Di Stańczyk

«Conobbi la fatica dei lenti pattugliamenti attraverso la città, la malinconia delle notti passate al posto di guardia, la noia snervante delle lunghe vegli[1]. Questo è un passo dei Souvenirs de l’année 1848 di Maxime Du Camp che esprime la lentezza e la dilatazione del tempo che soltanto chi è stato sveglio di notte scoprendo il velo soffuso delle strade poco illuminate ha conosciuto davvero. Mi ha istantaneamente ricordato quella sensazione di sobrietà eccessiva che provavo al posto di guardia della piazza d’armi di Wangen an der Aare dove svolsi il servizio militare nel 2018. Il turno di guardia si esegue sempre nello stesso modo, come ogni cosa nell’esercito. In questo caso ogni quattro ore tre coppie di soldati si alternano nello svolgimento dei seguenti ordini: controllo dei cancelli principali, pattugliamento del perimetro della piazza d’armi e riposo. Sì, anche il riposo è un compito, anzi un dovere, ma è il dovere più dolce che si possa desiderare nelle notti dell’inverno bernese. Non esiste un modo per sfuggire al turno di guardia, tutti prima o poi ci devono passare. I più insubordinati, per qualche accidentale circostanza, però, rischieranno di doverlo fare più volte, magari per più notti di fila a dipendenza del grado di magnanimità dei propri superiori. Raramente mi sono sentito così solo, dissociato e privato di poter disporre del mio tempo come nell’inverno di quell’anno. Provavo spesso una sorta di piattume sensoriale misto alla volontà di comprimere la cassa toracica fino a implodere, lasciando ai camerati un compagno piccolo piccolo, una miniatura circoscritta dai miei contorni di giovane svizzero in età di leva.
Partii l’otto di gennaio da casa mia, nell’estremo sud del Ticino, camminai dieci minuti, arrivai alla stazione di Mendrisio, salii su un treno, mostrai l’ordine di marcia al controllore, cambiai a Lucerna, poi Olten e infine arrivai a Wangen an der Aare: circa quattro ore e mezza di tragitto, una barriera linguistica e culturale, nonché qualche montagna mi dividevano da casa ma ero sempre nella stessa nazione. La località di Wangen an der Aare prende il nome dall’omonimo fiume. L’Aare è un fiume grande, sinuoso, melmoso che nasce nelle Alpi dell’Oberland bernese per poi sfogarsi nel Reno, quel mostro lungo nelle cui acque scorre profonda la storia dell’Europa. Ricordo di essermi perso più volte tra le anse dell’Aare, sentendomi un degenerato a bordo della mitica Narrenschiff, la nave immaginaria che trasportava folli e derelitti senza patria per i territori germanici. Pochi anni prima, nel 2010, un camerata vi perse la vita annegando mentre si bagnava. Ricordo che il tenente della mia sezione ci mostrò un piccolo memoriale sulle rive del fiume, all’interno del villaggio d’esercizio, spiegandoci che adesso si faceva sul serio e che non si poteva più scherzare. Ho contattato un mio ex sergente per chiedergli se il memoriale esistesse davvero o se fosse stata semplicemente la proiezione di uno studente che all’epoca stava leggendo Mosse. Lui mi rispose che non ne era sicuro e chiese a sua volta al comandante della compagnia che non ne sapeva nulla. Però ne approfittò e scarabocchiò un appunto sul taccuino dicendo che avrebbe mandato le reclute a cercarlo. Questo è un classico giochetto che si subisce nell’esercito: cercare per ore qualcosa che non esiste. Col suo discorso il tenente Z. voleva far passare un messaggio: durante la scuola reclute alcuni come noi hanno perso la vita, il militare non è divertente. Non ricordo se l’avessi preso sul serio, non ricordo se fossi stato intimorito da queste storie o se, più probabilmente, trovavo ridicolo e gretto da parte sua accoglierci alla prima settimana di addestramento con questi racconti da fratello maggiore. Non mi aspettavo certo che potessero succedere certe disgrazie.
