Femminismi e antispecismi: un’alleanza necessaria [di Ninel]

Troppo spesso le lotte antispeciste vengono vissute come diverse rispetto a quelle femministe. Ma sono realmente tali? Le matrici dell’oppressione femminile e animale sono davvero così differenti tra loro?

Per molti, il concetto di “mascolinità tossica” si esplica nel rapporto che il maschile ha con la controparte femminile, pensando che la sua influenza si limiti al controllo e alla manipolazione delle donne o alla creazione di norme e leggi rivolte agli stessi uomini. Il discorso, in questo modo, risulta esclusivamente antropocentrico. Ma è realmente così?

Lo stretto rapporto tra mascolinità tossica e consumo di carne è, in verità, un aspetto proprio della nostra società. Mangiare carne è una caratteristica che molti uomini ritengono indispensabile ai fini della loro virilità; il consumo di altri esseri viventi è un mezzo di affermazione e dimostrazione di potere. Per questo, come afferma Carol J. Adams, «gli uomini che scelgono di non mangiare carne ripudiano uno dei loro privilegi maschili». Al contrario, il consumo di prodotti vegetali viene spesso associato alle donne, perché la presupposta carenza di nutrienti dei vegetali meglio si addice all’idea del femminile come debole e delicato.

Se, dunque, il “semplice” mangiare carne si maschera da atto naturale, per poi rivelarsi un fenomeno culturale di matrice maschilista, si potrebbe iniziare a intravedere una similitudine tra quelle dinamiche patriarcali che regolano la vita degli esseri umani e quelle che regolano la vita degli esseri non umani.

Esaminando più a fondo questa prima somiglianza, si potrebbe allora individuare, nelle forme più comuni di violenza machista, una pratica condivisa che colpisce sia le femmine umane che quelle di altre specie.

Il primo strumento impiegato nell’istituzionalizzazione dell’oppressione è il linguaggio. La cultura patriarcale ha generato logiche sociali che permettono di utilizzare lo stesso tipo di linguaggio per animali e donne, al fine di materializzarne la presupposta inferiorità. Si pensi a come una stessa parola possa indicare tanto un animale quanto una donna (soprattutto in relazione alla sua sessualità): “vacca”, “cagna”, “scrofa”. Oppure a come le donne stesse, vittime di violenza, si associno agli animali definendosi, per esempio, “pezzi di carne”. Questo atteggiamento, sempre secondo Adams, avviene perché «la politica sessuale della carne è un’attitudine, una prassi che animalizza le donne e sessualizza e femminizza gli animali».

Per di più, sempre citando Adams, «gli animali vengono resi assenti attraverso il linguaggio, che rinomina i loro corpi morti prima che il consumatore se ne alimenti». Di fatto, noi non mangiamo “animali morti”, bensì bistecche, prosciutto, cotolette e così via. Questa logica porta a due conseguenze: da un lato, l’animale viene privato della sua essenza e trasformato in prodotto; dall’altro, si manifesta il tentativo di alleggerire il senso di colpa legato all’uccisione e al consumo di un essere vivente. Questo meccanismo, riflettendo, si riscontra anche nel modo in cui il potere patriarcale minimizza l’oppressione femminile da esso stesso perpetuata.

È chiaro, dunque, come il gruppo sociale dominante abbia realizzato un linguaggio che gli consenta di porsi al vertice, a discapito di una serie di categorie oppresse, come quella animale e femminile.

La violenza discorsiva, però, non è sufficiente per affermare superiorità e operare controllo: è necessaria anche quella materiale. Nelle logiche patriarcali e capitaliste, questo avviene mettendo al centro il corpo. Il controllo di animali e donne avviene attraverso dinamiche di abuso, sessualizzazione e strumentalizzazione, a cui si aggiunge il fine di produrre profitto. Se queste dinamiche, per quanto riguarda i corpi femminili umani, sono molto più difficili da individuare perché ben nascoste, quelle a cui sono sottoposte le femmine non umane sono invece chiaramente visibili. Le femmine animali, costrette a sottostare ai regimi di produzione, subiscono abusi e sofferenze sistematiche, che prevedono l’ingabbiamento, lo stupro, la privazione dei loro corpi e della loro maternità. Tutto ciò fino a quando l’animale è in grado di reggere i ritmi di produzione; quando smette di farlo, il profitto verrà generato dalla sua morte attraverso la messa in commercio delle sue parti.

Continuando sulla via della similitudine, si può allora cercare di trovare somiglianze anche nelle dinamiche di oppressione. L’imposizione della sottomissione, la necessità di rendere la vittima inerme prima di esercitare la violenza e l’immobilizzazione del corpo per affermare la superiorità fisica sono tutte strategie che, non solo rafforzano l’idea di inferiorità di donne e animali, ma permettono anche l’oggettificazione della vittima che, in quanto oggetto, non necessita di consenso, ma anzi invita al possesso.

Privare l’essere non umano di coscienza, volontà e sentimenti ne permette, in più, l’alienazione produttiva. L’animale è visto, nei migliori dei casi, come forma di compagnia (sempre secondo un punto di vista antropocentrico); nei peggiori, come strumento di produzione. Questo ne permette la privazione dell’identità di essere vivente e la conseguente trasformazione in oggetto/ prodotto.

Nonostante, fino ad ora, l’attenzione sia stata posta soprattutto sulla carne e sugli animali femmine, il discorso portato avanti in questo articolo vuole, in realtà, essere generale ed esteso a ogni essere non umano. La creazione di una “categoria animale” colloca qualsiasi essere non umano in una condizione di inferiorità, giustificando così il suo sfruttamento. Questo meccanismo è reso possibile dalla gerarchia di valori imposta dal sistema patriarcale e capitalista, che non si limita a opprimere gli animali, ma applica la stessa logica di gerarchizzazione anche agli esseri umani. In questo modo, sia gli individui umani che quelli non umani vengono resi concettualmente inferiori, legittimando la loro subordinazione e il loro sfruttamento.

Chiunque si consideri femminist*, allora, deve riconoscere nello sfruttamento animale le medesime logiche maschiliste che opprimono le donne. Machismo e Specismo si intersecano: le loro vittime sono associate a un ruolo subordinato e inferiore in modo estremamente connesso e reciproco. Per questo, i Femminismi devono essere antispecisti e gli Antispecismi devono essere femministi.

Non si possono creare gerarchie di oppressi: decidendo di non metterci in discussione, perché non direttamente toccati dalla forma di oppressione in questione, esercitiamo il nostro privilegio e diventiamo complici del sistema che lo alimenta. Dobbiamo abbandonare i nostri privilegi e attaccare la sistematicità e l’istituzionalizzazione dello specismo in tutte le sue rappresentazioni. Solo così si arriverà a una liberazione animale, ma soprattutto universale.

N.B.

Bibliografia

C.J. Adams, (1990), Carne da macello. La politica sessuale della carne. Una teoria critica femminista vegetariana, Milano, 1990.

G. H. Di Loreto, (2021), Perché l’Antispecismo deve essere Femminista ed il Femminismo deve essere Antispecista, Balthazar, 2, Milano, 2021.

R.R. Simonsen, (2014), Manifesto queer vegan, Aprilia, 2014.

S. Dalouli, (2022-2023), Transfemmnismo e antispecismo: analizzare l’oppressione patriarcale tra le specie, Padova, 2022-2023.

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