ASSEMBLEA – 13 MAGGIO

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«No! Questa cartolina rosa bisogna strapparla!» la rivolta antimilitarista del “Non si parte” e la figura rivoluzionaria di Maria Occhipinti – di Gt Ung

Chi scrive è nato e cresciuto in Sicilia, poi trapiantato a Bologna: un cervello in fuga, certo, ma di poco conto.

Questa precisazione è necessaria per giungere alla seguente premessa: la Resistenza è un fenomeno che per noi siciliani è sostanzialmente distante. Non vi sono, in Sicilia, i “luoghi della Resistenza”, non vi sono (o ce ne sono molto pochi) monumenti ai partigiani, né lapidi che ricordino i nomi dei fucilati in nome dell’antifascismo. È difficile, crescendo in un contesto di questo tipo, rendersi conto del valore fondativo dell’esperienza partigiana per la nostra Democrazia: bisogna scoprirlo, rincorrerlo, studiarlo. Ma è precisamente questo “vuoto” inseparabile dalla mia personale biografia che mi ha spinto a chiedermi quale rapporto si fosse instaurato tra la Sicilia “liberata” dal fascismo, invasa, bombardata, conquistata e poi amministrata dagli alleati e la Resistenza del centro-nord, proprio a ridosso dell’80° anniversario della Liberazione del nostro paese dal nazifascismo (25 aprile) e della fine della guerra (2 maggio).

È così, nella speranza di poter riempire un “vuoto”, ed anche – non lo nego – di trovare qualche cosa di accattivante, di onorevole per la mia terra, che in qualche modo la leghi all’esperienza della Resistenza partigiana, che mi sono imbattuto nei moti dei “Non si parte” del dicembre-gennaio del 1944-1945, una rivolta mossa dai siciliani contro la coscrizione indetta dal Regno del Sud per combattere i nazisti e i repubblichini al Nord con il rifondato Esercito Regio, al fianco degli alleati e del Cln. Un’esperienza che, contrariamente alle ragioni che mi hanno spinto a parlarne, con la Resistenza che celebriamo il 25 aprile ha ben poco a che vedere.

Quello dei Non si parte è fenomeno complicato, eterogeneo, che per anni è stato taciuto dalla storiografia; liquidato nel secondo dopo guerra da destra a sinistra come un movimento filofascista: un “rigurgito”, per comunisti e socialisti, una “resistenza al contrario” per i repubblichini.

La tesi di questo articolo è che un moto popolare e talvolta spontaneo come quello dei Non si parte, sviluppatosi in una circostanza storica assolutamente complicata, non può essere liquidato con la semplice categoria del “filofascismo” e che, al contrario, merita di essere indagato a partire dall’analisi concreta delle ragioni materiali che hanno spinto studenti, donne ed ex coscritti siciliani a rifiutare nettamente la guerra a un anno e passa dall’armistizio.

In quest’articolo, si tenterà di ripercorrere i momenti salienti di questa rivolta a partire da una contestualizzazione storica della battaglia per la conquista della Sicilia e delle condizioni in cui versavano i siciliani durante il suo svolgimento. Per farlo, ci si concentrerà sulla biografia di una figura cruciale dei moti dei “Non si parte”, Maria Occhipinti: “Una donna di Ragusa”[1], come recita il titolo della sua autobiografia, ma soprattutto una rivoluzionaria, comunista e antifascista, che ha rischiato la propria vita in nome della pace e della giustizia sociale nella Sicilia martoriata dalla guerra e dal fascismo.

L’Operazione Husky: la guerra non fa prigionieri

L’operazione Husky venne messa in campo dagli alleati all’alba del 10 luglio del 1943. Portò al collasso dello Stato fascista il 25 luglio, con le dimissioni di Mussolini, e poi all’armistizio firmato a Cassibile il 3 settembre e reso pubblico l’8 settembre dello stesso anno da Badoglio, in accordo con le forze alleate di stanza in Sicilia. L’operazione fu accompagnata da un’intensificazione progressiva dei bombardamenti a partire dai primi mesi del 1943, i quali, come fu prassi durante la Seconda Guerra mondiale, avevano l’obiettivo dichiarato di mettere in ginocchio la popolazione e costringerla al rifiuto del fascismo.  Il risultato fu ottenuto.

Sul tema dei bombardamenti alleati in Sicilia, è rilevante l’ultimo studio dello storico siciliano Rosario Mangiameli[2]. Questi racconta, ad esempio, il modo in cui Palermo fu assediata dalle bombe alleate tra il febbraio e l’aprile del ’43, con l’uccisione di 224 persone, e con un aggravio dei bombardamenti nel mese di maggio, durante il quale morirono invece almeno 373 persone. Ogni giorno, dalle 14:00, circa 20 000 persone in quei mesi hanno lasciato Palermo in cerca di un riparo nelle vicinanze. Nello stesso periodo, racconta Mangiameli, in Sicilia si trovava la figlia di Mussolini, Edda, che in una lettera implorava il padre di mandare viveri nell’Isola, sottolineando la gravità della situazione siciliana. Tutto preannunciava una disfatta assoluta: “Io sono stata in Albania e in Russia – scrive Edda – mai ho visto tanta sofferenza e dolore. E io stessa ho l’impressione di essere capitata non so dove lontana le mille miglia dalla Patria e dalla civiltà. Non si potrà per tutti, ma che abbiano l’impressione che si tenti di aiutarli”[3].  

Dopo aver annichilito la popolazione civile ed aver mostrato la debolezza militare del fascismo, gli alleati penetrarono nell’isola, contrapponendo a tale insufficienza un arsenale composto da 2.775 navi da trasporto e da guerra, 4.000 aerei, 14. 000 veicoli, 600 carri armati nelle mani di 115 000 soldati del Commonwealth e 66 000 americani[4]. Il fronte si sgretolò con eccezionale rapidità.

Non solo i bombardamenti, però, contribuirono al rifiuto del fascismo da parte dei siciliani. In questa circostanza, la perdita del consenso del regime dipese da almeno due ragioni complementari. Oltre alla schiacciante superiorità militare e tecnologica delle forze alleate, che sconfissero le divisioni italiane (10) e misero in fuga quelle tedesche (3) al di là dello Stretto di Messina, è necessario sottolineare, in primo luogo, la disorganizzazione amministrativa caratteristica del fascismo, aggravatasi nei mesi decisivi della conflitto; e, in secondo luogo, la stanchezza della popolazione civile, che, provata dalla guerra e dalla fame non riusciva più a sostenere la propaganda del regime. La stessa propaganda che aveva promesso alla popolazione che la guerra sarebbe finita in quattro e quattr’otto, che bisognava combattere gli inglesi, nemici plutocratici d’oltralpe, che “mangiavano cinque volte al giorno” e minacciavano il prestigio italiano nel Mediterraneo.

Al netto dell’aspetto eminentemente militare, è forse necessario indagare la questione a partire dalla biografia di una persona normale, dalle sue sensazioni, dalle sue emozioni e dal modo in cui queste, di concerto con la sua condizione sociale in un preciso periodo storico, hanno fatto sì che sviluppasse un rifiuto militante nei confronti della guerra e del fascismo. È il caso della biografia di Maria Occhipinti.

Maria Occhipinti, il lungo dopoguerra del ’43

È attorno alla propaganda menzognera del fascismo che Maria Occhipinti forma la propria coscienza politica. Le sue memorie sono un’opera di eccezionale importanza per comprendere dal punto di vista microcosmico di una donna, di origini contadine, nella Sicilia fascista e in guerra, poi campo di battaglia e di armistizio, che cosa potesse voler dire rifiutare la guerra. Il suo punto di vista rappresenta una prospettiva privilegiata per entrare il più possibile nelle dinamiche che hanno portato allo scoppio dei moti dei Non si parte, così come le sue riflessioni rimettono in discussione le soluzioni che la storiografia ha adottato per categorizzare queste rivolte come “filofasciste”.

Nata a Ragusa il 29 luglio del 1921, Maria Occhipinti ha narrato le contraddizioni dell’Italia fascista, il bigottismo della religione, la povertà di un popolo massacrato dai suoi governanti corrotti. Ebbe una vita particolarmente difficile. Figlia di un muratore, poi emigrato da solo nelle colonie africane dell’Italia fascista per tentare di mantenere la propria famiglia, Occhipinti non poté studiare, né dare sfogo alla sua ineguagliabile curiosità. Soffriva, amaramente. Scriveva di avere fame di musica, arte e poesia, “ma non sapevo dirlo, spiega nella sua autobiografia, perché erano cose sconosciute”[5] al mondo che lei abitava. Fu l’incontro con un avvocato antifascista, amico del padre, a cambiarle la vita, quando questi le consegnò una copia de “I Miserabili” di Victor Hugo. Un libro, racconta Occhipinti, che fagocitò con grande passione, tutto d’un fiato sotto le lenzuola e a lume di candela. Attorno alla storia di Jean Valjean, Occhipinti poté sviluppare un senso critico antifascista, cominciando a scoprire le menzogne del regime e le atrocità della guerra. Un giorno, in fila alle poste per ritirare il misero compenso che il fascismo forniva alle donne con mariti al fronte, incontrò una comare “veterana”, che aveva vissuto la Grande Guerra e adesso viveva la Seconda Guerra mondiale. Discutendo con Occhipinti, la “veterana” affermò: “Comare, pazienza ci vuole. Si sa, sono sempre le pezze che vanno per aria. E le pezze siamo noi, sono i nostri figli, soprattutto”[6]. Un’immagine, quella delle “pezze”, che in Maria Occhipinti suscitò un senso di disgrazia, di rabbia e ribellione. Una metafora perfetta, che da sola racchiude l’intera atroce ingiustizia della guerra.

La sera dell’armistizio, senza troppe domande, in provincia di Ragusa si decise di inaugurare la processione dei due santi protettori, San Giovanni e San Giorgio cavaliere, per ringraziare Iddio della fine della guerra. Nota Occhipinti, “chi poteva prevedere gli sviluppi della situazione? Chi aveva l’idea che i padroni del nostro suolo adesso erano i tedeschi e che il pericolo fosse ancora più grave di prima?”. La festa scoppiò nel paese: nessuno pareva volere accettare l’idea che la guerra non fosse finita. Era troppo grande la gioia per la fine del conflitto. Così la si pensava, così doveva essere e per questo bisognava ringraziare il Signore. Persino il governatore americano che, giunto nella piazza tra la popolazione, provò a dire che la guerra continuava e che gli americani erano ora alleati degli italiani veniva ignorato. La “fine della guerra”, al di là di ogni interpretazione politica, della fede religiosa di ognuno e dal fatto che si appoggiasse o meno il fascismo, rappresentava una gioia incontenibile. Un fatto, questo, da tenere a mente per comprendere i successivi sviluppi. E davanti a quest’esplosione di gioia religiosa, davanti al modo in cui la popolazione civile inneggiò a Dio, ringraziandolo per quella che si riteneva fosse la fine del conflitto, Occhipinti non poté sottrarsi ad un malessere interiore. “Che orrore, che orrore”, scrive, “Volevo gridare forte con tutta l’anima: Perché crediamo a questo legno, perché ci prostriamo?” e poi, da questo, il ritorno della guerra e delle sue ragioni dal cielo sulla terra, il ritorno della colpa sulle spalle dei potenti: se “la guerra è finita, non è per volontà loro, ma perché il sangue ha coperto la terra e gli uomini ne sono sazi fino alla nausea, per questo è finita e non per merito loro”[7], cioè dei santi. È già chiaro nella mente di Occhipinti: rivolgersi a Dio non sarebbe più bastato per sottrarsi alla logica di morte cui soggiace la guerra. Sarebbe servito, ad un certo punto, impugnare le armi, mettere a rischio sé stessi, il proprio corpo in nome dei propri ideali.