In Svizzera la leva è obbligatoria per gli uomini maggiorenni giudicati abili al servizio. È tuttavia possibile – o almeno ai tempi lo era ancora – rifiutarsi di compiere il servizio militare e svolgere alternativamente il servizio civile, comunque obbligatorio e di durata maggiore, quindi problematico per chiunque abbia un lavoro o voglia iscriversi all’università con la tranquillità di aver già saldato il proprio debito con la patria. In Svizzera fare il militare è una cosa importante: poter riportare sul curriculum vitae questa esperienza aumenta le probabilità di trovare un posto di lavoro in molti ambienti. Alle giornate di reclutamento, dove fummo sottoposti a tutta una serie di test fisici, medici e psicologici, il colonnello mi incorporò nelle Rettungstruppen, le truppe di salvataggio. Al momento avevo la (s)fortuna di essere abbastanza allenato, in salute e non completamente psicopatico. Mi ritenni favorito dalla sorte. Dai racconti dei più grandi era un privilegio appartenere a quelle truppe perché si trattava di una delle poche funzioni che potessero avere un’applicazione pratica nel mondo reale e offrire un servizio di sostegno alla popolazione in caso di catastrofe. Oltre all’educazione classica dei soldati che comprende la disciplina militare e il combattimento, la formazione dei sauveteurs è composta da moduli di addestramento come vigili del fuoco, che non si limitano all’estinzione di incendi ma che comprendono il salvataggio di persone che hanno subito intossicazioni da gas tossici in contesti critici. Avrei inoltre imparato a spostare macerie e, più in generale, a ricercare dispersi in situazioni di pericolo ambientale e nucleare, nonché fornire medicazioni di primo intervento. Tra tutte, erano queste le uniche cose mi affascinavano. Da adolescente non avrei mai pensato di fare il servizio militare, onestamente mi aspettavo che l’avrebbero abolito prima che toccasse a me, ma mi sbagliavo. Mi arruolarono. Uscito dall’ufficio del colonnello mi fu difficile realizzare di essere a tutti gli effetti un fanciullo dell’esercito. Sarei partito l’anno dopo, finito il liceo. Quando lo comunicai a mio padre mi parve che ne fosse sollevato. Crebbi coi suoi racconti di caporale dei fucilieri di montagna: le risse, le marce, le ferite, le fughe notturne e altre cose da maschi che mi narrò negli anni mi intimorivano, ma sembravano lontane, appartenenti ad un’altra epoca, senza i colori. Io accettai di fare il soldato di salvataggio perché pensavo davvero che avrei imparato qualcosa utile per aiutare gli altri, mi sarei opposto con tutta la forza se mi avessero incorporato coi fucilieri o nell’aeronautica. In quel periodo storico pensavo che “utile” ed “esercito” – anche se solo in un caso eccezionale come le truppe di salvataggio – potessero ancora stare nella stessa frase. Oggi è evidente che allora nella mia coscienza alloggiava il germe della follia.
Un mio amico (lo chiamerò “Y.”) fu arruolato nelle truppe di fanteria stanziate a Coira, nel Canton Grigioni. Durante un’esercitazione di artiglieria in dislocamento a Wichlen, nel Canton Glarona, un mortaio al posto di sparare la mina lontano, esplose. Un frammento della canna colpì un suo camerata il cui volto si srotolò sulla neve. Mi raccontò di avere dei ricordi frammentati della giornata. Si svegliarono alla solita ora, le 05:30, e dopo le consuetudini alle quali i soldati sono obbligati a partecipare, si recarono nei magazzini per caricare i furgoni di materiale bellico. In questo caso si trattava di tubi lanciamine da 8,1 centimetri con le rispettive munizioni. Y. si ricorda che quella mattina fuori «era tutto bianco», una luce accecante filtrata dalla nebbia rendeva invisibile la linea dell’orizzonte che divideva il suolo innevato dal cielo pallido. Arrivati alla zona di lancio, per iniziare l’esercitazione, i mortai vennero posizionati su di una collina dalla quale le mine, una volta lanciate, seguendo una traiettoria calcolata, avrebbero dovuto raggiungere l’altro lato del vallone ed una volta impattato il suolo esplodere. La profondità del fondovalle era appiattita dalla cenere bianca che avviluppava le foreste di conifere. Le mine volavano ed esplodevano sorde, invisibili nella profondità del bianco, da cui emergevano le creste aguzze delle Glaronesi. Le detonazioni sembravano dar voce a quei giganti di granito i cui lamenti baritonali ammonivano le truppe per averne profanato il cortile di casa.
