Calogero Vizzini, nuovo sindaco di Villalba per volere degli alleati e figura cruciale proprio del contrabbando degli ammassi granari. In un certo senso, è possibile asserire che tale precarietà era anzitutto nell’interesse degli alleati, i quali, onde evitare una rivoluzione sociale nell’isola, dovevano mantenere un basso profilo politico e tracciare dei canali di interlocuzione con le classi dirigenti locali[8]. Tra le altre cose, questo ha comportato un repentino riciclo della classe dirigente fascista, com’è il caso – uno per tutti – del vecchio podestà di Catania, il marchese Antonino di San Giuliano, riconfermato nella carica di sindaco dagli alleati dopo la resa della città. Secondo Mangiameli, la riconferma dei podestà fascisti da parte degli alleati è un fatto riscontrabile almeno nel 50% dei casi[9]. All’orizzonte di questa complessissima situazione, il fenomeno dell’indipendentismo andava concretizzandosi nel MIS (Movimento per l’Indipendenza della Sicilia), creato e guidato da elementi della classe dirigente pre-fascista, come Andrea Finocchiaro-Aprile, figlio di un ministro del governo Giolitti del 1892[10].

Tra mille contraddizioni, mentre il fascismo agonizzante tirava al nord i suoi ultimi calci e fondava la famigerata Repubblica Sociale Italiana, formalizzando il proprio vassallaggio nei confronti dei nazisti, gli alleati restituivano nel febbraio del ’44 il governo all’amministrazione italiana. Venne nominato un Alto commissariato, istituito per la gestione del processo di riunificazione dell’isola alla compagnia statale, Francesco Mussotto, già scelto dagli alleati come prefetto politico della città di Palermo. A gennaio, i partiti antifascisti ricevettero il permesso di ricostituirsi, e, con pratiche differenti, cominciarono a confrontarsi con il fenomeno del separatismo, che nel frattempo cresceva a loro svantaggio. Dopo la liberazione di Roma il 4 giugno dello stesso anno, si decise per la sostituzione di Mussotto, che fu accusato di una presunta apertura nei confronti del movimento separatista, con il democristiano Salvatore Aldisio, che, invece, optò per la linea repressiva nei confronti del MIS – che nel frattempo formava un esercito clandestino, l’EVIS (Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia), con l’obiettivo dello scontro armato con lo Stato italiano per ottenere l’indipendenza dell’isola – e del suo ruolo nel contrabbando del grano[11]. Il tentativo di Aldisio fallì e il mercato illegale continuò a crescere. Nel mentre, i partiti antifascisti facevano fatica a radicarsi nel territorio e il PCI, in particolare, pagava con le rivolte dei propri militanti e numerose spaccature interne le contraddizioni della Svolta di Salerno, voluta da Togliatti e avallata dall’Unione Sovietica. L’insieme di queste contraddizioni, in una situazione, quella siciliana, che Mangiameli ha definito “magmatica”[12], sarebbe esploso con l’inizio di una nuova campagna di coscrizione.

No, questa cartolina rosa bisogna strapparla!

“Una mattina di dicembre del 1944, scuro in volto, il postino mi porgeva una cartolina rosa. ‘Che cos’è questo biglietto?’ gli chiesi. – ‘Leggete, signora Marietta, e vedrete di che si tratta’. ‘Al Signor L. Giuseppe… in nome di S. A. R. Umberto di Savoia, Luogotenente del Regno … entro dieci giorni vi presenterete al Distretto militare … Portate con voi gavetta, cucchiaio e coperta’”[13]. Oltre ogni gelida ricostruzione storiografica, nel penultimo capitolo della sua autobiografia, Occhipinti riporta per filo e per segno quali sensazioni le suscitò il nuovo ordine di coscrizione: l’incubo della guerra ricominciava. Per i primi tre anni del conflitto, ai siciliani era stato ordinato di versare il loro sangue in nome della Patria, del Re, del Duce, contro gli alleati, americani, inglesi e russi. Adesso, ai siciliani si chiedeva di versare il loro sangue in nome della Patria, del figlio del Re – un principe travestito da Luogotenente – e contro il Duce, con gli alleati, americani e inglesi. Si disse, l’obiettivo è dare una mano ai partigiani. E questo fu l’intento anche del PCI. Ma allora, per quale motivo i siciliani rifiutarono la leva obbligatoria e non andarono a combattere nel centro-nord al fianco degli alleati e dei partigiani? Si trattò davvero di un moto reazionario, implicitamente rivolto al passato in difesa dell’ormai morente regime fascista? Per rispondere a queste domande, occorre ritornare brevemente ad un fatto verificatosi durante l’esperienza del democristiano Aldisio come Alto commissario in Sicilia.