Ebbene, com’è noto, una volta conquistata la Sicilia e stipulato l’armistizio con il neonato Regno del Sud, gli alleati istaurarono un governo provvisorio d’amministrazione militare, l’AMGOT (Allied Military Government of Occupied Territory), sotto il controllo del generale britannico Alexander. L’Italia era ora spaccata in due, e nel frattempo la guerra imperversava. La precarietà di questa forma di governo non riuscì a sedimentare il sentimento di sincera felicità e fiducia negli alleati da parte dei siciliani per la fine della guerra. Davanti al collasso dello Stato fascista, insufficiente nella propria capacità distributiva ben prima della partecipazione al Secondo conflitto mondiale, la Sicilia soffriva l’incapacità dell’amministrazione di riprendere il controllo della catena di approvvigionamento e della distribuzione del grano. Questo stato di cose provocò lo sviluppo del mercato nero e la recrudescenza del fenomeno mafioso, che adesso tornava ad occupare in taluni casi i luoghi di potere, com’è l’esempio del capomafia Calogero Vizzini, nuovo sindaco di Villalba per volere degli alleati e figura cruciale proprio del contrabbando degli ammassi granari. In un certo senso, è possibile asserire che tale precarietà era anzitutto nell’interesse degli alleati, i quali, onde evitare una rivoluzione sociale nell’isola, dovevano mantenere un basso profilo politico e tracciare dei canali di interlocuzione con le classi dirigenti locali[8]. Tra le altre cose, questo ha comportato un repentino riciclo della classe dirigente fascista, com’è il caso – uno per tutti – del vecchio podestà di Catania, il marchese Antonino di San Giuliano, riconfermato nella carica di sindaco dagli alleati dopo la resa della città. Secondo Mangiameli, la riconferma dei podestà fascisti da parte degli alleati è un fatto riscontrabile almeno nel 50% dei casi[9]. All’orizzonte di questa complessissima situazione, il fenomeno dell’indipendentismo andava concretizzandosi nel MIS (Movimento per l’Indipendenza della Sicilia), creato e guidato da elementi della classe dirigente pre-fascista, come Andrea Finocchiaro-Aprile, figlio di un ministro del governo Giolitti del 1892[10].

Tra mille contraddizioni, mentre il fascismo agonizzante tirava al nord i suoi ultimi calci e fondava la famigerata Repubblica Sociale Italiana, formalizzando il proprio vassallaggio nei confronti dei nazisti, gli alleati restituivano nel febbraio del ’44 il governo all’amministrazione italiana. Venne nominato un Alto commissariato, istituito per la gestione del processo di riunificazione dell’isola alla compagnia statale, Francesco Mussotto, già scelto dagli alleati come prefetto politico della città di Palermo. A gennaio, i partiti antifascisti ricevettero il permesso di ricostituirsi, e, con pratiche differenti, cominciarono a confrontarsi con il fenomeno del separatismo, che nel frattempo cresceva a loro svantaggio. Dopo la liberazione di Roma il 4 giugno dello stesso anno, si decise per la sostituzione di Mussotto, che fu accusato di una presunta apertura nei confronti del movimento separatista, con il democristiano Salvatore Aldisio, che, invece, optò per la linea repressiva nei confronti del MIS – che nel frattempo formava un esercito clandestino, l’EVIS (Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia), con l’obiettivo dello scontro armato con lo Stato italiano per ottenere l’indipendenza dell’isola – e del suo ruolo nel contrabbando del grano[11]. Il tentativo di Aldisio fallì e il mercato illegale continuò a crescere. Nel mentre, i partiti antifascisti facevano fatica a radicarsi nel territorio e il PCI, in particolare, pagava con le rivolte dei propri militanti e numerose spaccature interne le contraddizioni della Svolta di Salerno, voluta da Togliatti e avallata dall’Unione Sovietica. L’insieme di queste contraddizioni, in una situazione, quella siciliana, che Mangiameli ha definito “magmatica”[12], sarebbe esploso con l’inizio di una nuova campagna di coscrizione.

No, questa cartolina rosa bisogna strapparla!

“Una mattina di dicembre del 1944, scuro in volto, il postino mi porgeva una cartolina rosa. ‘Che cos’è questo biglietto?’ gli chiesi. – ‘Leggete, signora Marietta, e vedrete di che si tratta’. ‘Al Signor L. Giuseppe… in nome di S. A. R. Umberto di Savoia, Luogotenente del Regno … entro dieci giorni vi presenterete al Distretto militare … Portate con voi gavetta, cucchiaio e coperta’”[13]. Oltre ogni gelida ricostruzione storiografica, nel penultimo capitolo della sua autobiografia, Occhipinti riporta per filo e per segno quali sensazioni le suscitò il nuovo ordine di coscrizione: l’incubo della guerra ricominciava. Per i primi tre anni del conflitto, ai siciliani era stato ordinato di versare il loro sangue in nome della Patria, del Re, del Duce, contro gli alleati, americani, inglesi e russi. Adesso, ai siciliani si chiedeva di versare il loro sangue in nome della Patria, del figlio del Re – un principe travestito da Luogotenente – e contro il Duce, con gli alleati, americani e inglesi. Si disse, l’obiettivo è dare una mano ai partigiani. E questo fu l’intento anche del PCI. Ma allora, per quale motivo i siciliani rifiutarono la leva obbligatoria e non andarono a combattere nel centro-nord al fianco degli alleati e dei partigiani? Si trattò davvero di un moto reazionario, implicitamente rivolto al passato in difesa dell’ormai morente regime fascista? Per rispondere a queste domande, occorre ritornare brevemente ad un fatto verificatosi durante l’esperienza del democristiano Aldisio come Alto commissario in Sicilia.

Nelle veci di Alto commissario in Sicilia, membro del governo Bonomi, Salvatore Aldisio tentò una violenta repressione nei confronti dell’indipendentismo, a cui cercò di sottrarre il sostegno esplicito della mafia. Il mezzo privilegiato per compiere tale iniziativa fu l’Esercito regio. È ancora Mangiameli a spiegare che la situazione subì una forte scossa quando, nel bel mezzo di via Maqueda, una delle vie più importanti e centrali di Palermo, un corteo di impiegati affamati venne represso nel sangue. L’Esercito regio in questa circostanza sparò sulla folla e uccise 24 persone, ferendone 158. Aldisio tentò di giustificare tale efferatezza accusando il movimento indipendentista. In quest’occasione, comunisti, socialisti azionisti e demolaburisti votarono un ordine del giorno del Cln in polemica con democristiani e liberali e attaccarono fortemente l’Esercito[14]. Da questa situazione, continua Mangiameli, derivò un indebolimento complessivo del Cln, proprio quando il governo Bonomi tentava di portare a termine i provvedimenti più importanti. Su tutti, una nuova chiamata alle armi[15], in ragione della quale vennero inviate migliaia e migliaia di cartoline rosa come quella raccontata da Occhipinti.

Dappertutto, in Sicilia, si organizzava la protesta, che si aggravava, appunto, dopo i fatti di via Maqueda, a Palermo, e dopo l’uccisione di uno studente a Catania, a metà dicembre dello stesso anno[16]. Adesso la rivolta interessava la zona della Sicilia sud-orientale, a Ragusa, Modica, Vittoria, Comiso, Scicli e in alcuni centri del Siracusano. Lo scollamento tra la società civile e il governo era quasi assoluto: le condizioni materiali in cui versava la popolazione erano essenzialmente insostenibili. La situazione precipitò quando si scoprì che le lettere di arruolamento giunsero persino nelle mani di coloro i quali erano rientrati in Sicilia appena dopo l’armistizio dell’8 settembre.

L’epicentro dei moti fu Ragusa, dove la protagonista assoluta fu proprio Maria Occhipinti, all’epoca incinta di cinque mesi. Lei, iscritta al PCI, nutriva delle riserve nei confronti dell’ordine del Partito. Raccontando l’incontro con un compagno, il quale aveva avuto modo di ascoltare personalmente la direzione del Segretario del PCI siciliano, Gerolamo Li Causi, Occhipinti scrive: il “partito aveva preso una posizione. Li Causi era venuto per dare l’ordine di partire. Non partire era come tradire i fratelli del Nord che lottavano per liberare l’Italia dal fascismo. Ma molti comunisti non potevano ammettere che si andasse ancora a combattere in nome della monarchia. Quel compagno, per esempio, si rifiutava di combattere per il Re, era contro ogni genere di guerra che non fosse una rivoluzione, e ormai risoluto a non partire”[17]. Come questo giovane compagno, anche Occhipinti si convinse: “ho deciso d’impedire con tutte le mie forze che si parta per la guerra”, scrive. La mattina del 4 gennaio del 1945 venne il giorno di mettere in pratica questa decisione. I camion del Regno si dirigevano in ogni luogo della provincia per compiere il rastrellamento ed imporre la coscrizione militare. Prendevano tutti i giovani che trovavano nei bar, nei calzolai, nei barbieri. Giunto nello “stradone”, la via principale del paese, corso Vittorio Veneto, all’incrocio con via IV Novembre, il camion dell’Esercito si confrontò con una folla ribelle, alla testa della quale si trovava proprio Maria Occhipinti, con in grembo una bambina. È qui che quest’ultima sposò ufficialmente la via della rivolta. Ecco cosa avvenne nelle sue parole: davanti alla protesta “i poliziotti erano impassibili, il camion riprendeva la sua marcia lenta e inesorabile. Allora urlai ‘lasciateli!’, e mi stesi supina davanti alle ruote del camion: ‘Mi ucciderete, ma voi non passate’ […]. I poliziotti mi rialzarono da terra e cercarono di convincermi a tornare a casa, che i giovani li portavano al distretto e poi li rilasciavano subito. Ma io continuai a protestare e a oppormi col mio corpo disteso nel fango della strada”. Mentre in quest’incrocio cresceva la tensione, l’intera protesta assumeva i contorni di uno scontro frontale tra manifestanti, da un lato, e poliziotti, carabinieri e membri dell’Esercito dall’altro. Quando le autorità di polizia diedero l’ordine del rilascio, i soldati reagirono sparando sulla folla uccidendo un giovane comunista e ferendone gravemente un altro. Mentre la folla si dileguava, Occhipinti restava al fianco dei più coraggiosi. Un uomo, dopo aver disarmato un carabiniere, puntandogli la pistola alla testa gli intimò la morte se lui e i suoi colleghi non avessero preso con sé il ferito. La ebbero vinta e il ferito venne portato in ospedale. Ritiratisi, i soldati si riorganizzarono per continuare la repressione il giorno successivo, il 5 gennaio. Lungo tutta la giornata del 5 ci furono degli scontri a fuoco tra la mitragliatrice dei soldati e le armi dei manifestanti, trovate in casa dal fronte e rubate ai prigionieri disarmati il giorno prima. Per un’intera giornata, a Ragusa, in quel quartiere denominato la “Russia” per le sue inclinazioni comuniste, i cittadini e le cittadine opposero una tenace resistenza armata alla coscrizione obbligatoria, prendendo diversi militari come prigionieri e controllando il posto di blocco di Beddìo, appena fuori dal paese. Infine, la ebbero vinta nuovamente, i soldati si ritirarono. La rivolta dei Non si parte adesso interessava particolarmente il ragusano. Scicli, Vittoria, Avola, Giarratana e Santa Croce Camerina insorgevano. Il caso più clamoroso della rivolta è senza dubbio quello di Comiso, centro agricolo di 25.000 abitanti, dove, tra il 5 e il 6 gennaio, venne  proclamata una Repubblica indipendente, con tanto di Comitato di Salute pubblica, squadre per l’ordine interno ed un sistema di distribuzione dei viveri a prezzo di consorzio. Quella di Comiso fu un’esperienza tanto eccezionale quanto breve. Già l’11 di gennaio, davanti alla minaccia di un bombardamento massiccio da parte del governo Bonomi, gli insorti nel numero di 300 vennero arrestati e mandati al confino, tra Lipari e Ustica. La stessa sorte, qualche giorno prima, toccava al paesino di Occhipinti: nella “notte tra il 6 e il 7 gennaio, per la nebbia, la pioggia, il freddo e la stanchezza rimasero in pochi a fare la guardia. Non c’era possibilità di cambio, tutto era affidato all’improvvisazione e allo spirito di sacrificio dei giovani. All’alba ci furono nuovi assalti da parte dell’esercito”. Dopo un’estenuante resistenza, i soldati riuscirono a penetrare nel paese, rastrellando casa per casa. Come scrive Occhipinti, bastava “avere offerto una sigaretta ai soldati catturati dai ribelli per essere puniti”. In quei giorni, cominciò una vera e propria caccia all’uomo, cui la donna di Ragusa sfuggì per otto giorni in latitanza. Fu un evento, quello della repressione dei moti, accompagnato dalla condanna della rivolta da parte dei partiti di sinistra, che spaccò il movimento operaio e contadino in Sicilia. Raccontando i fatti, Occhipinti si lascia andare ad una riflessione particolarmente rilevante ed esplicativa nei termini delle sensazioni dei rivoltosi, delle loro ragioni e della distanza incolmabile che separava il microcosmo ragusano e la storia dell’isola in generale, da quel che accadeva nel centro-nord nella lotta al fascismo: “Non ci fu giustizia per la povera gente. Mentre centinaia di famiglie di lavoratori soffrivano per i loro figli catturati o uccisi, i fascisti continuarono a passeggiare indisturbati per la città. Gli arrestati erano quasi tutti comunisti e socialisti. I partiti di sinistra condannarono spietatamente gl’insorti, senza nessuna comprensione per le amarezze e le ragioni del popolo”. Al senso di insoddisfazione, Occhipinti fa derivare una spiegazione politica: “La guerra aveva aperto gli occhi alla gente. I contadini avevano subito l’ingiustizia dell’ammasso obbligatorio, avevano visto entrare in paese i camion carichi di grando del signor Tizio e del signora Caio, le riverenze e gli inchini ai grandi proprietari e l’umiliazione delle loro donne alle quali era stato strappato il sacchettino di grando raccolto spiga per spiga dopo la mietitura”. Per anni, dunque, i siciliani erano stati preso in giro, maltrattati e bistratti dal regime e poi, in maniera diversa, dagli alleati. In questi termini, spiega Occhipinti, la “Sicilia si era arresa perché stanca della guerra e del fascismo”[18]. Per tale ragione, continua,  non “si potevano richiedere ancora sacrifici ed entusiasmo a cittadini per i quali la patria non aveva mai avuto nessuna considerazione e rispetto”. Ebbene, bisognerebbe domandarsi, al netto di ogni contraddizione, che cosa fosse la “patria” per i contadini del sud, che cosa fosse stata sino a quel momento e di più ancora che cosa avesse rappresentato per loro. Per tale ragione, chiosa Occhipinti, “al di sopra di ogni speculazione di fascisti e separatisti la ribellione dei giovani contro la chiamata alle armi era stata spontanea e sincera”[19].