Boooom.
Si percepì un’esplosione diversa dalle altre, un ruggito vicino e forte e poi le urla. I soldati che manipolavano il lanciamine furono sbalzati lontano dall’onda d’urto, riportando ferite lievi. Y., che si trovava a pochi metri dal luogo di ingaggio, si girò spaventato dal rombo orribile e vide un compagno che era seduto dentro un furgone a pochi metri dalla zona di lancio. Era accartocciato e immobile ma molle come un sacchetto pieno d’acqua. Ecco il particolare del viso, messo a fuoco in un secondo momento: la sua mascella ciondolava come una vecchia persiana scardinata prima di spalmarsi definitivamente sul manto bianco. Poi Y. non ricorda bene. Mi parla di commilitoni che correvano avanti e indietro, parla di una situazione di “caos generalizzato”, poi di essersi allontanato insieme agli altri a circa dieci minuti di cammino dalla scena dell’incidente. Gli scatti restano impressi ma sono difficili da sviluppare. Nessuno al momento era in grado di capire cosa fosse successo. Si fanno supposizioni: c’è stato un incidente, è esploso un lanciamine. Qualcuno parla di elisoccorso, qualcuno di ambulanza, qualcuno parla di vita e di morte ma nessuno sa nulla per davvero. Restano solo immagini decontestualizzate. Y. non provò dispiacere o tristezza, c’erano solo confusione e sigarette. «Siamo finiti in un capannone antipanico io e i cossovari con i tatuaggi sulle mani e questi piangevano come dei bambini. Io, tra l’altro, sono l’ultimo con cui S. si è fatto un selfie pochi minuti prima dell’incidente. S. si è rovinato la faccia e penso anche parte dell’esistenza, – bestemmia forte – cosa mi stai facendo tirar fuori» ridacchia cercando di sdrammatizzare. «Io mi tocco la guancia destra, aspetta che me la tocco» mi dice schiaffeggiandosi «ed è normale. A questo ragazzo hai cambiato la faccia, gli hai plasmato l’identità». Y. fu colpito dalla leggerezza con cui si insabbiò l’accaduto, la facilità con cui le consuetudini e le leggi rigide dell’organizzazione delle giornate che passano attraverso il verticalissimo flusso degli ordini tentarono di far dimenticare alla truppa questa disgrazia. I miei superiori mi dicevano sempre: «qui bisogna spegnere il cervello» e questo lo ricordo io. Il ragazzo non morì, ma ricordo che si riuscirono a trovare pochissime informazioni su internet riguardo all’accaduto.
Sicuramente bisogna fare delle precisazioni rispetto al racconto di Y., rispetto alla verità menzognera della testimonianza di chi assiste ad un avvenimento sconvolgente e poi prova a ricordarselo. Errori di percezione si accompagnano ad errori di memoria perché il tempo passa. Se avessi avuto l’occasione di parlare con degli altri testimoni oculari avrei presumibilmente ottenuto racconti un po’ diversi, più ricchi di particolari o più scarni, probabilmente le condizioni metereologiche sarebbero state differenti, la dinamica e l’orario dell’avvenimento anche. Tuttavia, degli elementi in comune sarebbero emersi. Il ragazzo è stato effettivamente ferito gravemente al volto da un frammento proveniente dall’esplosione di un tubo lanciamine da 8,1 cm mentre stava seduto in un furgone durante il servizio militare che forse stava svolgendo controvoglia. Rifacendomi a quel mostro sacro di Marc Bloch vorrei proporre una breve riflessione sui ricordi. Rammento di essere stato colpito dalle prime frasi de La guerra e le false notizie. Ricordi (1914-1915) e riflessioni (1921). L’allora sergente di fanteria, costretto a letto da una febbre tifoide che lo allontanò dalle trincee dopo cinque mesi di servizio attivo, decise di fare quello che gli storici dovrebbero sempre fare quando sono costretti a letto: scrivere.
«Utilizzerò il tempo libero per fissare i miei ricordi prima che il tempo ne cancelli i colori, oggi molto freschi e vivi. Non riporterò tutto. Bisogna concedere all’oblio ciò che gli spetta. Ma non voglio abbandonare ai capricci della mia memoria i cinque mesi straordinari che ho appena vissuto. Essa è solita fare del mio passato una cernita spesso poco giudiziosa. Si ingombra di minuzie senza interesse e lascia che svaniscano immagini di cui anche i minimi particolari mi sarebbero stati cari. La selezione che essa compie così male voglio che questa volta sia rimessa alla mia ragione»[2].