Nelle veci di Alto commissario in Sicilia, membro del governo Bonomi, Salvatore Aldisio tentò una violenta repressione nei confronti dell’indipendentismo, a cui cercò di sottrarre il sostegno esplicito della mafia. Il mezzo privilegiato per compiere tale iniziativa fu l’Esercito regio. È ancora Mangiameli a spiegare che la situazione subì una forte scossa quando, nel bel mezzo di via Maqueda, una delle vie più importanti e centrali di Palermo, un corteo di impiegati affamati venne represso nel sangue. L’Esercito regio in questa circostanza sparò sulla folla e uccise 24 persone, ferendone 158. Aldisio tentò di giustificare tale efferatezza accusando il movimento indipendentista. In quest’occasione, comunisti, socialisti azionisti e demolaburisti votarono un ordine del giorno del Cln in polemica con democristiani e liberali e attaccarono fortemente l’Esercito[14]. Da questa situazione, continua Mangiameli, derivò un indebolimento complessivo del Cln, proprio quando il governo Bonomi tentava di portare a termine i provvedimenti più importanti. Su tutti, una nuova chiamata alle armi[15], in ragione della quale vennero inviate migliaia e migliaia di cartoline rosa come quella raccontata da Occhipinti.

Dappertutto, in Sicilia, si organizzava la protesta, che si aggravava, appunto, dopo i fatti di via Maqueda, a Palermo, e dopo l’uccisione di uno studente a Catania, a metà dicembre dello stesso anno[16]. Adesso la rivolta interessava la zona della Sicilia sud-orientale, a Ragusa, Modica, Vittoria, Comiso, Scicli e in alcuni centri del Siracusano. Lo scollamento tra la società civile e il governo era quasi assoluto: le condizioni materiali in cui versava la popolazione erano essenzialmente insostenibili. La situazione precipitò quando si scoprì che le lettere di arruolamento giunsero persino nelle mani di coloro i quali erano rientrati in Sicilia appena dopo l’armistizio dell’8 settembre.