È la stessa posizione di un altro protagonista della rivolta che prese piede a Comiso, Giacomo Cagnes, nel dopoguerra divenuto più volte sindaco del paese. Così come riportato dal blog InfoAut[20], Cagnes, in un’intervista dell’11 settembre 1972, rilasciata a Giovanni La Terra, ha dichiarato che “l’unico centro direzionale esistente (il Comitato di Salute Pubblica) era formato da giovani, in maggioranza di sinistra e non annoverava nel suo seno né un separatista né un fascista”; dichiarando altresì che la “base di massa del movimento era rappresentata dalla stragrande maggioranza della popolazione, prevalentemente contadina (di tradizione socialista), la quale appoggiava apertamente il movimento. Anche gruppi numerosi di donne, nei quartieri, erano uscite dalle lor case”. Restava la contraddizione tra la fede politica di chi prese parte ai moti dei Non si parte e la direzione centrale del partito. È ancora Maria Occhipinti a tentare una spiegazione, ancora una volta con un tono marchiato da un netto coinvolgimento, come quello di chi, come lei, ha svolto il ruolo di protagonista. Spiega Occhipinti: l’azione “dei partiti antifascisti fu deplorata da tutti. Se ci tenevano veramente a che la Sicilia aiutasse i fratelli del Nord contro il fascismo e contro la guerra, perché non avevano cominciato a dare l’esempio i capi, come avveniva tra i partigiani dell’Alta Italia? E non era una terribile leggerezza quella di richiamare in massa fascisti e antifascisti, non era un gran rischio armarli e tenerli insieme?”. Per ovviare al rischio, continua Occhipinti, si poteva pensare ad un “volontariato cosciente, ma al volontariato si pensò quando era già troppo tardi. In quell’occasione il popolo lavoratore si sentì abbandonato dai suoi capi e la sua fu una disperata rivolta contro la guerra”[21].

Il risultato della rivolta fu che solo 15 mila si presentarono su 75 mila ordini di coscrizione e in tutto il mezzogiorno ci furono 50 000 processi[22]. La repressione del movimento fu violentissima. Nella sola provincia di Ragusa, gli arrestati furono 388, dei quali 32 vennero trasferiti nel carcere di Catania, 10 a Milazzo, 15 a Siracusa, 28 a Noto, 15 a Caltagirone e 288 inviati al confino nell’isola di Ustica[23]. Tra questi ultimi, Maria Occhipinti.

Nonostante il confino, Occhipinti accrebbe e mantenne la propria fede comunista. Nella sua autobiografia racconta come, il giorno in cui si seppe dell’insurrezione partigiana del centro-nord e della vittoria definitiva della Resistenza sul nazifascismo (la notizia era giunta ai confinati il 7 maggio del 1945) nell’intera isola di Ustica lei e i suoi compagni marciarono intonando l’Internazionale e sventolando una bandiera rossa fatta in casa, alla bell’e meglio, la quale poi dovette essere nascosta dalle autorità. Nell’isola, i carcerieri ebbero paura che a cantare l’Internazionale fossero i sovietici, giunti non si sa come a conquistare Ustica per instaurarvi il bolscevismo: chiusero “le scuole, si diceva che erano sbarcati i Russi nell’isola. E invece eravamo noi, che nonostante il divieto della polizia avevamo fatto una manifestazione, con discorso, corteo e bandiera. La bandiera era uno straccio rosso, una vecchia gonna di una nostra compagna, ma eravamo tutti fieri lo stesso. Un compagno vi aveva dipinto in giallo falce e martello”[24]. Dettaglio di non poco conto, che occorre ricordare per restituire in maniera quanto più precisa possibile il quadro, è che Maria Occhipinti all’epoca, dall’insurrezione sino al confino, portava in grembo una bambina, Marilena (contrazione di Maria Lenina, così chiamata in nome di Lenin) che diede alla luce proprio in carcere, a Ustica. Con Marilena di appena due mesi in una mano e la bandiera rossa nell’altra, Occhipinti aveva sfilato in corteo festeggiando la fine della guerra. Dopo il corteo, lo stesso Togliatti spedì ai confinati di Ustica una lettera di incoraggiamento, mentre Li Causi faceva sapere che il Partito era a lavoro per un’amnistia.

I confinati di Ustica rimasero sull’isola per 15 mesi. Durante questo tempo, sperimentarono la durezza del regime carcerario e ancora una volta la precarietà della loro sussistenza in quello che, dall’aprile-maggio del ’45, diventò un dopoguerra generalizzato nella penisola. Ennio Sassi, nel suo lavoro “I moti dei ‘Non si parte’”, cui si è fatto riferimento già in precedenza, racconta con dovizia di particolari le condizioni di vita al confino: i confinati, spiega, per la maggior parte, “provvedono ai loro bisogni con il sussidio governativo detto in gergo ‘mazzetta’. Questa fino al mese di dicembre 1945 ammonta a 14 lire al giorno e a 24 lire per le madri con bambini, poi viene portata a 30 lire, rimanendo ugualmente un sussidio molto esiguo, se si pensa che un chilo di carbone costa 100 lire. Inoltre fruiscono di una carta annonaria, con la quale ricevono ogni giorno 30 grammi di pasta, 10 grammi di zucchero, 400 grammi di pane ed un sacchetto con pochi grammi di legumi”. Per riuscire a sopravvivere, era necessario cercare anche un lavoro, spesso come bracciante agricolo, secondo criteri talmente atavici da ricordare il feudalesimo. Le cose cambiarono nel dicembre 1945, quando, continua Sassi, “viene tolta la carta annonaria mediante la quale si provvede a fornire cibo, preferendo per motivi di convenienza aumentare da 14 a 30 lire il sussidio, con il quale i confinati devono da soli pensare al proprio vivere, continuando la direzione a fornire direttamente soltanto 400 grammi di pane e 30 grammi di pasta”[25].

La vicenda si avvia verso una conclusione dopo la proclamazione della Repubblica e, soprattutto, con l’emanazione del Decreto presidenziale del 22 giugno del 1946 n.4, la famigerata amnistia firmata da Togliatti. Mentre ciò avveniva, Occhipinti si trovava nel carcere delle Benedettine di Palermo, perché a Ustica, lei ed Erasmo Santangelo, comunisti entrambi, erano stati ritenuti pericolosi per il mantenimento dell’ordine pubblico e per questo trasferiti. Come Occhipinti stessa racconta, il suo calvario, amnistia compiuta a giugno, si concluse solo a dicembre del ’46. Venne trattenuta in carcere per un altro processo, diverso dai fatti del 4-5-6 gennaio, ossia un combutta tra carcerati per 200 lire.

Per concludere

In quest’articolo, si è tentato di ricostruire brevemente gli avvenimenti che hanno prodotto i moti popolari del dicembre-gennaio del 1944-45, la rivolta dei Non si parte. Un fenomeno poco conosciuto, per lungo tempo abbandonato dalla storiografia e che meriterebbe senza dubbio un approfondimento maggiore e molto più spazio di quello che in questa sede si è potuto dedicargli. Ad ogni modo, quest’esperienza, vista dalla prospettiva microstorica di un personaggio così “comune” ed allo stesso tempo così incredibile come Maria Occhipinti, rimette in discussione una serie di luoghi comuni attorno al ruolo della Sicilia durante la Seconda Guerra Mondiale, facendo riemergere al contempo l’esigenza di un’analisi approfondita a proposito del complicato ed ingarbugliatissimo rapporto tra la mafia, gli alleati, l’indipendentismo e la popolazione civile, operaia e contadina. Tale esperienza, con il protagonismo femminile di cui Occhipinti fu senza dubbio una delle esponenti più rilevanti, getta nuova luce su alcuni aspetti dei processi di emancipazione della donna nella Sicilia afflitta dalla guerra e dal fascismo. Non ultimo, l’esperienza dei confinati di Ustica fornisce un dato importante che non può essere dimenticato quando si discute l’effetto di una delle misure adottate dal primo governo della storia repubblicana tra le più discusse, ossia l’amnistia firmata da Togliatti in qualità di Ministro della giustizia.

In conclusione, quel che possiamo trarre dalla storia dei Non si parte, accennando un azzardato punto di convergenza con l’esperienza della Resistenza partigiana del centro-nord, è che il rifiuto del fascismo equivale sempre e comunque, almeno in principio, al rifiuto della guerra. Una lezione, questa, da cui è possibile imparare moltissimo anche e soprattutto oggi, dal momento che lo spettro della Terza Guerra Mondiale è tornato ad aleggiare prepotentemente nei parlamenti, e non solo, della nostra Europa.


[1] Occhipinti, Maria, Una donna di Ragusa, Ragusa, Sicilia Punto L, 2016.

[2] Mangiameli, Rosario, Guerra e desiderio di pace, La Sicilia nella crisi del 1943, Roma, Viella, 2025.

[3] Mangiameli, Rosario, Guerra e desiderio di pace, La Sicilia nella crisi del 1943, Roma, Viella, 2025.

p. 59.

[4] Ibidem.

[5] Occhipinti, Maria, Una donna di Ragusa, Ragusa, Sicilia Punto L, p.39.

[6] Occhipinti, Maria, Una donna di Ragusa, Ragusa, Silia Punto L, 2016, p. 45-46.

[7] Ibidem, p. 66-70.

[8] Mangiameli, Rosario, Guerra e desiderio di pace. La Sicilia nella crisi del 1943, Roma, Viella, 2025 p. 235.

[9] Ibidem, p. 247.

[10] Lupo, Salvatore, La Mafia, Centossessant’anni di Storia, Roma, Donzelli, 2018 p.189.

