Che sventurati anni, quelli tra il 2014 e il 2016, quando Matteo Renzi ha svolto la carica di Presidente del Consiglio dei ministri. Genio del gioco politico, infame nella sua ambiguità, il fondatore di Italia Viva non si è risparmiato nulla: Renzi sindaco, Renzi segretario, Renzi presidente del Consiglio, Renzi senatore; Renzi quaquaraquà.
Sappiamo che la sua figura è controversa, e che alcuni sostenitori del Partito Democratico oggi si discostano indignati dalle opere del suo governo. Un po’ sospetto questo improvviso cambio di rotta, dal momento che l’attuale senatore ha rappresentato il PD per ben quattro anni[1], eletto con una maggioranza schiacciante alle primarie del 2013. Di certo, quest’elezione ha reso manifesto ciò che accomuna il PD e l’ex segretario: la capacità di trasformarsi più e più volte, senza un’idea, un programma politico, giocando a braccio di ferro con la destra su chi sia più capace a piegarsi alle dinamiche del neoliberalismo. Infatti, nei tre malcapitati anni in cui Renzi ha “guidato” il Paese, ha distrutto la tutela dei lavoratori in modi che sembrano incontrovertibili, tradendo il voto degli elettori che vedevano nel PD la famosa “alternativa”. Non lo è, ed ecco il mio ruolo in questo disvelamento: accompagnarvi arrabbiati e tristi oltre lo Stige come Caronte con le anime dannate. E come farvi veramente incazzare se non partendo dall’apice della distruzione del lavoro stabile? Sì, partiamo da qui: dal d.lgs. 23/2015, parte più scandalosa del “Jobs Act”.
Cari lavoratori e lavoratrici che siete entrati a far parte del mondo del lavoro a partire dall’8 marzo del 2015, mi rivolgo direttamente a voi in quanto destinatari delle norme del “contratto di lavoro a tutele crescenti”, che poteva benissimo essere chiamato “come eliminiamo per sempre la stabilità lavorativa”. Magari vi sentite sicuri ora che avete raggiunto un contratto a tempo indeterminato, dopo anni di abusi di tirocini non retribuiti, apprendistato e contratti a termine. Forse prima potevate stare tranquilli, ora, grazie alla “sinistra”, no.
Vi ricordate il tanto agognato e sudato Statuto dei Lavoratori?
La l.300/70 ha rappresentato nella memoria collettiva “l’ingresso della Costituzione nelle fabbriche”. Questa conquista è stata una pietra miliare delle battaglie del movimento operaio volte al conseguimento di un lavoro che fosse una vera “attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” (art.4 Cost.). Finalmente, i lavoratori vedevano riconosciuti i loro diritti fondamentali, individuali e collettivi, nei posti di lavoro.
Era possibile la manifestazione del pensiero, senza la possibilità di essere discriminati per questo, o per motivi legati al genere, all’etnia, al sesso, alla religione, all’orientamento politico e alla partecipazione ad un’associazione sindacale[2]. Le sanzioni disciplinari non erano più rimesse alla libera potestas del datore-padrone, ma disciplinate dalla contrattazione collettiva[3]. Era possibile riunirsi in assemblee e i sindacati avevano il diritto di utilizzare appositi locali per l’esercizio delle loro attività, che dovevano essere messi a disposizione dall’azienda[4]. Insomma, per la prima volta veniva riconosciuta la dignità del lavoro e dei lavoratori, con le dovute conquiste ancora da raggiungere.
L’art.18 S.L. è – o meglio, era – il fondamento senza il quale gli altri diritti riconosciuti dallo Statuto non potevano realizzarsi. Infatti, rappresentava lo strumento attraverso il quale rivendicare il diritto costituzionale alla stabilità lavorativa contro i licenziamenti ingiustificati. Il meccanismo era semplice: nel momento in cui un lavoratore veniva licenziato senza giusta causa o giustificato motivo aveva il diritto di adire il giudice e chiedere la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione e al risarcimento dei danni[5]. Quest’ultimo consisteva di tutte le retribuzioni che il lavoratore avrebbe conseguito presso il datore di lavoro dal momento del licenziamento al momento della reintegra, a cui si aggiungeva il risarcimento per i danni di qualsiasi tipo creati al lavoratore per questo abuso di potere. Erano, insomma, garantiti non solo la stabilità del posto di lavoro grazie alla reintegrazione, ma anche un risarcimento dei danni completo. Per esempio, se il lavoratore aveva appena contratto un mutuo in base alla sicurezza data dal contratto a tempo indeterminato, il datore di lavoro avrebbe dovuto risarcire anche questo danno.