L’epicentro dei moti fu Ragusa, dove la protagonista assoluta fu proprio Maria Occhipinti, all’epoca incinta di cinque mesi. Lei, iscritta al PCI, nutriva delle riserve nei confronti dell’ordine del Partito. Raccontando l’incontro con un compagno, il quale aveva avuto modo di ascoltare personalmente la direzione del Segretario del PCI siciliano, Gerolamo Li Causi, Occhipinti scrive: il “partito aveva preso una posizione. Li Causi era venuto per dare l’ordine di partire. Non partire era come tradire i fratelli del Nord che lottavano per liberare l’Italia dal fascismo. Ma molti comunisti non potevano ammettere che si andasse ancora a combattere in nome della monarchia. Quel compagno, per esempio, si rifiutava di combattere per il Re, era contro ogni genere di guerra che non fosse una rivoluzione, e ormai risoluto a non partire”[17]. Come questo giovane compagno, anche Occhipinti si convinse: “ho deciso d’impedire con tutte le mie forze che si parta per la guerra”, scrive. La mattina del 4 gennaio del 1945 venne il giorno di mettere in pratica questa decisione. I camion del Regno si dirigevano in ogni luogo della provincia per compiere il rastrellamento ed imporre la coscrizione militare. Prendevano tutti i giovani che trovavano nei bar, nei calzolai, nei barbieri. Giunto nello “stradone”, la via principale del paese, corso Vittorio Veneto, all’incrocio con via IV Novembre, il camion dell’Esercito si confrontò con una folla ribelle, alla testa della quale si trovava proprio Maria Occhipinti, con in grembo una bambina. È qui che quest’ultima sposò ufficialmente la via della rivolta. Ecco cosa avvenne nelle sue parole: davanti alla protesta “i poliziotti erano impassibili, il camion riprendeva la sua marcia lenta e inesorabile. Allora urlai ‘lasciateli!’, e mi stesi supina davanti alle ruote del camion: ‘Mi ucciderete, ma voi non passate’ […]. I poliziotti mi rialzarono da terra e cercarono di convincermi a tornare a casa, che i giovani li portavano al distretto e poi li rilasciavano subito. Ma io continuai a protestare e a oppormi col mio corpo disteso nel fango della strada”. Mentre in quest’incrocio cresceva la tensione, l’intera protesta assumeva i contorni di uno scontro frontale tra manifestanti, da un lato, e poliziotti, carabinieri e membri dell’Esercito dall’altro. Quando le autorità di polizia diedero l’ordine del rilascio, i soldati reagirono sparando sulla folla uccidendo un giovane comunista e ferendone gravemente un altro. Mentre la folla si dileguava, Occhipinti restava al fianco dei più coraggiosi. Un uomo, dopo aver disarmato un carabiniere, puntandogli la pistola alla testa gli intimò la morte se lui e i suoi colleghi non avessero preso con sé il ferito. La ebbero vinta e il ferito venne portato in ospedale. Ritiratisi, i soldati si riorganizzarono per continuare la repressione il giorno successivo, il 5 gennaio. Lungo tutta la giornata del 5 ci furono degli scontri a fuoco tra la mitragliatrice dei soldati e le armi dei manifestanti, trovate in casa dal fronte e rubate ai prigionieri disarmati il giorno prima. Per un’intera giornata, a Ragusa, in quel quartiere denominato la “Russia” per le sue inclinazioni comuniste, i cittadini e le cittadine opposero una tenace resistenza armata alla coscrizione obbligatoria, prendendo diversi militari come prigionieri e controllando il posto di blocco di Beddìo, appena fuori dal paese. Infine, la ebbero vinta nuovamente, i soldati si ritirarono. La rivolta dei Non si parte adesso interessava particolarmente il ragusano. Scicli, Vittoria, Avola, Giarratana e Santa Croce Camerina insorgevano. Il caso più clamoroso della rivolta è senza dubbio quello di Comiso, centro agricolo di 25.000 abitanti, dove, tra il 5 e il 6 gennaio, venne  proclamata una Repubblica indipendente, con tanto di Comitato di Salute pubblica, squadre per l’ordine interno ed un sistema di distribuzione dei viveri a prezzo di consorzio. Quella di Comiso fu un’esperienza tanto eccezionale quanto breve. Già l’11 di gennaio, davanti alla minaccia di un bombardamento massiccio da parte del governo Bonomi, gli insorti nel numero di 300 vennero arrestati e mandati al confino, tra Lipari e Ustica. La stessa sorte, qualche giorno prima, toccava al paesino di Occhipinti: nella “notte tra il 6 e il 7 gennaio, per la nebbia, la pioggia, il freddo e la stanchezza rimasero in pochi a fare la guardia. Non c’era possibilità di cambio, tutto era affidato all’improvvisazione e allo spirito di sacrificio dei giovani. All’alba ci furono nuovi assalti da parte dell’esercito”. Dopo un’estenuante resistenza, i soldati riuscirono a penetrare nel paese, rastrellando casa per casa. Come scrive Occhipinti, bastava “avere offerto una sigaretta ai soldati catturati dai ribelli per essere puniti”. In quei giorni, cominciò una vera e propria caccia all’uomo, cui la donna di Ragusa sfuggì per otto giorni in latitanza. Fu un evento, quello della repressione dei moti, accompagnato dalla condanna della rivolta da parte dei partiti di sinistra, che spaccò il movimento operaio e contadino in Sicilia. Raccontando i fatti, Occhipinti si lascia andare ad una riflessione particolarmente rilevante ed esplicativa nei termini delle sensazioni dei rivoltosi, delle loro ragioni e della distanza incolmabile che separava il microcosmo ragusano e la storia dell’isola in generale, da quel che accadeva nel centro-nord nella lotta al fascismo: “Non ci fu giustizia per la povera gente. Mentre centinaia di famiglie di lavoratori soffrivano per i loro figli catturati o uccisi, i fascisti continuarono a passeggiare indisturbati per la città. Gli arrestati erano quasi tutti comunisti e socialisti. I partiti di sinistra condannarono spietatamente gl’insorti, senza nessuna comprensione per le amarezze e le ragioni del popolo”. Al senso di insoddisfazione, Occhipinti fa derivare una spiegazione politica: “La guerra aveva aperto gli occhi alla gente. I contadini avevano subito l’ingiustizia dell’ammasso obbligatorio, avevano visto entrare in paese i camion carichi di grando del signor Tizio e del signora Caio, le riverenze e gli inchini ai grandi proprietari e l’umiliazione delle loro donne alle quali era stato strappato il sacchettino di grando raccolto spiga per spiga dopo la mietitura”. Per anni, dunque, i siciliani erano stati preso in giro, maltrattati e bistratti dal regime e poi, in maniera diversa, dagli alleati. In questi termini, spiega Occhipinti, la “Sicilia si era arresa perché stanca della guerra e del fascismo”[18]. Per tale ragione, continua,  non “si potevano richiedere ancora sacrifici ed entusiasmo a cittadini per i quali la patria non aveva mai avuto nessuna considerazione e rispetto”. Ebbene, bisognerebbe domandarsi, al netto di ogni contraddizione, che cosa fosse la “patria” per i contadini del sud, che cosa fosse stata sino a quel momento e di più ancora che cosa avesse rappresentato per loro. Per tale ragione, chiosa Occhipinti, “al di sopra di ogni speculazione di fascisti e separatisti la ribellione dei giovani contro la chiamata alle armi era stata spontanea e sincera”[19].