[11] In questa sede non c’è né lo spazio e né il tempo per affrontare la questione del MIS e delle sue connessioni con il mondo mafioso. Per farsi un’idea superficiale, però, basti pensare che uno dei più grandi storici della mafia, Salvatore Lupo, ebbe a dire che “con il separatismo la mafia, per la prima e l’ultima volta nella sua storia, si identificò con un partito anziché inserirvisi strumentalmente”, condividendone, con le dovute precauzioni e parzialmente, la “ideologia”. Ibidem, p.190.

[12] Mangiameli, Rosario, Guerra e desiderio di pace. La Sicilia nella crisi del 1943, Roma, Viella, 2025 p. 255.

[13] Occhipinti, Maria, Una donna di Ragusa, Ragusa, Sicilia Punto L, 2016 p. 77.

[14]Mangiameli, Rosario, Guerra e desiderio di pace. La Sicilia nella crisi del 1943, Roma, Viella, 2025, p. 261.

[15] Ibidem, p. 261.

[16] Sassi, Ennio, I moti dei “Non si parte”, Lettera del Centro Studi e Documentazione Isola di Ustica n. 46/47gennaio-agosto 2014, p. 36.

[17] Occhipinti, Maria, Una donna di Ragusa, Ragusa, Sicilia Punto L, 2016 p. 82.

[18] Occhipinti, Maria, Una donna di Ragusa, Ragusa, Sicilia Punto L, p.89.

[19] Ibidem, p. 90.

[20] https://www.infoaut.org/storia/5-gennaio-1945-repubblica-di-comiso-i-moti-del-non-si-parte.

[21] Occhipinti, Maria, Una donna di Ragusa, Ragusa, Sicilia Punto L, 2016, p. 90.

[22] Mangiameli, Rosario, Guerra e desiderio di pace. La Sicilia nella crisi del 1943, Roma, Viella, 2025, p. 264.

[23] Sassi, Ennio, I moti dei “Non si parte”, Lettera del Centro Studi e Documentazione Isola di Ustica n. 46/47gennaio-agosto 2014, p. 37.

[24] Occhipinti, Maria, ibidem, p. 103.

[25] Sassi, Ennio, I moti dei “Non si parte”, Lettera del Centro Studi e Documentazione Isola di Ustica n. 46/47gennaio-agosto 2014, p. 38.

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Parallelismi: Homo Sacer e riconquista fascista in Libia

di Tintigrrr

L’homo sacer, una persona posta al di fuori della giurisdizione umana senza che trapassi in quella divina. La violenza procuratagli non costituisce sacrilegio, rappresenta quindi a tutti gli effetti un’uccisione non sanzionabile che chiunque può commettere nei suoi confronti. Non è né sacrificio né omicidio. Si sottrae alle forme sancite dal diritto umano. Questa figura è strettamente legata allo stato d’eccezione e alla sospensione della legge presente in questo, frutto della sfera sovrana. Sovrana è la sfera in cui si può uccidere senza commettere omicidio; quindi, tale sarà anche la vita umana che è stata catturata in questa sfera. L’imperium rasenta l’inscindibilità da un potere di morte. La popolazione libica viene così separata dagli altri uomini in una sfera al di là tanto del diritto divino quanto di quello umano. Allo stesso tempo, la violenza si situa in una zona in cui la distinzione fra eccezione e regola non è più possibile. Questa violenza non conserva il diritto ma lo depone, mostrando la connessione essenziale fra ragione e diritto. La funzione della violenza è nella creazione giuridica, ciò che viene instaurato come diritto non depone la violenza, la stessa che il diritto ha utilizzato come mezzo per raggiungere lo scopo perseguito. La violenza è creatrice e conservatrice di diritto, un potere non indipendente da questa violenza e necessariamente legato a essa.

 Ho voluto interpretare questa riflessione per tracciare un parallelismo con lo stato di normalizzazione della violenza coloniale in sé, che va a sua volta a creare delle strutture giuridiche indispensabili per raggiungere uno scopo ben preciso, in questo caso quello della riconquista fascista. Con l’avvento al potere del regime in Italia, nel 1922, la politica repressiva attuata fino a quel momento da Giuseppe Volpi venne protratta con ancora maggiore durezza dal primo ministro delle Colonie del governo fascista, Luigi Federzoni. Le uniche opzioni offerte alla popolazione furono da quel momento la lotta a oltranza, la capitolazione incondizionata o la fuga. A ragione di ciò, fu lo stesso Volpi a chiedersi:    

“Qual è stata, in Africa, la linea inaugurata da Benito Mussolini? È stata quella che noi coloniali siamo soliti chiamare ‘politica di prestigio’. Con tale espressione va intesa quell’azione di governo che dia alle popolazioni soggette – chiara ed inequivocabile – non solo la sensazione della nostra superiorità militare, ma anche la convinzione che di questa superiorità siamo decisi a servirci, sempre e dovunque sia necessario. E che noi, oltre alla superiorità militare, abbiamo anche e soprattutto, una superiorità morale che ci deriva dal valore e dalla forza delle nostre tradizioni storiche e dalla grandezza del compito di civiltà che da secoli l’Italia ha assolto […] Nel dare la sensazione che una civiltà come la nostra non può piegarsi, nei confronti dell’indigeno, ad alcuna transazione, né adattarsi a tortuosi accomodamenti, ma deve tendere alla sua affermazione, senza che nulla possa arrestarla; deve tendere soltanto alla giustizia, diritta come il filo di una spada, arma di sovrana autorità morale, implacabile così per punire come per premiare”. 

L’impresa, presentata dalla propaganda come un normale controllo del territorio dal brigantaggio «endemico», quasi come una normale operazione di polizia, iniziò nella regione della Tripolitania, dove, entro il 1924, tutta la parte utile del territorio passò saldamente sotto il controllo italiano. Durante il governatorato di Emilio De Bono fu decisa la completa occupazione dell’antico vilayet di Tripoli e venne aperto nel frattempo un secondo fronte in Cirenaica. Questa offensiva, più lunga e faticosa rispetto a quella tripolitana, vide il coinvolgimento del generale Luigi Bongiovanni e della formale decadenza di quella precedente politica di concessioni, di accordi – tra cui figurava la costituzione del parlamento locale di Bengasi, mai più convocato e poi soppresso nel 1925 – e di statuti che avevano caratterizzato la politica dell’antecedente governo liberale con la confraternita della Senussia, un organismo politico e religioso profondamente legato al contesto cirenaico e che si oppose fermamente alla penetrazione italiana all’interno del territorio libico. Nel 1932 fu lo stesso sottosegretario alle Colonie Alessandro Lessona a condannare le elargizioni ai libici, da parte della socialdemocrazia, del «frutto velenoso delle libertà». Se la riconquista della Tripolitania aveva posto la questione della continuità fra Italia liberale e «governo nazionale» di Mussolini, la riconquista della Cirenaica fu una faccenda esclusiva del fascismo. A partire l’obiettivo primario delle azioni armate portate avanti e messe in atto da Pietro Badoglio e da Rodolfo Graziani e che avevano come scopo ultimo l’«annientamento del nemico», tanto da definire le operazioni sul Gebel cirenaico una «specie di caccia grossa», riprendendo direttamente le parole di Gennaro Mondaini. Queste operazioni portarono a un lento smantellamento dell’organizzazione territoriale senussita, comportando anche, in specifici casi, la resa e l’autoconsegna all’avversario di alcune personalità di spicco della confraternita, come fece Muhammad al-Rida, o addirittura la fuga nel più dei casi verso l’Egitto, seguendo l’esempio dello stesso capo della Senussia ed Emiro della Cirenaica Sidi Muhammad Idris al-Madhi al-Senussi. Fu in questo preciso momento che subentrò al comando generale della resistenza ‘Umar al Mukhtar al-Minifi, un esempio vivente di eroicità resistenziale e di contrarietà assoluta alla tregua e alla capitolazione. Le operazioni militari, da parte italiana, vennero affidate invece al generale, e neoeletto vicegovernatore della Libia, Rodolfo Graziani. Le sue misure prevedevano la separazione tra i “sottomessi” e i “ribelli”, impedire alla Senussia la riscossione dei tributi e toglierle in questo modo qualsiasi influenza sulla popolazione, l’“epurazione” dei rappresentanti della confraternita soprattutto nei centri urbani, la profanazione ripetuta di moschee, l’uso intensivo dell’aviazione per i bombardamenti, il blocco dei rifornimenti con la frontiera egiziana e l’attuazione di misure di rappresaglia soprattutto attraverso l’intervento di bande irregolari.

dall’ascesa del governo nazional-fascista, i governatori del territorio cirenaico furono un alternarsi continuo di cariche militari. Questo scandirsi di figure guerrafondaie è fondamentale per capire l’evoluzione che proiettò l’esercito coloniale italiano a vera e propria learning institution sul suolo libico. Un’altra mossa del generale Bongiovanni fu lo scioglimento dei campi misti, previsti dagli accordi di Bu Mariam del 29 ottobre 1921. L’impedimento della raccolta dell’orzo, la distruzione dei depositi e la cattura del bestiame divennero

Tra questi strumenti rientrò anche la deportazione e il concentramento delle tribù lontano dal Gebel; Graziani fu l’esecutore materiale implacabile di tale politica, una misura di cui, da quanto apprendiamo dalle stesse parole del governatore della Tripolitania e della Cirenaica Pietro Badoglio, non si nascondeva «la portata e la gravità di questo provvedimento, che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla sino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica». Graziani stesso affermerà, rispetto al mito che si era creato nei suoi confronti in quanto durissimo e feroce soldato, che:

«Spesso mi sono esaminato la coscienza in relazione alle accuse di crudeltà, atrocità, violenza, che mi sono state attribuite. Non ho mai dormito tanto tranquillo quanto le sere in cui questo esame mi è accaduto di fare. So dalla storia di tutte le epoche che nulla di nuovo si costruisce, se non si distrugge in tutto o in parte un passato che non regge più al presente».

Dalla seconda metà del 1931 la Cirenaica venne definitivamente isolata dall’Egitto e nel settembre dello stesso anno la cattura del delegato generale della Senussia ‘Umar al Mukhtar diede un colpo molto duro ai mujaheddin. Il suo processo, tenutosi a Bengasi, fu una condanna a morte premeditata dalle massime autorità, che venne messa in pratica già pochi giorni più tardi, il 16 di settembre. L’anziano capo della resistenza, ormai quasi settantenne, fu impiccato nel campo di concentramento di Suluq, di fronte agli internati dello stesso campo. Con la sua morte, il 24 gennaio 1932, furono proclamate solennemente sia la fine della “ribellione” e sia la pacificazione della Libia tutta da parte del governatore Badoglio. Le operazioni attuate dagli italiani in Cirenaica comportarono un tracollo demografico tra il 1923 e il 1936 di circa cinquantamila persone native, tra cui il numero dei morti in combattimento raggiunse, secondo le stime ufficiali, circa la cifra di 6.500. Angelo Del Boca ha ribadito pochi anni fa che, secondo i suoi calcoli, le vittime della violenza dei conquistatori in tutto il periodo coloniale erano state centomila, di cui quarantamila a causa delle deportazioni in Cirenaica. Un morto ogni otto abitanti. La Libia, una zona esclusa dal diritto, uno «spazio libero e giuridicamente vuoto», in cui il potere sovrano non conosce più i limiti fissati dal nómos come ordine territoriale. Nell’epoca classica dello ius publicum Europaeum questa zona corrispondeva al nuovo mondo, identificato con lo stato di natura, in cui tutto è lecito. Citando direttamente Carl Schmitt, che intese questo spazio assimilabile allo stato d’eccezione, ossia un ambito territoriale e spaziale libero e vuoto, in cui ogni diritto è sospeso:

«Esso era, però, delimitato rispetto all’ordinamento giuridico normale: nel tempo, attraverso la proclamazione, all’inizio, dello stato di guerra, e, alla fine, attraverso un atto di indennità; nello spazio, da una precisa indicazione del suo ambito di validità. All’interno di questo ambito spaziale e temporale, poteva accadere tutto ciò che fosse ritenuto di fatto necessario secondo le circostanze. Per indicare questa situazione, vi era un simbolo antico ed evidente, al quale fa riferimento anche Montesquieu: la statua della libertà o quella della giustizia venivano velate per un determinato periodo di tempo».