L’art.18 S.L. dava un senso al contratto a tempo indeterminato, era uno strumento contro il precariato, contro le ingiustizie, contro la disoccupazione. Poi, con il tempo, è stato oggetto di picconate da destra, da sinistra, dall’Unione Europea, da governi tecnici come il governo Monti, fino a cadere definitivamente con il Jobs Act[6]. In ultimo, è stato parzialmente rianimato dalla Corte costituzionale. Tuttavia, in questa sede il mio intento è mostrare l’assetto giuslavoristico per come ce l’ha lasciato il nostro amato Partito Democratico, al fine di condividere assieme la delusione recataci da questa – neanche troppo metaforica – coltellata alla schiena, e per comprendere perché le masse popolari scelgono di non esercitare il diritto di voto o di appoggiare l’offerta politica repressiva, antidemocratica e populista della destra.
Giusta causa e Giustificato motivo; probabilmente peccando di troppa puntigliosità – mi scuserete, deformazione da aspirante giurista – vorrei spiegare cosa sia un licenziamento giustificato, ovvero cosa si intende per “giusta causa” e per “giustificato motivo”, in modo da avere un quadro generale del recesso dal rapporto di lavoro ed evidenziare quanto già scarsamente fosse garantito il posto di lavoro prima dell’intervento del magnanimo governo Renzi.
Nel parlare di Giustificato Motivo dobbiamo distinguere due fattispecie: il giustificato motivo Oggettivo e Soggettivo.
Parliamo di giustificato motivo Oggettivo ogniqualvolta il licenziamento si fonda su “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”[7]. Sono dunque legittimi i licenziamenti dovuti a una diversa organizzazione della struttura o all’opportunità di esternalizzare un’attività (appaltare, ecco il trabocchetto), oppure ancora, cosa più grave, a una scelta volta alla persecuzione del maggior profitto per il datore di lavoro.
Il giustificato motivo soggettivo, invece, si configura quando vi è un “notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore”[8]. Perché il recesso dal rapporto di lavoro sia legittimo, dunque, è necessario che il lavoratore versi in uno stato di colpa per il suo scarso rendimento, riconducibile ad una sua scarsa diligenza, prudenza o perizia.
Per Giusta Causa si intende “una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto” [9]. Per distinguere quest’ipotesi dal giustificato motivo soggettivo, la giurisprudenza e la dottrina hanno interpretato la norma nel senso di un “notevolissimo” inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro, ma anche come qualsiasi altra circostanza esterna al rapporto di lavoro, idonea a ledere il vincolo di fiducia tra le parti[10].
Ritengo di concludere da questo breve riepilogo che già dalla disciplina precedente all’avvento del Jobs act il datore di lavoro avesse anche troppa libertà di concludere il rapporto, persino quando questo fosse dovuto alla sola ingorda ricerca di un maggior profitto. La tutela del diritto del lavoro era già minima, occorreva davvero spingersi a tutelare i datori di lavoro anche quando licenziano ingiustificatamente? Vi chiedo: può un partito che si dice di sinistra realizzare delle riforme volte alla tutela esclusiva dei datori di lavoro, persino quando questi agiscono contra legem? Avrete capito a questo punto che la mia non è una domanda retorica. Non navighiamo di certo nel mare delle ipotesi: questo è ciò che il governo Renzi ha realizzato, e che il PD ha difeso e continua a difendere. A questo aggiungiamo l’aggravante che i destinatari di questa tutela sono le Grandi imprese (cioè, quelle che vantano più di 15 dipendenti per unità produttiva) e non solo le piccole imprese, dove il rapporto si consuma gomito a gomito. Parliamo di colossi multinazionali, come Eni, Enel, Amazon, ecc… imprese multimiliardarie che non dovrebbero essere tutelate con sfere di immunità, ma messe a ferro e fuoco dai lavoratori in quanto emblema dell’accentramento di capitale nelle mani di pochi padroni capitalisti, dello sfruttamento del lavoro e di territori altrui, e del profitto a qualsiasi costo, ambientale e umano.