I ricordi hanno una fisionomia dai confini sfumati, come degli schizzi a carboncino: basta passare un dito sui bordi dei volti e delle sagome ed essi si fanno dinamici, cambiano forma, improvvisamente hanno un’ombra. In questo senso, mi piace parlare dei ricordi come di sistemi di accumulazione in movimento. Il materiale che li compone si genera nel momento in cui si vive l’esperienza, ma è la lenta sedimentazione dei significati e dei simboli che si attribuiscono a posteriori all’avvenimento a modificarne i lineamenti originali e a riempirli o svuotarli di senso. Bisogna fare i conti coi ricordi, in quanto umani e in quanto storici, in generale in quanto esseri che ricercano qualcosa. Parlare con Y. in un momento della mia vita in cui ero intento a scrivere le mie memorie sull’esperienza nell’esercito mi ha istintivamente spinto a riflettere sulle parole di Bloch. Le trincee erano un calderone di mitologie e leggende apparentemente assurde, ma che sono interessanti da studiare proprio perché ci restituiscono degli schemi mentali e dei processi primitivi a cui ci affidiamo in situazioni di incertezza e di rischio. Alle leggende dei franchi tiratori e al cannibalismo dei tedeschi si aggiungono, ad esempio il mito dell’“ufficiale spia” e il timore dei pastori, pronti a tradire la posizione di una batteria disponendo i capi di bestiame in un certo modo. Si potrebbe continuare con i miti delle crocifissioni e dei fiumi di sangue, nonché indagando sulla credenza dell’“esercito dei disertori” attivo nella terra di nessuno, ma ho deciso di non dedicarvi ulteriore spazio in questa sede. Ciò che mi preme dire provo ad articolarlo recuperando un saggio di Eric J. Leed intitolato Terra di nessuno che lessi ormai diversi anni fa ma che stranamente ricordo bene. L’autore tratta le tematiche dell’esperienza bellica e dell’identità personale durante la Grande Guerra. La rigogliosa vegetazione di credenze e miti imbevuti di simbologia che si creò nelle trincee non può essere ridotta all’idea che si tratti di falsità provenienti da edulcorate realtà fenomeniche. Questo “folklore bellico” andrebbe piuttosto interpretato come necessario al combattente, in quanto unica struttura in grado di colmare il solco tracciato tra le aspettative del conflitto e la realtà dell’esperienza di trincea[3]. Questa digressione, sia chiaro, non ha l’obiettivo di screditare l’importanza del ricordo come traccia per comprendere gli avvenimenti passati. Al contrario, più ci penso e più credo si tratti di un tipo di fonte fondamentale poiché rivelatrice di significativi processi psicologici che emergono se si è in grado di grattare l’intonaco che ne nasconde le vie d’accesso. Da qualche parte, non saprei dire dove o quando, Carlo Ginzburg utilizzando una similitudine descrisse le fonti come dei fogli di carta. Da un lato del foglio troviamo i contenuti più squisitamente referenziali, quello che la fonte ci dice letteralmente, ma sull’altro lato, che è il più importante, emerge il modo in cui la fonte è stata costruita, e senza il quale non si può dare per vero, o comunque provare a comprendere mettendolo al vaglio critico, il contenuto del fronte. Bisogna intendere come inscindibile il rapporto tra i due volti della fonte passando attraverso un filtro deformante, che va diluito il più possibile. Non ci si può mai limitare a «pesare le informazioni esplicite dei documenti. […] È necessario estorcer loro le informazioni che non avevano alcuna intenzione di fornire»[4]. Chiaramente i testimoni possono mentire, sbagliarsi o contraddirsi ma è necessario che parlino, è l’unico modo per comprenderli. È l’unico modo per sviluppare una «tecnica di verità»[5]. Y. chiaramente non mentiva ma si sforzava di raccontare un ricordo emotivamente turbante, forte, eccezionale, che è un serbatoio che si riempie e si svuota di significati, di particolari, di dettagli. Secondo la mia esperienza, nell’esercito la propensione ad utilizzare materiale bellico che è stato in passato definito “vetusto” esiste. L’Ufficio dell’uditore in capo della giustizia militare, nella comunicazione ufficiale dell’indagine sull’incidente che ho descritto sopra ci fornisce il nome del modello del lanciamine. Risulta essere del 1972. Il Corriere del Ticino nel riportare la dinamica dell’incidente non parla della datazione del materiale ma si limita a riportare l’accaduto in maniera asettica, dritta, telegrafica, esattamente come mi aspetto che venga riportata:
«WICHLEN (GL) – Quattro reclute sono rimaste ferite – di cui una in maniera grave – ieri sulla piazza di tiro di Wichlen (GL) durante un’esercitazione con un lanciamine da 8,1 cm di diametro. Stando ai primi accertamenti, all’origine dell’incidente vi sarebbe l’esplosione involontaria di una munizione.