È la stessa posizione di un altro protagonista della rivolta che prese piede a Comiso, Giacomo Cagnes, nel dopoguerra divenuto più volte sindaco del paese. Così come riportato dal blog InfoAut[20], Cagnes, in un’intervista dell’11 settembre 1972, rilasciata a Giovanni La Terra, ha dichiarato che “l’unico centro direzionale esistente (il Comitato di Salute Pubblica) era formato da giovani, in maggioranza di sinistra e non annoverava nel suo seno né un separatista né un fascista”; dichiarando altresì che la “base di massa del movimento era rappresentata dalla stragrande maggioranza della popolazione, prevalentemente contadina (di tradizione socialista), la quale appoggiava apertamente il movimento. Anche gruppi numerosi di donne, nei quartieri, erano uscite dalle lor case”. Restava la contraddizione tra la fede politica di chi prese parte ai moti dei Non si parte e la direzione centrale del partito. È ancora Maria Occhipinti a tentare una spiegazione, ancora una volta con un tono marchiato da un netto coinvolgimento, come quello di chi, come lei, ha svolto il ruolo di protagonista. Spiega Occhipinti: l’azione “dei partiti antifascisti fu deplorata da tutti. Se ci tenevano veramente a che la Sicilia aiutasse i fratelli del Nord contro il fascismo e contro la guerra, perché non avevano cominciato a dare l’esempio i capi, come avveniva tra i partigiani dell’Alta Italia? E non era una terribile leggerezza quella di richiamare in massa fascisti e antifascisti, non era un gran rischio armarli e tenerli insieme?”. Per ovviare al rischio, continua Occhipinti, si poteva pensare ad un “volontariato cosciente, ma al volontariato si pensò quando era già troppo tardi. In quell’occasione il popolo lavoratore si sentì abbandonato dai suoi capi e la sua fu una disperata rivolta contro la guerra”[21].

Il risultato della rivolta fu che solo 15 mila si presentarono su 75 mila ordini di coscrizione e in tutto il mezzogiorno ci furono 50 000 processi[22]. La repressione del movimento fu violentissima. Nella sola provincia di Ragusa, gli arrestati furono 388, dei quali 32 vennero trasferiti nel carcere di Catania, 10 a Milazzo, 15 a Siracusa, 28 a Noto, 15 a Caltagirone e 288 inviati al confino nell’isola di Ustica[23]. Tra questi ultimi, Maria Occhipinti.