Come è stata uccisa l’anima dell’art.18 S.L.?
In primis, il d.lgs.23/2015 ha previsto che la reintegrazione nel posto di lavoro a seguito di licenziamento illegittimo potesse realizzarsi solo in ipotesi limitatissime: licenziamento discriminatorio; licenziamento orale; insussistenza dell’inidoneità psicofisica; licenziamento della lavoratrice in stato di gravidanza o entro un anno dal matrimonio; licenziamento ritorsivo (che si configura quando il lavoratore viene licenziato per aver fatto valere i propri diritti); insussistenza del fatto materiale. Riguardo a quest’ultima ipotesi, vorrei sottolineare che prima del Jobs Act, a seguito della riforma Fornero, si parlava di una generica “insussistenza del fatto”. Nella piena, infame consapevolezza del legislatore, l’aggiunta del termine “materiale” ha impedito un’interpretazione estensiva di questa fattispecie, rendendo quasi impossibile una sua configurazione. Vi faccio un esempio per maggiore chiarezza: arrivate con un ritardo di 30 minuti per il crollo di un ponte e non potete in alcun modo arrivare in orario. Prima del Jobs Act, avreste avuto diritto alla reintegra per l’estraneità del fatto alla vostra sfera di competenza. Dopo il d.lgs. 23/2015, non dovreste materialmente essere in ritardo per poter essere reintegrati/e. Non importa se vi è crollata la casa addosso, non avrete comunque diritto al vostro posto di lavoro – avrete, in compenso, tutto il dovere di morire di fame.
Vorrei fare un altro appunto di non poco conto: non è facile dimostrare che il licenziamento sia avvenuto a causa di una discriminazione, nonostante i meccanismi presuntivi instaurati dalla giurisprudenza. E, se possibile, è ancora più difficile provare che si tratti di un licenziamento ritorsivo, perché in questo caso non esistono neanche presunzioni di cui potreste avvalervi.
Sono queste le ragioni per cui sostenevo che l’art.18 sta alla base dell’intero Statuto dei lavoratori. Se non si ha la sicurezza del proprio posto di lavoro, non si eserciteranno più i propri diritti sindacali. Il Jobs Act ha reso la reintegrazione un’eccezione, e carta straccia la maggiore conquista dei lavoratori dalla nascita della Costituzione.
È evidente il rimando alle politiche della flexsecurity provenienti dall’Unione Europea. Più lavoratori in uscita, più lavoratori in entrata! Semplice, no? Peccato che sappiamo fin troppo bene che il lavoro per tutti non c’è poiché nessuno vuole rinunciare a un centesimo di profitto. La flexsecurity è la precarizzazione che diventa regola, obiettivo politico e normativo, ed è inaccettabile una legittimazione dell’instabilità lavorativa da parte di un partito di sinistra. A nulla serve reclamare la buona fede del Jobs act, che avrebbe dovuto semplicemente scoraggiare i contratti flessibili e rendere più appetitoso il contratto a tempo indeterminato per i datori di lavoro. È un controsenso rendere flessibile anche l’unico contratto stabile millantando una lotta alla disoccupazione o alla precarizzazione. La sua illogicità è palese a chiunque viva oggi il mondo lavorativo. Se l’obiettivo fosse stato intervenire sui contratti flessibili, sarebbe stato allora il caso di sopprimerli o, tuttalpiù, di apportare maggiori garanzie per i lavoratori con i medesimi contratti. All’inverso, il governo Renzi ha reso il contratto a tempo indeterminato un contratto con recesso ad nutum [11], e ha anche liberalizzato il contratto a tempo determinato prevedendo che non avesse bisogno di cause giustificatrici per i primi tre anni. Ma i contratti flessibili sono un’altra storia e potete contare sul fatto che la racconteremo.