La giustizia militare ha aperto un’inchiesta sull’accaduto […]. Specialisti si trovano sul posto per fare chiarezza sulle circostanze esatte dell’incidente. Secondo la RSI [Radiotelevisione svizzera], le reclute appartenevano tutte alla scuola di fanteria 12, che ha la sua caserma a Coira. Il milite rimasto gravemente ferito non si trova in pericolo di morte, ma ha subito vari interventi al viso. Stando al portavoce dell’esercito Daniel Reist, ha subito lesioni alla mascella, ai denti e al capo […]»[6].
Questo può voler dire tutto o niente, non saranno queste le pagine in cui accuserò l’Esercito svizzero di negligenza oppure di mettere in pericolo i soldati facendoli lavorare con del materiale d’epoca. Per questo servirebbe un libro. Ciò che posso dire è che pensando alla mia esperienza, il lanciamine del 1972 non è un’eccezione ma fa parte di una tendenza. Molto del materiale tecnico utilizzato era vecchio. Tra i vari macchinari che ricordo sarebbe peccato non citare la motopompa 83, una diavoleria industriale dotata di anima propria, rombante e puzzolente grazie alla quale pompavamo l’acqua dal fiume nei bacini idrici che ci servivano come deposito da cui attingere per spegnere gli incendi, aspettavamo solo che fosse lei a causarne uno. Dalle indagini della giustizia militare, ovviamente, risulta che l’incidente di Wichlen sia avvenuto per “un’errata manipolazione” del materiale d’artiglieria[7]. Non credo proprio, ma poco cambia, perché in altri casi c’è chi decide attivamente di togliersi la vita, come nel caso di un ragazzo in servizio a Bremgarten l’anno scorso, deceduto poco prima della fine della scuola reclute:
«La giustizia militare ipotizza che la morte di un giovane soldato avvenuta martedì durante un’esercitazione della Scuola reclute 45 sulla piazza d’armi di Bremgarten (AG) sia stata un suicidio.
“Sulla base dei primi risultati delle indagini, al momento ipotizziamo un suicidio”, ha dichiarato oggi a Keystone-ATS Florian Menzi, portavoce della giustizia militare.
Martedì l’esercito aveva spiegato che il colpo di un fucile d’assalto era partito all’interno di un veicolo militare e aveva raggiunto il milite alla testa. Alla televisione RTS un portavoce aveva precisato che “non è consuetudine portare un’arma carica in un veicolo”.
Il dramma si era verificato poco dopo le 9.00. Dopo le prime cure mediche ricevute sul posto, il soldato 22enne era stato trasportato in elicottero in ospedale, dove era morto in mattinata. I primi risultati dell’inchiesta della giustizia militare sono attesi fra alcune settimane»[8].
Non ci sono stati dei campanelli d’allarme? Che rabbia! Ogni anno succede qualcosa, ogni anno o quasi qualcuno perde la vita, rimane ferito gravemente, subisce traumi fisici o psicologici in maniera del tutto legale. Che si tratti di un incidente avvenuto durante un’esercitazione oppure che si tratti di un suicidio queste disgrazie accompagnano un esercito di milizia che nulla ha di sensato, a maggior ragione per un paese che l’ultima guerra che ha combattuto era una guerra civile durata un mese circa 180 anni fa. Se arrivasse la guerra gli svizzeri potrebbero al massimo ritirarsi nelle montagne come in nani. Questa è la mia emotiva sentenza: le alabarde vanno lasciate agli alabardieri. Purtroppo, però, la demilitarizzazione della Svizzera resta un sogno, in quanto il piano della Confederazione dei prossimi anni si inserisce perfettamente nella tendenza al riarmo generale dei paesi dell’Occidente:
Nel dicembre 2024 il Parlamento ha deciso di aumentare di 4 miliardi di franchi il limite di spesa per l’esercito 2025-2028, portandolo a 29,8 miliardi di franchi. Ha l’intenzione di raggiungere l’obiettivo di spesa militare dell’1% del PIL per il 2032[9].