Bando

«Il bando è una forma della relazione. Ma di che relazione propriamente si tratta, dal momento che esso non ha alcun contenuto positivo e in termini in relazione sembrano escludersi (e, insieme, includersi) a vicenda? Qual è la forma della legge che in esso si esprime? Il bando è la pura forma del riferirsi a qualcosa in generale, cioè la semplice posizione di una relazione con l’irrelato. In questo senso, esso si identifica con la forma limite della relazione. Una critica del bando dovrà allora necessariamente mettere in questione la forma stessa della relazione e chiedersi se il fatto politico non sia per caso pensabile al di là della relazione, cioè non più nella forma di un rapporto».

La parola “bando” proviene da un termine germanico, che designa sia l’esclusione dalla comunità e sia il comando e l’insegna del sovrano. Esso rappresenta la potenza che la legge manifesta quando si mantiene nella propria privazione, di applicarsi disapplicandosi. Agamben pone la relazione di eccezione come una relazione di bando, dove colui che è stato messo al bando non è solo posto fuori dalla legge, diventando così indifferente a questa, ma è abbandonato da essa, esposto a quella soglia dove vita e diritto esterno e interno si confondono. Non è possibile definire quanto esso sia dentro o sia fuori l’ordinamento giuridico. L’indigeno libico è abbandonato, escluso, alla completa mercé, in questo caso, del colonizzatore italiano. Il bandito poteva essere ucciso in nome di una pace comunitaria, una pace che però al malfattore era totalmente esclusa e quindi il suo omicidio poteva rimanere tranquillamente impunito. Questa condizione limite era definita da fonti germaniche e anglosassoni come propria dell’uomo-lupo, esso era assimilato a un lupo mannaro la cui vita è situata in una soglia di indifferenza fra l’animale e l’uomo, fra quindi l’esclusione e l’inclusione, né uomo né belva, che abita paradossalmente in entrambi i mondi senza appartenere a nessuno. Robertson Smith definiva il bando come un’antica usanza ebraica con la quale un peccatore empio, e la popolazione di cui questo faceva parte, nemica della comunità e di Dio stesso, venivano votati a una distruzione totale. Esso implicava non soltanto la distruzione della persona, ma perfino delle sue proprietà e l’uccisione del suo bestiame. La guerra portata avanti da Rodolfo Graziani esprime perfettamente questo concetto. Non si trattò di un’operazione militare qualsiasi. Il 1° gennaio 1928 fu dichiarato lo stato di guerra, che diede così nuovi poteri e rimosse eventuali freni all’azione dei comandanti e dei soldati. Il tasso di violenza poté essere innalzato rispetto alle «normali» attività di polizia. Una lotta senza pietà combattuta anche attraverso l’impiego di truppe coloniali eritree e di ausiliari libici. Gli obiettivi erano ovviamente la riconquista italiana della Tripolitania, della Cirenaica e del Fezzan e l’annientamento del nemico attraverso un imbarbarimento della repressione e, come dichiarò lo stesso generale Pietro Badoglio, alla promessa di «distrugge[re] tutto, uomini e cose» nel caso le tribù beduine non si fossero arrese. La tattica di controguerriglia italiana comprese un inasprimento del disarmo delle popolazioni, il compimento di stragi di civili e un esproprio integrale dei beni di questi, la chiusura totale, o addirittura l’avvelenamento, dei pozzi, la dispersione e l’abbattimento degli armenti, la distruzione dei raccolti e delle colture attraverso anche lo sganciamento di gas incendiari su queste ultime, il blocco dei rifornimenti alla frontiera con l’Egitto, il rifiuto del riconoscimento dei capi e nei notabili nativi (anche di quelli che avevano in precedenza collaborato con il governo socialdemocratico) e l’attuazione di rappresaglie attraverso l’uso di bande irregolari. Il risultato complessivo fu il dilagare della siccità e delle epidemie e uno spopolamento demografico devastante, soprattutto per quanto riguardava il territorio della Cirenaica. Di fatto, il ristabilimento della pace coloniale giustificò il massimo della non umanità e il noncurante sacrificio della vita umana.   

Il campo

«Nei secoli che ci hanno preceduto – scrive Reiter – i grandi conflitti fra i popoli sono stati causati in misura più o meno grande dalla necessità di garantire i possedimenti dello Stato (intendiamo qui con la parola “possedimenti” non solo il territorio del paese, ma anche i contenuti materiali). Il timore che Stati vicini si accrescessero territorialmente è stato così spesso la causa di questi conflitti nei quali non si teneva conto degli individui, considerati, per così dire, alla stregua di mezzi per realizzare i fini perseguiti».   

Nonostante Agamben per “campo” intenda espressamente prendere come punto di riferimento quelli realizzati dal regime nazista, ho voluto trovare un punto di riferimento attinente con la vicenda libica, dato che massimamente il campo è lo spazio che si apre quando lo stato di eccezione comincia a diventare la regola. Esso è un assetto spaziale, un pezzo di territorio che viene posto fuori dall’ordinamento giuridico normale. Qui la norma diventa indiscernibile dall’eccezione e ogni domanda sulla legalità o illegalità di ciò che avviene al suo interno è semplicemente priva di senso. Il campo è un ibrido di diritto e di fatto, di quaestio iuris e di quaestio facti, in cui i concetti stessi di diritto soggettivo e di protezione giuridica non hanno più senso. La persona libica diventa così un corpo biopolitico, ossia la posta di una decisione politica sovrana che opera nell’assoluta indifferenza di fatto e di diritto. Nel campo è impossibile distinguere l’eccezione e la regola, la nuda vita e la norma, l’ordinamento normale è di fatto sospeso e la polizia al suo interno agisce come sovrana, guidata unicamente dal suo concetto di etica e di civiltà. La repressione della ribellione libica non poteva arrivare al suo compimento senza trasformare l’intero sistema della riconquista in una macchina letale, di cui il campo rappresenta forse l’ultima delle sue espressioni materiali, con l’obiettivo di produrre un popolo uno e indiviso, senza frattura e senza esclusi. Il non ancora nato impero fascista, questo Leviatano prematuro, il cui corpo è composto a sua volta da tutti i corpi dei singoli, compresi quelli assolutamente uccidibili e costretti a formare questo nuovo corpo politico. Nel campo lo stato di eccezione, e più nello specifico quello legato a una guerra coloniale, compie un allargamento, coinvolgendo in questo modo un’intera popolazione civile implicata in essa; Agamben cita brillantemente anche i campi di concentramento spagnoli realizzati a Cuba e i concentration camps in cui gli inglesi ammassarono i boeri all’inizio del ventesimo secolo. Il campo rappresenta il frutto della legge marziale e dello stato di eccezione stesso. Senza volere assolutamente, e in modo serio e critico, paragonare i campi di concentramento italiani in Libia a quelli allestiti dai nazisti in Europa per quanto riguardava la Soluzione finale del problema ebraico, mi pare comunque doveroso e necessario parlarne, soprattutto vista l’insita natura anti-beduina presente in essi e per il loro ruolo in quanto ingranaggi di una violenza concentrica che non escludeva il genocidio o lo sterminio. Uno dei modi, se non il più scellerato, per estirpare la resistenza libica in Cirenaica fu la deportazione, composta da lunghe e pesantissime marce, il rastrellamento e il vuotamento totale del Gebel di circa metà della popolazione in lontani campi di concentramento, facendola convergere principalmente sulla costa. Durante le marce forzate sia gli individui più deboli e sia il bestiame che, per le condizioni fisiche, non erano in grado di proseguire il cammino venivano immediatamente abbattuti dai gregari a cavallo del nucleo irregolare di polizia. Chiunque fosse stato trovato presentate (togliere credo) sul territorio del Gebel dopo la fine della mietitura nel luglio 1930 sarebbe stato passato, su ordine dello stesso Badoglio, per le armi come ribelle. Il 29 maggio, reparti di carabinieri invasero in modo simultaneo le sedi di tutte le zavie, traendo in arresto capi zavia e ponendo sigilli sulle proprietà della confraternita.

L’azione di riconquista fascista è stata indubbiamente un’operazione crudele, inumana e contraddistinta da una strutturale organizzazione della repressione, che si è abbattuta senza distinzione sia su chi quella guerra contro il colonizzatore italiano l’ha combattuta in maniera attiva, ossia i componenti della confraternita della Senussia, i mujaheddin, e sia su una vasta popolazione civile inerme, che quella colonizzazione l’ha subita passivamente e che ha visto stravolgersi traumaticamente la propria esistenza e il proprio modello di società. Il libico è stato trasformato in un essere sacrificabile a scapito di un obbiettivo che il regime autoritario di Mussolini riteneva fondamentale, ossia, la pacificazione del territorio nordafricano, l’arresto del tumultus. Questo fine ha reso la vita dell’indigeno insignificante, non degno della più umana pietà, e, quindi, trascurabile e sacrificabile senza che chi ne abbia intaccato l’incolumità ne pagasse giuridicamente le conseguenze. Il suo annientamento e annichilimento ha giustificato una guerra basata sul logoramento e sullo sterminio, arrivando alla costruzione di veri e propri campi di concentramento, alla messa in atto di stremanti marce della morte, alla tentata distruzione totale della fauna e delle colture del territorio, al drastico smantellamento di un sistema economico basato quasi interamente sulla transumanza e sul seminomadismo, alla profanazione della sacralità dei templi e alla messa sotto le armi di innumerevoli innocenti, donne, bambini e anziani inclusi.

Nella riflessione di Giorgio Agamben ho trovato l’attualità di un passato prossimo che ci riguarda più di quanto pensiamo, soprattutto visto il difficile e celato legame che abbiamo con il nostro trascorso coloniale, in particolar modo con quello legato strettamente al regime fascista. Il libico assunse le sembianze dell’uomo sacro, del lupo mannaro, del bandito, dell’incivile e che, in quanto tale, meritava le peggiori delle pene se non fosse stato disposto a un umiliante prostrazione. Esso era un intralcio, un ostacolo da spazzare via in nome della grandezza della dittatura. Catapultato in uno stato di eccezione continuo e permanente, consegnato all’assoluto della legge e abbandonato, allo stesso tempo, al di fuori di ogni giurisdizione.

Nel tracciare questo parallelo, spero di essere riuscito nell’intento di onorare sia la personalità di Giorgio Agamben, e sia chi come Angelo Del Boca, tra intellettuali, storici, ricercatori e accademici, si è impegnato oltremodo per raccontare la verità. Una verità che in quanto paese facciamo ancora fatica a elaborare, nascondendoci dietro il perenne mito degli italiani, “brava gente”.

Bibliografia

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Dentro la colonia: Frantz Fanon, il lavoro a Blida e le considerazioni etnopsichiatriche

Di Emporio Ivankov

E’ il 1954 quando Frantz Fanon accetta l’offerta di un posto presso il reparto psichiatrico dell’ospedale di Blida, fiore all’occhiello dell’Algeria francese e roccaforte di quell’etnopsichiatria  che da quasi un secolo forniva legittimazione (pseudo)scientifica all’occupazione imperialista. Sarà proprio il periodo trascorso nei territori della allora Francia coloniale che permetterà a Fanon di maturare le più dense critiche all’operato della psichiatria manicomiale europea[1]; ma in questa storia occorrerà procedere per gradi.