Se non vi ho ancora convinti, non vi preoccupate. Il viaggio prosegue ancora più mesto e incollerito.
Chiediamoci: cosa succede in tutti gli altri casi in cui il licenziamento è ingiustificato, ma non rientra nelle ipotesi di reintegrazione? Il lavoratore ha diritto ad un risarcimento dei danni.
Ci avete creduto? Non potevano mica prevedere un risarcimento globale, se no chi mai avrebbe licenziato senza motivo? Quindi, per aiutare il povero padrone miliardario, il governo Renzi ha deciso di prevedere in questi casi una mera indennità. Quest’ultima non vuole risarcire i danni creati al lavoratore, ma semplicemente fingere di porre un ostacolo alla tirannia del datore di lavoro. Infatti, il valore di quest’indennità non è legato a fattori inerenti al danno, come l’età o il carico familiare del lavoratore, ma si computa in base all’unico criterio dell’anzianità di servizio. Da un minimo di 2 a un massimo di 12 mensilità, il datore di lavoro sarà condannato a corrispondervi una somma pari a 2 mensilità per ogni anno di servizio. Avete lavorato 3 anni presso di lui? Bene, se – e, ripeto, se – vincerete la causa, avrete diritto a 6 mensilità. Vi sembrano tante? Anche al governo Renzi sono sembrate troppe. Quindi, ha introdotto un altro meccanismo di distruzione del diritto al lavoro: l’offerta di conciliazione. Nel momento in cui manifesterete la volontà di instaurare una causa contro il licenziamento, il datore di lavoro avrà il diritto di proporre quest’offerta, agevolata da esenzioni fiscali, che sarà pari alla metà della somma a cui avreste diritto nel remoto caso di vittoria del processo. Preferireste 3 mensilità subito o 6 mensilità tra 7/8 anni di spese processuali? Condizioni strutturali impongono a tanti di optare per il primo termine. Non è da biasimare chi accetta, lo è chi ha previsto una tutela tanto irrisoria del diritto al lavoro. La sinistra dovrebbe essere fatta dai lavoratori per i lavoratori. Non dai padroni per i padroni.
Eccovi ora dall’altra parte, e l’inferno alla fine è un po’ meglio di come ve l’ho descritto, perché sul Jobs Act è intervenuta la Corte costituzionale. Non c’è alcun merito della politica parlamentare. Neanche quelle cose inutili[12] del Movimento 5 Stelle sono riusciti a intervenire. Il focus della protezione dei diritti si è spostato ufficialmente dalle Camere alla Magistratura nelle sue varie forme. Quasi tutti gli aspetti dignitosi della disciplina lavoristica che ancora – e chissà per quanto – conserviamo sono il frutto del lavoro di giuristi che credono nella Costituzione. È evidente come il loro sforzo isolato non sia sufficiente, è necessaria una rappresentanza che combatta davvero per la salvaguardia dei lavoratori per tentare quantomeno di riequilibrare le dinamiche del mercato del lavoro.
In parte vi ho già parlato delle questioni del d.lgs. 23/2015 illegittime da un punto di vista costituzionale, preferisco dunque riportare direttamente alcune parole di questa lodevole (stavolta non ironicamente) sentenza[13]:
[…] Il «diritto al lavoro» e la «tutela» del lavoro «in tutte le sue forme ed applicazioni» (art. 35, primo comma, Cost.) comportano la garanzia dell’esercizio nei luoghi di lavoro di altri diritti fondamentali costituzionalmente garantiti. Il nesso che lega queste sfere di diritti della persona, quando si intenda procedere a licenziamenti, emerge nella già richiamata sentenza n. 45 del 1965, che fa riferimento ai «principi fondamentali di libertà sindacale, politica e religiosa», oltre che nella sentenza n. 63 del 1966, là dove si afferma che «il timore del recesso, cioè del licenziamento, spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia a una parte dei propri diritti». […]
[…]Alla luce di quanto si è sopra argomentato circa il fatto che l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte appena citata, prevede una tutela economica che non costituisce né un adeguato ristoro del danno prodotto nei vari casi, dal licenziamento, né un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente, risulta evidente che una siffatta tutela dell’interesse del lavoratore alla stabilità dell’occupazione non può ritenersi rispettosa degli artt. 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost., che tale interesse, appunto, proteggono. […]
Dunque, la disciplina del licenziamento ingiustificato nelle grandi imprese, a seguito della pronuncia di illegittimità della Consulta, è parzialmente cambiata. Le causali necessarie per la reintegrazione nel posto di lavoro, purtroppo, rimangono le stesse. Tuttavia, l’indennità che il datore di lavoro deve corrispondere a titolo di risarcimento dei danni non è più legata al solo criterio dell’anzianità di servizio, perché questo automatismo è contrario agli articoli 4 e 35 della Costituzione. Si rimette invece al giudice la determinazione dell’indennità entro i parametri previsti dal Decreto Dignità del M5S: da 6 a 36 mensilità. La scelta dell’entità indennitaria tiene conto di diversi parametri così da fungere da adeguato ristoro al danno subìto. In ogni caso, si tratta di un gravissimo passo indietro nella tutela del diritto al lavoro, se consideriamo che il risarcimento previsto dallo Statuto dei Lavoratori poteva ammontare a entità superiori alle 50 mensilità, oltre alla necessaria reintegrazione.