Nonostante il confino, Occhipinti accrebbe e mantenne la propria fede comunista. Nella sua autobiografia racconta come, il giorno in cui si seppe dell’insurrezione partigiana del centro-nord e della vittoria definitiva della Resistenza sul nazifascismo (la notizia era giunta ai confinati il 7 maggio del 1945) nell’intera isola di Ustica lei e i suoi compagni marciarono intonando l’Internazionale e sventolando una bandiera rossa fatta in casa, alla bell’e meglio, la quale poi dovette essere nascosta dalle autorità. Nell’isola, i carcerieri ebbero paura che a cantare l’Internazionale fossero i sovietici, giunti non si sa come a conquistare Ustica per instaurarvi il bolscevismo: chiusero “le scuole, si diceva che erano sbarcati i Russi nell’isola. E invece eravamo noi, che nonostante il divieto della polizia avevamo fatto una manifestazione, con discorso, corteo e bandiera. La bandiera era uno straccio rosso, una vecchia gonna di una nostra compagna, ma eravamo tutti fieri lo stesso. Un compagno vi aveva dipinto in giallo falce e martello”[24]. Dettaglio di non poco conto, che occorre ricordare per restituire in maniera quanto più precisa possibile il quadro, è che Maria Occhipinti all’epoca, dall’insurrezione sino al confino, portava in grembo una bambina, Marilena (contrazione di Maria Lenina, così chiamata in nome di Lenin) che diede alla luce proprio in carcere, a Ustica. Con Marilena di appena due mesi in una mano e la bandiera rossa nell’altra, Occhipinti aveva sfilato in corteo festeggiando la fine della guerra. Dopo il corteo, lo stesso Togliatti spedì ai confinati di Ustica una lettera di incoraggiamento, mentre Li Causi faceva sapere che il Partito era a lavoro per un’amnistia.

I confinati di Ustica rimasero sull’isola per 15 mesi. Durante questo tempo, sperimentarono la durezza del regime carcerario e ancora una volta la precarietà della loro sussistenza in quello che, dall’aprile-maggio del ’45, diventò un dopoguerra generalizzato nella penisola. Ennio Sassi, nel suo lavoro “I moti dei ‘Non si parte’”, cui si è fatto riferimento già in precedenza, racconta con dovizia di particolari le condizioni di vita al confino: i confinati, spiega, per la maggior parte, “provvedono ai loro bisogni con il sussidio governativo detto in gergo ‘mazzetta’. Questa fino al mese di dicembre 1945 ammonta a 14 lire al giorno e a 24 lire per le madri con bambini, poi viene portata a 30 lire, rimanendo ugualmente un sussidio molto esiguo, se si pensa che un chilo di carbone costa 100 lire. Inoltre fruiscono di una carta annonaria, con la quale ricevono ogni giorno 30 grammi di pasta, 10 grammi di zucchero, 400 grammi di pane ed un sacchetto con pochi grammi di legumi”. Per riuscire a sopravvivere, era necessario cercare anche un lavoro, spesso come bracciante agricolo, secondo criteri talmente atavici da ricordare il feudalesimo. Le cose cambiarono nel dicembre 1945, quando, continua Sassi, “viene tolta la carta annonaria mediante la quale si provvede a fornire cibo, preferendo per motivi di convenienza aumentare da 14 a 30 lire il sussidio, con il quale i confinati devono da soli pensare al proprio vivere, continuando la direzione a fornire direttamente soltanto 400 grammi di pane e 30 grammi di pasta”[25].

La vicenda si avvia verso una conclusione dopo la proclamazione della Repubblica e, soprattutto, con l’emanazione del Decreto presidenziale del 22 giugno del 1946 n.4, la famigerata amnistia firmata da Togliatti. Mentre ciò avveniva, Occhipinti si trovava nel carcere delle Benedettine di Palermo, perché a Ustica, lei ed Erasmo Santangelo, comunisti entrambi, erano stati ritenuti pericolosi per il mantenimento dell’ordine pubblico e per questo trasferiti. Come Occhipinti stessa racconta, il suo calvario, amnistia compiuta a giugno, si concluse solo a dicembre del ’46. Venne trattenuta in carcere per un altro processo, diverso dai fatti del 4-5-6 gennaio, ossia un combutta tra carcerati per 200 lire.

Per concludere

In quest’articolo, si è tentato di ricostruire brevemente gli avvenimenti che hanno prodotto i moti popolari del dicembre-gennaio del 1944-45, la rivolta dei Non si parte. Un fenomeno poco conosciuto, per lungo tempo abbandonato dalla storiografia e che meriterebbe senza dubbio un approfondimento maggiore e molto più spazio di quello che in questa sede si è potuto dedicargli. Ad ogni modo, quest’esperienza, vista dalla prospettiva microstorica di un personaggio così “comune” ed allo stesso tempo così incredibile come Maria Occhipinti, rimette in discussione una serie di luoghi comuni attorno al ruolo della Sicilia durante la Seconda Guerra Mondiale, facendo riemergere al contempo l’esigenza di un’analisi approfondita a proposito del complicato ed ingarbugliatissimo rapporto tra la mafia, gli alleati, l’indipendentismo e la popolazione civile, operaia e contadina. Tale esperienza, con il protagonismo femminile di cui Occhipinti fu senza dubbio una delle esponenti più rilevanti, getta nuova luce su alcuni aspetti dei processi di emancipazione della donna nella Sicilia afflitta dalla guerra e dal fascismo. Non ultimo, l’esperienza dei confinati di Ustica fornisce un dato importante che non può essere dimenticato quando si discute l’effetto di una delle misure adottate dal primo governo della storia repubblicana tra le più discusse, ossia l’amnistia firmata da Togliatti in qualità di Ministro della giustizia.