Se non lo hanno già fatto, speriamo almeno che alcune di queste risorse economiche siano investite per dei nuovi lanciamine, giusto per evitare che esplodano. Sarebbe un bel modo per non perdere la faccia. Della mia esperienza ho ricordi vividi, forse perché infondo non è passato così tanto tempo. Quello che ho voglia di condividere lo lascio nell’ultimo paragrafo.
Un uomo muscoloso, altissimo e rasato a zero espande la mimetica gridando in dialetto svizzero tedesco. Sputa degli ordini che non riusciamo a capire, è il primodemente. Sembra arrabbiato, ma sta godendo, pensa che abbiamo paura di lui, si nutre di questa paura, la paura gli gonfia il petto, stira le nervose fibre clavicolari e gli squadra la mascella. Ha gli occhi sgranati e spiritati, ha pochi anni in più di me ed è più giovane di alcuni dei miei compagni. È una creatura senza tempo. Il simbolo del grado militare stampato sulle mostrine annulla ogni differenza di età e ridefinisce gli anelli della catena alimentare. Se hai un grado più basso devi eseguire, devi avere timore, l’insubordinazione non piace. Dormirai meno, mangerai freddo, verrai svegliato di notte a pulire gli scarponi già perfettamente puliti, starai in posizione di attenti nel freddo gelido per delle mezzore. Perché ridevi? Forse non riderai più davanti ad un pazzo che grida. Forse una mattina non avrai il tempo di rasarti la barba e allora quando il tenente lo noterà ti ordinerà di correre dal villaggio di esercizio alla caserma a fare il lavoraccio dicendoti: «hai 20 minuti, muovi il culo!». Mi ricordo che pur di non correre quei due chilometri con gli anfibi e il pacchettaggio completo con alcuni compagni ci rasammo vicendevolmente col coltello d’ordinanza. Ho avuto la pelle irritata per una settimana ma ero contento di averlo fatto. Queste immagini grottesche mi hanno accompagnato per circa 18 settimane. La pesantezza è condivisa con altri cinquanta ragazzi, che ti capiscono e che ti aiutano, sono compagni con cui litighi, ridi e ti azzuffi. Forse piangerai davanti a dei maschi, stremato e privato del sonno e andrà bene così, perché in quel contesto loro comprenderanno, ma tornati nella vita civile questi gesti resteranno femminili, inammissibili, dimostrando che l’intimità che si è stretta coi compagni non è che illusoria e funzionale ad un temporaneo schema di sopravvivenza collettiva. Pensavo che avrei imparato a salvare la gente, ma adesso non saprei srotolare nemmeno un tubo, non saprei mettere un respiratore, non saprei montare un bacino idrico. Le cose utili me le sono dimenticate. La pesantezza delle regole disciplinari invece me la ricordo bene, mi ricordo come si spara, perché sparare è di una facilità disarmante. Basta letteralmente premere il grilletto. Nell’esercito ho imparato tanto su di me, sull’ingiustizia, sulle armi, sul loro peso, sulle loro regole di ingaggio, ho realizzato con stupore con quale velocità un ferro gelido possa diventare incandescente, ho scoperto la naturalezza con cui ci si abitua ad avere un fucile d’assalto attaccato al proprio copro per buona parte della giornata, la gravosità di un oggetto ideato per annientare esseri umani diventa abitudine. Resta il fastidio di doverlo pulire quando si incrosta di fango, il fastidio di doverlo portare ovunque, di tenerlo d’occhio e curarlo come un piccolo animale. È un essere vivente, perché si anima quando sputa fuoco. Ho riflettuto sull’ordine degli ebeti, che crea tutto questo caos, ho finto di essere un tipo di maschio che non mi piace, ho represso tante emozioni, ho cercato di capire che cosa sentissi sulla mia pelle, cosa mi facessero sentire queste forze oppressive e che cosa facessero sentire ai compagni – mi ha