Non appena giunto a Blida, Fanon viene incaricato di dirigere un reparto comprendente 165 pazienti donne europee e 220 uomini musulmani[2]; in questo frangente egli avrà l’occasione di riprendere il lavoro sui laboratori di terapia sociale, maturando sino in fondo la consapevolezza della necessità di applicare non sono un’analisi, ma anche un tipo di approccio terapeutico che tenga conto dei diversi pattern culturali che incorniciano le esperienze di vita dei pazienti[3]. Il padiglione d’assistenza psichiatrica struttura il suo operato attorno ad una procedura fondamentale, le riunioni, cui medici, infermieri e pazienti prendono parte per decidere delle iniziative sociali terapeutiche[4]. Un primo banco di prova, cui mi riferisco per chiarire in cosa consistano tali operazioni, è rappresentato dall’organizzazione della festa di Natale. Lo svolgimento della celebrazione rivela immediatamente  il suo carattere terapeutico:

Si prepara la festa, si diffondono gli inviti, la scena è allestita da alcuni malati con l’aiuto di una o due infermiere, e noi vi assistiamo come semplici spettatori. La festa assume allora il suo reale carattere terapeutico. Così riferiamo, come aneddoto, della scena in cui la paziente paranoica responsabile della parte cantata – Sombreros et mantillas – sorveglia con la coda dell’occhio la catatonica che tende a perdere il filo e all’occorrenza la pizzica perché si rimetta in movimento.[5]

Se queste attività si dimostrano un totale successo presso le pazienti europee, tanto da permettere la rimozione del materiale da contenzione senza temere grossi inconvenienti, esse dimostrano invece tutto il loro carattere fallimentare presso gli internati musulmani[6]. In questo caso, Fanon può constatare in primis, ancora una volta, il problema della barriera linguistica, ma, anche in seguito all’assunzione di un infermiere musulmano estremamente loquace come interprete, il disinteresse resta costante. Indifferenti alle riunioni dei comitati, manchevoli di partecipazione ai giochi collettivi, i pazienti maghrebini sembrano riservare la propria partecipazione ai soli laboratori per la produzione di indumenti. Viene dunque presa la decisione di creare un laboratorio di ergoterapia interno al servizio d’ospedale, ma i quindici malati partecipanti se ne distaccano immediatamente. Come conseguenza diretta, il personale infermieristico perde totalmente la motivazione e utilizza l’isolamento forzato come pratica di sorveglianza o addirittura di punizione. La mancata riuscita dell’instaurazione di un clima terapeutico porta con sé la necessità d’indagine delle cause che hanno condotto al fallimento. Ciò riporta Fanon ad approfondire le dinamiche culturali che regolano la vita del paziente nordafricano. Già in precedenza, durante gli anni della formazione, egli aveva ribadito la necessità di una diagnosi situazionale. L’indagine sociale si rivela infatti imprescindibile nel percorso che permetterà al giovane psichiatra di trarre dei risvolti positivi da una tale esperienza fallimentare[7]:

A Causa di quale errore di giudizio avevamo potuto immaginare una terapia sociale di ispirazione occidentale in un servizio di alienati musulmani? Come era possibile un’analisi strutturale se mettevamo tra parentesi il contesto geografico, storico, culturale e sociale?[8]

I mancati successi nel percorso terapeutico sembrano essere la causa diretta dell’assunzione di un punto di vista strettamente occidentale. Rapportandosi al paziente in maniera “neutrale”, mancando di tenere conto delle specificità culturali che caratterizzano la sua persona nel contesto d’insieme, non era possibile cogliere nel paziente ciò che Fanon definisce «il fatto sociale nordafricano». Il martinicano accorda al colonialismo un ruolo di primo piano nella genesi sociale della follia, e si addentra nelle specificità del vissuto nordafricano per cercare di intuire gli errori commessi nei laboratori di terapia sociale. Lo spunto di riflessione gli viene fornito dall’arrivo di un orchestra musulmana presso il padiglione europeo:

Nell’arco di sei mesi le donne musulmane hanno regolarmente assistito alle feste date nei padiglioni europei. Per sei mesi, hanno applaudito all’europea. E poi, un giorno, è venuta in ospedale un’orchestra musulmana, ha suonato e cantato, e fu grande la nostra sorpresa nel sentire gli “applausi” tipici delle donne musulmane: modulazioni corte, acute e ripetute. Le pazienti europee reagivano quindi a quella particolare configurazioni (adattandosi senza difficoltà) alle esigenze caratteristiche del nuovo contesto. Diventava evidente che bisognava cercare le configurazioni che avrebbero facilitato di volta in volta reazioni già iscritte in personalità già sviluppate. Una terapia sociale poteva essere possibile solo nella misura in cui si sarebbe tenuto conto della morfologia sociale nel suo insieme e delle peculiari forme di socialità.[9]

Ritengo che questa intuizione, impossibile da realizzare senza un’indagine condotta su più piani intrecciati, sia esplicativa del valore fondamentale che il pensiero fanoniano conserva ancora oggi nell’analisi della follia generata dal potere coloniale – addietro – così come dal retaggio coloniale in tempi odierni. La società maghrebina, ci dice, è una società gerontocratica. Interi villaggi facenti capo alla Djema, consiglio decisionale con alla testa un presidente, si organizzano su base clanica o familiare. Vi sono però una moltitudine di specificità che caratterizzano l’area e si traducono in altrettante differenze linguistiche e culturali[10]. Il quadro tracciato sin qui da Fanon basta a dare idea di una società complessa e profondamente differente dallo stato nazione europeo; anche se un’altra precisazione risulta fondamentale: «prima della conquista francese, la terra era proprietà collettiva»[11], solo in seguito alla conquista francese questa è stata frazionata e ripartita tra diversi titolari, diventati poi proprietari terrieri. In precedenza, il concetto di ricchezza era saldamente legato «all’idea di utile»[12]ed i possessori del terreno risultavano essere coloro i quali avevano disponibilità di strumenti da lavoro agricoli[13]. L’avvento del periodo coloniale e la  redistribuzione della terra comune hanno un effetto distruttivo sull’omogeneità della società araba: oltre ad una ristretta minoranza di grandi proprietari, musulmani ed europei, vi troviamo una moltitudine di fellah, piccoli proprietari terrieri che coltivano faticosamente ristretti appezzamenti di terreno. Essi non rappresentano però “l’ultimo gradino” della scala sociale, dal momento che ad invidiare le loro condizioni troviamo un altrettanto cospicuo numero di indigenti, che non hanno potuto trarre beneficio dalle distribuzioni e che adesso cercano di affittare il proprio lavoro come braccianti. Molti di loro, rimanendo senza impiego, restano indigenti e vanno ad ingrossare le fila di un ceto che, in mancanza di qualsivoglia processo d’industrializzazione, si configura come sottoproletariato[14]. Così anche le tribù nomadi, che avevano conservato una funzione chiave nel mantenimento dell’equilibrio sociale maghrebino, vanno incontro ad una metamorfosi che passa per la sedentarizzazione. Una volta immobilizzate, esse sono costrette a vendere stagionalmente il proprio lavoro, andando incontro ad un processo di (sotto)«proletarizzazione»[15]. Ogni componente della società giunge dunque incontro a quel processo di «dissociazione» che caratterizza la genesi della follia, il profilamento degli internati nordafricani presso il padiglione di Blida lo dimostra:

Su 220 malati, possiamo trovare: 35 fellah, ovvero proprietari di un piccolo terreno coltivato da essi stessi; 76 lavoratori agricoli mezzadri o braccianti; 78 operai (panettieri, imbianchini ecc…); 5 intellettuali; 26 disoccupati. Queste cifre vanno interpretate. Si può pensare che esista un numero relativamente elevato di operai: 78 su 220. In realtà, più esattamente, si tratta spesso di quegli elementi strappati alle campagne che riescono a trovare in città un lavoro manuale in una qualsiasi attività. (…) Tali problemi hanno un’importante risonanza: gli individui che abbandonano individualmente la società tradizionale non sono quantificabili, ma il loro numero è in continuo aumento. Questi elementi costituiscono le forze, ancora poco analizzate, che stanno frantumando gli ambiti domestici, economici e politici, questa società, che noi definiamo immobile, in realtà è fermento nelle sue fondamenta.[16]

È così che si fa strada in Fanon una risposta degna di sormontare l’insieme di queste problematiche. Per avere successo, la terapia deve andare incontro al pattern socio culturale che compone una determinata società: ecco che l’istituzione di un caffè moro, la regolare celebrazione delle feste islamiche e le riunioni intorno a un «”narratore” professionista» garantiscono un consistente aumento dei partecipanti alle attività terapeutiche.

Nonostante il tentativo di trovare una soluzione si sia, in ultima analisi, rivelato fruttuoso, le condizioni infrastrutturali che parzializzano il sistema medico europeo rendendolo strumento del potere coloniale si rivelano essere un problema insormontabile. L’esperienza di Fanon presso l’ospedale di Blida non aveva fatto altro che accertare come l’alienazione fosse causa diretta dell’oppressione coloniale. Lo stallo sanguinante in cui la società maghrebina si ritrovava era specchio della volontà occidentale di mantenere la situazione immutata, e, quando i disordini rivoluzionari giungeranno a Blida, starà a Fanon lottare per cambiare le cose. Dopo essere entrato in contatto con alcuni dei dirigenti del Fronte di Liberazione Nazionale, movimento indipendentista d’ispirazione marxista che si battè per l’indipendenza nazionale, Fanon conduce un primo periodo di lavoro clandestino presso il padiglione algerino. Al termine di questo periodo, conscio di non poter ottenere risultati degni di nota in un sistema d’istituzione medica occidentale, Fanon rassegna le dimissioni dall’ospedale di Blida e si stabilisce a Tunisi, sede del movimento indipendentista algerino, dove ha inizio la sua attività clandestina presso l’organo di stampa ufficiale dell’FLN, “El Moudjahid[17]. Il passaggio istituzionale al campo rivoluzionario appare inevitabile: uscire dall’alienazione significa in primis riappropriarsi di uno spazio che ormai è, in ogni suo aspetto, sistematica disumanizzazione[18].

Ellena, L., Profilo biografico di Frantz Fanon, in Fanon, F., I dannati della terra.

Fanon, F., Comptes rendus du Congrès des médicin aliénistes et neurologues de France ed des pays de langue française, Masson, Paris 1956.

Fanon, F., I Dannati della Terra, Giulio Einaudi, Torino, 2007.

Fanon, F., Decolonizzare la follia. Scritti sulla psichiatria coloniale, Ombre Corte, Verona, 2020.

Fanon, F., Scritti politici per la rivoluzione africana, DeriveApprodi, Roma, 2006.


[1] Ibidem.

[2] Fanon, F., Decolonizzare la follia, op. cit. p. 137.

[3] Fanon, F., Comptes rendus du Congrès des médicin aliénistes et neurologues de France ed des pays de langue française, Masson, Paris 1956; traduzione italiana in Decolonizzare la follia, op. cit. p. 181

[4] Fanon, F., Decolonizzare la follia, op. cit. pp. 139-141.

[5] Fanon, F., Decolonizzare la follia, op. cit. p. 139.

[6] Fanon, F., Decolonizzare la follia, op. cit. p. 140.

[7] Fanon, F., Decolonizzare la follia, op. cit. p. 155.

[8] Fanon, F., Decolonizzare la follia, op. cit. p. 146.

[9] Fanon, F., Decolonizzare la follia, op. cit. p. 147.

[10] Fanon, F., Decolonizzare la follia, op. cit. pp. 148-149.

[11] Fanon, F., Decolonizzare la follia, op. cit. p. 149.

[12] Ibidem.

[13] Ibidem.

[14] Ibidem.

[15] Fanon, F., Decolonizzare la follia, op. cit. pp. 149-151.

[16] Fanon, F., Decolonizzare la follia, op. cit. p. 151.

[17] Ellena, L., Profilo biografico di Frantz Fanon, in Fanon, F., I dannati della terra, op. cit. pp. XXXI-XXXII.

[18] Cfr. Fanon, F., Scritti politici per la rivoluzione africana, DeriveApprodi, Roma, 2006.

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2025: 1914, 1939 o 1950?

Analogia e ripetizione, guerra e trasformazione

Di Gervasio

Chi scrive non ha mai sopportato l’utilizzo aforistico della formula “la storia si ripete”: l’esempio da manuale della frase fatta per ogni evenienza, apparentemente piena di significato, nella sostanza un semplice motto. Questa espressione, una sorta di parafrasi impropria e monca dell’incipit del 18 Brumaio[1], ha perso qualsiasi attinenza con la citazione originaria. Chi ripete questa formula propone una chiave interpretativa semplicistica di una vasta gamma di eventi storici funesti – guerre, crisi, dittature –, sostenendo implicitamente che il loro ripresentarsi sia un fatto normale ed ovvio. Si isola un determinato fenomeno, lo si astrae dal suo contesto e dalle caratteristiche peculiari, si registra la sua ripetizione nel corso di un certo periodo di tempo e lo si eleva a regola generale. La storia si presenta come un “eterno ritorno dell’uguale”, e la cosa più inquietante è che si ricavi questa mostruosità da Marx, il cui pensiero rappresenta l’antitesi per eccellenza alla naturalizzazione di qualsiasi fenomeno storico. Quando si abbina “la storia si ripete” a “corsi e ricorsi storici”, chiamando in causa anche il padre della tradizione storicistica moderna, si raggiunge la follia pura e si travalica – questa volta per davvero – dalla tragedia alla farsa.