In conclusione, quel che possiamo trarre dalla storia dei Non si parte, accennando un azzardato punto di convergenza con l’esperienza della Resistenza partigiana del centro-nord, è che il rifiuto del fascismo equivale sempre e comunque, almeno in principio, al rifiuto della guerra. Una lezione, questa, da cui è possibile imparare moltissimo anche e soprattutto oggi, dal momento che lo spettro della Terza Guerra Mondiale è tornato ad aleggiare prepotentemente nei parlamenti, e non solo, della nostra Europa.


[1] Occhipinti, Maria, Una donna di Ragusa, Ragusa, Sicilia Punto L, 2016.

[2] Mangiameli, Rosario, Guerra e desiderio di pace, La Sicilia nella crisi del 1943, Roma, Viella, 2025.

[3] Mangiameli, Rosario, Guerra e desiderio di pace, La Sicilia nella crisi del 1943, Roma, Viella, 2025.

p. 59.

[4] Ibidem.

[5] Occhipinti, Maria, Una donna di Ragusa, Ragusa, Sicilia Punto L, p.39.

[6] Occhipinti, Maria, Una donna di Ragusa, Ragusa, Silia Punto L, 2016, p. 45-46.

[7] Ibidem, p. 66-70.

[8] Mangiameli, Rosario, Guerra e desiderio di pace. La Sicilia nella crisi del 1943, Roma, Viella, 2025 p. 235.

[9] Ibidem, p. 247.

[10] Lupo, Salvatore, La Mafia, Centossessant’anni di Storia, Roma, Donzelli, 2018 p.189.

[11] In questa sede non c’è né lo spazio e né il tempo per affrontare la questione del MIS e delle sue connessioni con il mondo mafioso. Per farsi un’idea superficiale, però, basti pensare che uno dei più grandi storici della mafia, Salvatore Lupo, ebbe a dire che “con il separatismo la mafia, per la prima e l’ultima volta nella sua storia, si identificò con un partito anziché inserirvisi strumentalmente”, condividendone, con le dovute precauzioni e parzialmente, la “ideologia”. Ibidem, p.190.

[12] Mangiameli, Rosario, Guerra e desiderio di pace. La Sicilia nella crisi del 1943, Roma, Viella, 2025 p. 255.

[13] Occhipinti, Maria, Una donna di Ragusa, Ragusa, Sicilia Punto L, 2016 p. 77.

[14]Mangiameli, Rosario, Guerra e desiderio di pace. La Sicilia nella crisi del 1943, Roma, Viella, 2025, p. 261.

[15] Ibidem, p. 261.

[16] Sassi, Ennio, I moti dei “Non si parte”, Lettera del Centro Studi e Documentazione Isola di Ustica n. 46/47gennaio-agosto 2014, p. 36.

[17] Occhipinti, Maria, Una donna di Ragusa, Ragusa, Sicilia Punto L, 2016 p. 82.

[18] Occhipinti, Maria, Una donna di Ragusa, Ragusa, Sicilia Punto L, p.89.

[19] Ibidem, p. 90.

[20] https://www.infoaut.org/storia/5-gennaio-1945-repubblica-di-comiso-i-moti-del-non-si-parte.

[21] Occhipinti, Maria, Una donna di Ragusa, Ragusa, Sicilia Punto L, 2016, p. 90.

[22] Mangiameli, Rosario, Guerra e desiderio di pace. La Sicilia nella crisi del 1943, Roma, Viella, 2025, p. 264.

[23] Sassi, Ennio, I moti dei “Non si parte”, Lettera del Centro Studi e Documentazione Isola di Ustica n. 46/47gennaio-agosto 2014, p. 37.

[24] Occhipinti, Maria, ibidem, p. 103.

[25] Sassi, Ennio, I moti dei “Non si parte”, Lettera del Centro Studi e Documentazione Isola di Ustica n. 46/47gennaio-agosto 2014, p. 38.

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