sempre angosciato doverli forzatamente chiamare “camerati”. Abbiamo parlato tanto di tutto e abbiamo finito questa cosa insieme. Dall’esercito ho ereditato degli anfibi molto comodi che ho risignificato. Prima mi servivano per marciare e fare rumore picchiando i piedi sul cemento della piazza d’armi al ritmo cadenzato dalle urla dei sergenti, ora mi servono per resistere al freddo umido di Bologna mentre bevo all’aperto nelle sere d’inverno e fumo una sigaretta con la consapevolezza che domani non mi dovrò svegliare alle 05:30 e soprattutto che non dovrò vedere la bandiera della nazione in cui sono casualmente nato issarsi su un’asta congelata. Ho imparato che cosa significa non scegliere e fare, ho imparato a valorizzare il tempo, la notte, i piccoli sonni, i fugaci momenti di lettura e la forza liberatoria della bestemmia condivisa. Cosa sia rimasto di quei mesi, oltre agli stivali, qualche ricordo e la rabbia, l’ho capito leggendo quella frase di Du Camp: la «fatica dei lenti pattugliamenti attraverso la città, la malinconia delle notti passate al posto di guardia, la noia snervante delle lunghe veglie» e basta.
Bibliografia
Marc Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, Torino, Einaudi, 2009.
Marc Bloch, La guerra e le false notizie. Ricordi (1914-1915) e riflessioni (1921), Roma, Fazi Editore, 2014.
Comunicato stampa dell’Esercito svizzero del 13.08.2019, https://www.admin.ch/gov/it/pagina-iniziale/documentazione/comunicati-stampa.msg-id-76034.html .
Corriere del Ticino, Quattro reclute ferite in un’esercitazione di tiro. Un militare è in gravi condizioni dopo aver usato un lanciamine sulla piazza di tiro di Wichlen (GL), 28.03.2018, https://www.cdt.ch/news/quattro-reclute-ferite-in-unesercitazione-di-tiro-183099
Dipartimento federale della difesa, Finanziamento ed equipaggiamento dell’esercito, 02.10.2024, https://www.vbs.admin.ch/it/finanziamento-esercito
Carlo Ginzburg, Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Macerata, Quodlibet, 2022.
Eric J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella Prima guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 2014.
Swissinfo, Giustizia militare ipotizza suicidio del soldato morto a Bremgarten, 26.04.2024, https://www.swissinfo.ch/ita/giustizia-militare-ipotizza-suicidio-del-soldato-morto-a-bremgarten/76457942
[1] Carlo Ginzburg, Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Macerata, Quodlibet, 2022, p. 126, dall’opera Maxime Du Camp, Souvenirs de l’année 1848, Paris, Hachette et Cie, 1876, p. 130.
[2] Marc Bloch, La guerra e le false notizie. Ricordi (1914-1915) e riflessioni (1921), Roma, Fazi Editore, 2014, p. 13.
[3] Eric J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella Prima guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 2014, p. 158.
[4] Marc Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, Torino, Einaudi, 2009, p. 69.
[5] Ivi, cit., p. 70.
[6] Corriere del Ticino, Quattro reclute ferite in un’esercitazione di tiro. Un militare è in gravi condizioni dopo aver usato un lanciamine sulla piazza di tiro di Wichlen (GL), 28.03.2018, https://www.cdt.ch/news/quattro-reclute-ferite-in-unesercitazione-di-tiro-183099 .
[7] Comunicato stampa dell’Esercito svizzero del 13.08.2019, https://www.admin.ch/gov/it/pagina-iniziale/documentazione/comunicati-stampa.msg-id-76034.html .
[8] Swissinfo, Giustizia militare ipotizza suicidio del soldato morto a Bremgarten, 26.04.2024, https://www.swissinfo.ch/ita/giustizia-militare-ipotizza-suicidio-del-soldato-morto-a-bremgarten/76457942
[9] Dipartimento federale della difesa, Finanziamento ed equipaggiamento dell’esercito, 02.10.2024, https://www.vbs.admin.ch/it/finanziamento-esercito