Il fatto che alcuni giornalisti mediocri adoperino queste espressioni, però, ci deve far riflettere sul significato della ripetizione nella storia. Ogni storico dovrebbe sapere che la storia “non si ripete” perché le circostanze non sono mai le stesse, eppure alcuni elementi comuni in momenti abbastanza distanti nel tempo si possono ripresentare. Individuare la ripetizione di alcuni fenomeni, e quindi proporre delle analogie, è addirittura uno dei principali metodi che permette allo storico di cogliere i nessi causali e di interpretare il susseguirsi degli eventi. Il problema sta nelle circostanze differenti sullo sfondo che spesso implicano esiti difformi. Dunque, non è sbagliato ricercare la ripetizione o la periodicità, ma l’astrazione dal contesto storico peculiare, cosa che comporta inevitabilmente la banalizzazione.

Negli ultimi tre anni, i media e gli “esperti” di geopolitica hanno ciclicamente riproposto alcune analogie mettendo in relazione lo scenario di guerra odierno con alcuni conflitti della storia del ‘900. C’è chi ha parlato di una “seconda guerra fredda” e chi, dal lato opposto, ha interpretato lo scenario internazionale come il ripetersi delle rivalità imperialistiche della Prima Guerra Mondiale. C’è addirittura chi ha definito Putin come “il nuovo Hitler”, con un implicito riferimento alla Seconda Guerra Mondiale. In tutti questi casi si è tentato di scorgere elementi comuni tra la situazione presente e una guerra del passato con l’obbiettivo di dare un senso al confitto odierno. Ovviamente, a differenza della comparazione di due eventi passati di cui si conoscono gli esiti, l’analogia tra passato e presente non è funzionale alla mera interpretazione storica, ma ha diversi obbiettivi. Per chi la utilizza con fini propagandistici serve a legittimare determinati disegni politici, per chi si approccia criticamente alla storia serve a ipotizzare possibili evoluzioni del presente. Per questo motivo, al netto di come vengono tracciate le analogie da certi commentatori, si tratta di una operazione non solo legittima, ma persino necessaria per chi si pone l’obbiettivo di trasformare la realtà e non solo di interpretarla.

Per evitare che l’azione politica si fondi esclusivamente su pulsioni ideali e progetti utopistici, tutti i movimenti sociali che si sono sviluppati a partire dalla metà dell’Ottocento hanno ritenuto fondamentale partire dall’“analisi concreta della situazione concreta”. Indipendentemente dal fatto che questi movimenti si richiamassero a Marx o meno, il loro “successo” è sempre dipeso dalla lucidità di analisi e dallo studio della storia. La comprensione degli elementi comuni ci permette di far luce sul presente e di intravedere possibili sviluppi futuri. Proprio perché nessuna evoluzione storica è predeterminata, e quindi la storia non “si ripete” inevitabilmente, non si deve ricercare l’analogia per preconizzare finalisticamente un esito necessario, ma si deve tentare di cogliere la somiglianza per intervenire meglio nel nostro tempo.

L’analisi comparata tra i conflitti mondiali del Novecento e l’escalation degli ultimi quindici anni può gettare luce su quest’ultima. Non si tratta qui di stabilire quale dei vari contesti bellici assomigli “di più” al nostro presente, ma di individuare alcuni elementi di ricorrenza in modo da tentare di elaborare una strategia per l’azione politica oggi. Per questo motivo, una volta individuati i tratti comuni, è necessario anche recuperare le riflessioni di chi, partendo dalla nostra stessa prospettiva trasformativa, sviluppò riflessioni utili per problemi politici che si ripresentano, mutatis mutandis, nel 2025.

Sono tre i momenti più significativi che presentano delle analogie con il contesto di guerra odierno: la Prima Guerra Mondiale, la Seconda Guerra Mondiale e la Guerra fredda. Per questo motivo nel proseguo dell’articolo ci si soffermerà su questi tre momenti fondativi del nostro presente e sulle analogie che si possono tracciare. Contemporaneamente, si recupereranno le riflessioni di alcuni tra i più importanti commentatori e militanti politici che operarono in quei contesti in modo da individuare cosa può tornarci utile tra quello che hanno ancora da dirci.

1914

Il ventennio antecedente allo scoppio della Prima Guerra Mondiale è sicuramente il momento storico che si presta meglio all’analogia con la situazione odierna. Dopotutto tracciare un parallelismo tra il 1914 e il 2025 mentre una potenza economicamente dominante in declino viene “sfidata” dal gigante industriale in ascesa è fin troppo facile. Non è opportuno esagerare la somiglianza tra la situazione internazionale della belle époque e quella contemporanea, soprattutto per l’assenza del mondo coloniale propriamente detto[2], ma fatta questa accortezza ci sono numerosi elementi che si ripresentano quasi specularmente. Un elemento di estrema attualità, per esempio, è la notevole flessibilità delle alleanze politiche internazionali che permette improvvise fratture o riallineamenti (si allude non solo alle svolte della politica americana, ma anche alle contraddizioni nel campo dei “BRICS”). Questa fluidità degli schieramenti in gioco si sposa bene con la mancanza di forti ragioni ideali che muovono le parti in lotta. Al contrario della Seconda Guerra Mondiale o della Guerra fredda, infatti, le ragioni del conflitto sono meno marcatamente ideologiche. La contrapposizione democrazia-autocrazia è limpidamente pretestuosa, come lo era d’altronde nel ’14-’18; per converso, non si può dire che la “democratizzazione delle relazioni internazionali” mobiliti i cuori dei rivoluzionari come il sogno di una società comunista durante e dopo il secondo conflitto mondiale. Inoltre, lo scacchiere internazionale non presenta due o tre attori protagonisti attorno a cui ruotano dei campi grossomodo definiti: l’esistenza di soggetti più forti si inserisce nel quadro di un panorama frammentato dove anche le più solide alleanze storiche sono messe in discussione. Fatti e considerati tutti questi parallelismi non stupisce neppure come nella stessa propaganda di guerra si possano addirittura intravedere gli stessi motivi polemici. Il più eclatante è la contrapposizione fittizia aggressore-aggredito, il leitmotiv del dibattito sull’Ucraina.

Un ultimo elemento che permette l’analogia, probabilmente quello più rilevante, riguarda lo squilibrio economico mondiale che non riflette più i rapporti di forza politici di partenza. L’analogia in questo caso non può essere tracciata in senso economicistico, se non altro perché lo squilibrio debitori-creditori come si è presentato tra Stati Uniti e il mondo non allineato alla vigilia della svolta protezionistica statunitense non ha un precedente nel primo conflitto mondiale. Il legame sta piuttosto nel cambiamento di peso di alcune economie in ascesa rispetto alla crisi della potenza egemone che controlla la valuta di riserva mondiale. Nel 1914 si presentò una stridente contraddizione tra l’equilibrio politico che era stato imposto e mantenuto, economicamente e manu militari, e la crescita dirompente della Germania guglielmina che, reclamando una nuova ripartizione delle colonie, mise in crisi la pax britannica; la stessa cosa sta succedendo oggi tra Stati Uniti e Brics (e in particolare con la Cina). Non è un caso che, con l’aggravarsi delle tensioni, la diplomazia internazionale diventi schiettamente sincera sulle ragioni economiche del conflitto (un caso emblematico è il tentativo di accordo per le terre rare).

La predominanza dell’interesse economico-politico alla base dei progetti imperiali dei vari attori internazionali permette di recuperare le analisi che i socialisti europei elaborarono durante il conflitto. Non è un caso che il celebre opuscolo di Lenin “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo” sia stato riconsiderato da importanti economisti contemporanei come Emiliano Brancaccio, autore di “La guerra capitalista” (2023). Un po’ meno noto, ma altrettanto significativo, è l’opuscolo “Il socialismo e la guerra”, scritto sempre da Lenin nel 1915. In questo pamphlet, oltre all’analisi della situazione internazionale dalla prospettiva dei socialisti, sono proposte delle interessantissime considerazioni politiche. In primo luogo, mettendo in evidenza il carattere inter-imperialistico della guerra, si prende atto del fatto che non ci sia uno schieramento “progressivo” per cui patteggiare: in una guerra per la “spartizione degli schiavi”, non si può simpatizzare per nessuno schiavista. Dopo l’accettazione dei crediti di guerra da parte dei partiti socialisti europei e del loro scivolamento nazionalistico non si trattava di una presa di posizione scontata. In secondo luogo, per quanto riguarda la prassi politica, Lenin sottolinea l’importanza di opporsi al proprio governo (il nemico interno) come priorità per ogni partito rivoluzionario. Infine, viene sottolineata la necessità di sfruttare la situazione di tensione per “trasformare la guerra imperialista in una guerra civile”, e quindi di spostare l’asse del conflitto da nazione-contro-nazione a classe-contro-classe. Fatti i necessari aggiustamenti, rimangono considerazioni preziosissime. La situazione di crisi internazionale ci deve portare a considerare come prioritaria la lotta contro la guerra, e nel nostro paese i principali responsabili dell’escalation sono i partiti di governo che si sono susseguiti, dal Partito Democratico a Fratelli D’Italia, indipendentemente dalle particolari simpatie internazionali che possono avere. L’imprescindibile opposizione al nemico interno, italiano ed europeo, rappresenta la linea di confine della battaglia politica che bisogna combattere: la barricata deve essere eretta tra chi vota i crediti di guerra e chi li rifiuta, non tra l’occidente e l’oriente.

Un ultimo appunto. Si è detto che il procedimento analogico ci deve servire anche per tentare di avanzare delle ipotesi su possibili sviluppi futuri. Nel corso della storia chi ha tentato di prevedere le possibili evoluzioni ha sbagliato clamorosamente nella maggior parte dei casi, tuttavia ci sono delle eccezioni significative. Il caso più eclatante è quello del dibattito politico immediatamente precedente alla Grande Guerra. Non solo i socialisti, ma un nutrito gruppo di commentatori si accorse della prevedibilissima piega che avrebbe potuto prendere la rivalità tra le potenze europee. A tal proposito nel 1894 Max Weber ebbe a scrivere “solo una totale cecità politica e un ingenuo ottimismo possono impedirci di capire che gli inevitabili sforzi di espansione commerciale compiuti da tutti i paesi civili dominati dalla borghesia, dopo un periodo transitorio di concorrenza apparentemente pacifica, si stanno chiaramente avvicinando al punto in cui soltanto la forza deciderà la parte di ciascuna nazione nel controllo economico della terra”. In virtù dell’analogia appena tracciata, non è un’assurdità ipotizzare degli esiti simili. Tuttavia, come accennato precedentemente, la situazione attuale presenta somiglianze anche con altri scenari conflittuali che ci sono familiari, per cui, per non trarre conclusioni affrettate, occorre analizzare le caratteristiche comuni che presentano gli altri contesti bellici del ‘900 con la situazione attuale.

1939 (1922)

Il paragone con gli anni ’30 del XX secolo, come antefatto alla Seconda Guerra Mondiale, è meno calzante di quello proposto nel capitolo precedente. Soltanto chi si rifiuta aprioristicamente di sedersi al tavolo delle trattative di pace può sostenere che Putin abbia le stesse ambizioni di vittoria totale e di sterminio proprie della Germania nazista, e in tal senso, l’analogia non si presta. Tuttavia, alcune caratteristiche ricorrenti con il ventennio antecedente al secondo conflitto mondiale si possono individuare, soprattutto per quanto riguarda l’orientamento politico “interno” dei paesi occidentali.