Vi chiedo, per l’ultima volta, un partito sedicente di sinistra, “paladino dell’interesse dei lavoratori”, proporrebbe mai una disciplina che si pone nettamente in contrasto con le disposizioni costituzionali di tutela del lavoro? Concludiamo che il PD si è delegittimato come rappresentante della sinistra. Non è un’alternativa valida, ed è proprio l’assenza di un punto di riferimento forte a piegare le masse popolari ai più beceri nazionalismi. È la paura che dilaga e ci inonda. La fragilità dell’oggi dovuta alla disoccupazione, al precariato, alle guerre, alla crisi ambientale, non ci deve atterrire e paralizzare, ma spingere a creare per noi stessi questa famosa alternativa. Capisco il senso di impotenza, ma abbiamo ancora una flebile voce: l’8 e il 9 giugno si terrà un referendum. Saremo chiamati a pronunciarci su cinque quesiti: uno di questi sarà proprio l’abrogazione del Jobs Act. Mi auguro che quanto avete letto possa esservi utile per sfruttare al meglio uno dei pochi spazi democratici che possiamo ancora – e, anche qui, chissà per quanto – rivendicare.
Zia Polly
Bibliografia e fonti
- Carinci, R. Tamajo, P. Tosi, T. Treu, Diritto del lavoro. 1. Il diritto sindacale, 8° edizione, Utet Giuridica, Milano, 2018
- Carinci, R. Tamajo, P. Tosi, T. Treu, Diritto del lavoro. 2. Il rapporto di lavoro subordinato, 10° edizione, Utet giuridica, Milano, 2019
- Legge 20 maggio 1970, n. 300 – Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento. GU n.131 del 27-05-1970
- Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23 – Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183. GU n.54 del 06-03-2015
- 3 decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (“Decreto-dignità”) Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese. GU n.161 del 13-07-2018. Convertito con modificazioni dalla legge 9 agosto 2018, n. 96. GU n.186 del 11-08-2018.
[1] Dal dicembre 2013 al febbraio 2017
[2] Artt. 15 e 16 l.300/70; art. 13 l.907/77
[3] Art.7 l.300/70
[4] Art.27 l.300/70
[5] Art.18 l.300/70 “Reintegrazione nel posto di lavoro”: Ferma restando l’esperibilità delle procedure previste dall’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604 il giudice, con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell’articolo 2 della legge predetta o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro.
Il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno subito per il licenziamento di cui sia stata accertata la inefficacia o l’invalidità a norma del comma precedente. […]
[6] D’ora in poi, sineddoche per indicare gli artt. 1-9 d.lgs. 23/2015
[7] art.3 l.604/66
[8] art.3 l.604/66
[9] Art.2119 c.c.
[10] Santoro Passarelli
[11] Ad un semplice cenno della mano; A volontà
[12] Italianizzato dal dialetto siciliano “cos’enutile”: insignificante, vile, fannullone; appunto: inutile, non serve a niente.
[13] Corte Cost. italiana, sent. 194/2018