Non si vuole sostenere che l’impetuosa avanzata della destra rappresenti l’antefatto del ritorno del “fascismo”. Questo argomento, che ha come unico scopo la mobilitazione verso le urne del ceto-medio progressista, non ha particolare fondatezza in ambito storiografico. Al contempo però, non è questionabile il fatto che in tutti paesi occidentali, e in buona parte di quelli extra-occidentali, si stiano affermando governi di estrema destra che ricalcano le stesse posizioni reazionarie caratteristiche dei movimenti fascisti della prima metà del ‘900. Dal punto di vista del conservatorismo sociale e dell’orientamento ultranazionalista e antipopolare, e del suprematismo bianco, non pare che ci siano differenze così significative in termini valoriali rispetto ai loro progenitori del secolo scorso. Anzi, per molti partiti di estrema destra il richiamo al passato fascista è esplicito e rivendicato. In che termini, dunque, si può parlare di “fascismo”? Il problema del termine fascista è sintetizzato dal motto che decise di impiegare il Movimento Sociale Italiano: “non restaurare, non rinnegare”. Se da un lato la stretta autoritaria che stiamo sperimentando non deve essere minimizzata, non si deve agitare istericamente lo spettro del “ritorno” e di una restaurazione che non sembra possano – ne vogliano – intraprendere i nipotini del Duce. D’altra parte, bisogna comprendere come alcuni concetti politici forti abbiano due vite: la prima nell’esperienza storica cui sono legati, e l’altra nel significato e nei valori profondi che vanno ben oltre l’epoca e le circostanze specifiche in cui questi si sviluppano la prima volta. Non a caso Bertolt Brecht, riflettendo sulla natura del fascismo nei suoi diari, ipotizzò che, se il fascismo fosse mai giunto in America, questo avrebbe assunto sembianze democratiche. In conclusione, per quanto non si possa seriamente sostenere di vivere lo stesso clima dittatoriale del ventennio, non avrebbe senso rifiutare di chiamare Giorgia Meloni “fascista”, se non altro perché non si riconosce nell’appellativo opposto (antifascista).

Il problema semmai è chiedersi la ragione di questo revival reazionario a un secolo di distanza. Si possono avanzare numerose ipotesi, ma è fuor di dubbio che i motivi sono diversissimi rispetto a quelli degli anni ’20. Il fascismo come fenomeno europeo si sviluppò indubbiamente anche come reazione alla stagione di agitazioni rivoluzionarie del biennio 1919-1920. Si tratta di un’interpretazione comunemente accettata che è stata fatta propria anche da storici di estrema destra come Ernst Nolte (che pure la impiegava in termini giustificazionisti: una reazione legittima all’orrore del comunismo). È fin troppo evidente la stridente differenza con il nostro presente in cui non esiste un movimento di massa (né operaio, né studentesco, né di nessun altro tipo) contro il quale si sta organizzando una “reazione”. Non fraintendiamoci, i nuovi governi si stanno impegnando solertemente per reprimere quel poco che fatica a nascere, ma non ha senso prendersi in giro e raccontarsi di essere la regione della svolta autoritaria. Non è esagerato affermare che non esiste un’opposizione popolare nel mondo occidentale (e almeno in buona parte di quello extra-occidentale) che metta seriamente in crisi il potere costituito. La sperequazione nei rapporti di forza tra oppressi e oppressori è tale che occorre una particolare cautela nella proposta di qualsiasi analogia.

In virtù della mancanza di una opposizione politica ed egemonica al sistema vigente è difficile recuperare integralmente la nozione di “crisi organica” elaborata da Gramsci negli anni della prigionia[3]. Anche se la situazione economica contemporanea ricorda vagamente quella successiva alla crisi del ’29, con un ritorno al protezionismo[4] che può essere letto, con le parole di Gramsci, come una “resistenza reazionaria ai nuovi rapporti mondiali, all’intensificarsi del mercato mondiale”, il contesto politico è abbastanza differente. Anche la nozione di “cesarismo” va presa con le pinze visto che la “soluzione arbitrale” non deriva da una situazione in cui “le parti in lotta si equilibrano in modo catastrofico”. Alcuni elementi della politica cesarista si possono individuare: il rafforzamento degli esecutivi (che ha come corollario la burocratizzazione del legislativo) e la centralità del “capo carismatico” nel contesto di una vita politica spettacolarizzata. Ma tutti questi elementi si inseriscono nel quadro di una vittoria del capitale senza quasi nessuna battaglia prima; una vittoria che quindi è anche, e forse principalmente, culturale e ideologica. Non si vuole sostenere che la sconfitta storica del movimento operaio sia dovuta esclusivamente alla debolezza intellettuale dell’opposizione antisistema, sicuramente però, la mancanza di qualsiasi alternativa di sistema da un punto di vista ideale e teorico ha lasciato un’autostrada libera per il trionfo del neoliberalismo e dell’estrema destra.

Questo ci induce a mettere l’accento su un altro aspetto delle riflessioni di Gramsci, cioè al ruolo fondamentale che attribuisce agli intellettuali, soprattutto da un punto di vista “pedagogico”. Per Gramsci gli intellettuali (nel senso più lato del termine) avrebbero dovuto svolgere un ruolo “connettivo” ed “organizzativo” a stretto contatto con la classe lavoratrice, con le masse e con i subalterni. Solo attraverso questo collegamento avrebbe potuto penetrare nella società una nuova egemonia, premessa ineludibile per la rivoluzione in occidente. Si tratta di una riflessione particolarmente rilevante per chi, come noi, fa politica nell’Università di Bologna: un invito a considerare l’essere studenti come un impegno immediatamente politico, e al contempo un invito a non rinchiudersi nella “bolla” della città universitaria. Il processo di lunga durata che ha portato alla separazione degli intellettuali dal movimento reale, e quindi all’isolamento dei primi e alla scomparsa del secondo, è stato uno dei principali motivi della vittoria totale dell’ordine neoliberale prima, e del trionfo dell’estrema destra dopo; una delle ragioni per cui, da un certo momento in avanti, si è rinunciato a dar battaglia limitandosi alla “critica” dall’esterno del movimento. Potendo considerare la sconfitta storica del movimento operaio anche dal punto di vista della sua sconfitta culturale e ideologica, e quindi mettendo al primo posto la necessità di una nuova elaborazione teorica che sostenga un progetto combattivo, si deve rifiutare fermamente l’idea che ci si possa limitare a combattere con la penna: è un falso mito che possa ferire senza l’aiuto della spada. L’opposizione ai piani di guerra del nostro “nemico interno” passa inevitabilmente dalla ricostruzione di una forte connessione tra il mondo intellettuale militante e quello degli sfruttati.

1950

Anche la cosiddetta “Guerra fredda” presenta numerosi tratti in comune con il quadro internazionale dei giorni nostri. In primo luogo, maggior parte dei conflitti più recenti, dalla Siria all’Ucraina, non sono combattuti frontalmente da parte delle grandi potenze che dirigono il risiko mondiale. Maggior parte dei conflitti sono classificabili come “guerre per procura”, indipendentemente dal fatto che si presentino come “guerre civili” o “rivoluzioni”: in ogni guerra degli ultimi 30 anni almeno una delle parti in lotta è stata direttamente o indirettamente influenzata o controllata da Stati Uniti, Russia, UE o da altre potenze che intervengono nello scacchiere internazionale. Infatti, anche quei conflitti che hanno radici più profonde rispetto all’escalation di questi ultimi anni vengono inglobati e inquadrati all’interno della rivalità inter-imperialistica, assumendo talvolta questo duplice significato[5]. In secondo luogo, un fattore che non può non essere tenuto in considerazione è lo spettro dell’arma atomica, l’eredità più pesante della Guerra fredda che grava ancora sulle nostre teste come la spada di Damocle. È evidente che questo secondo elemento sia strettamente connesso al primo. Il deterrente della guerra atomica impone di combattere ai “margini” delle sfere di influenza visto che nessuno Stato può permettersi il rischio di ingaggiare uno scontro frontale.

Tra i vari conflitti “marginali” combattuti durante la guerra fredda, la Guerra di Corea (1950) si presta bene all’analogia. Prima che si giungesse alla distensione e alla “coesistenza pacifica”, la Corea fu il primo e il più intenso conflitto, in termini di spesa e di vite umane, combattuto non direttamente dai due blocchi. Sul 38° parallelo non si combatteva solamente una guerra civile, ma anche il primo confronto tra Stati Uniti e Unione Sovietica nel contesto del “contenimento” dell’espansione del campo socialista. Le analogie sono evidenti, e se ne possono tracciare di ulteriori dal momento che si è parlato abbastanza frequentemente di una possibile “soluzione coreana” al conflitto in Ucraina (ovvero la possibilità di una divisione del territorio conteso mentre prosegue un conflitto a bassa intensità).

A partire dalla guerra di Corea in Europa e in Italia si svilupparono dei movimenti che si mobilitavano preoccupati di una possibile escalation, fermamente contrari alla guerra e al coinvolgimento nei piani imperialisti degli Stati Uniti. In Italia il movimento prese il nome di “partigiani della pace”, tentando di costruire una continuità rispetto al movimento di liberazione di cui era molto viva la memoria. Consapevoli dell’importanza della solidarietà internazionale e dell’opposizione ai piani di guerra, numerosissimi militanti e cittadini impegnarono le loro migliori energie per fare breccia nell’opinione pubblica. Oltre ai “partigiani della pace”, e ben oltre la guerra di Corea, furono numerosissime le esperienze di diversa natura che si ponevano gli stessi obiettivi. Tra questi si possono citare l’esempio del Tribunale Russel promosso da Lelio Basso oppure l’esperienza dei movimenti antimperialisti contro la guerra in Vietnam. Il risultato fu duplice: si esercitò una effettiva pressione che facilitò in molti casi il ritiro delle truppe, e si rafforzò il movimento di massa che animò la stagione del lungo sessantotto. La solidarietà internazionalista si rivelava uno strumento fondamentale per fronteggiare l’imperialismo e per rafforzare il movimento anticapitalista; è così ancora oggi, e lo abbiamo sperimentato nelle piazze che si sono mobilitate per opporsi alle politiche colonialiste e genocidarie dello Stato israeliano.

La Guerra di Corea fu anche uno dei momenti più acuti della Guerra fredda, il primo in cui si ipotizzò seriamente la rappresaglia atomica contro la Cina, fiancheggiatrice della Corea del Nord. L’Unione Sovietica aveva da poco ottenuto l’arma nucleare per cui, ancora lontani dalla parità atomica, gli Stati Uniti avevano il coltello dalla parte del manico. Oggi che nove stati differenti dispongono dell’arma atomica la situazione non è migliorata, anzi, l’opzione nucleare è sempre presente, e nel dibattito pubblico se ne parla con una disinvoltura allarmante. Non ha senso perdersi ad immaginare ipotesi apocalittiche di una guerra termonucleare, ma è chiaro che la presenza degli arsenali nucleari è un problema oggettivo con cui bisogna confrontarsi. Per questo motivo può essere opportuno recuperare le riflessioni di chi per primo si confrontava con la possibilità di una guerra in uno scenario del genere. Nel 1959 il testo conclusivo del programma di Bad Godesberg della socialdemocrazia tedesca principiava così: “la principale contraddizione del nostro tempo consiste in questo: l’uomo ha scatenato la forza primigenia dell’atomo ed ora è terrorizzato dalle conseguenze di ciò”. Mentre si discuteva degli armamenti atomici nella Germania federale, la SPD, che pure con quel programma abbandonava qualsiasi prospettiva di lotta di classe, metteva in evidenza come la presenza dell’arma atomica stravolgesse completamente la politica internazionale. Anche Togliatti quattro anni più tardi avrebbe sollevato lo stesso problema in un famoso discorso poi intitolato “Il destino dell’uomo”: “l’uomo oggi, non può più soltanto, come nel passato, distruggere altri uomini. L’uomo può uccidere, può annientare l’umanità […] E la pace, a cui sempre si è pensato come ad un bene, diventa qualcosa di più e di diverso: diventa una necessità, se l’uomo non vuole annientare sé stesso.”

Nei mesi in cui si discute di un possibile riarmo europeo, nonostante non si parli ancora di un arsenale nucleare comune, le riflessioni di Bad Godesberg e di Togliatti rimangono utili ed attuali. La consapevolezza condivisa che una nuova guerra globale sarebbe stata devastante, e forse definitiva, portava a considerare la pace e la lotta contro il riarmo come una priorità inderogabile. Nonostante la parabola politica che stava già intraprendendo la SPD, oggi capofila dei partiti guerrafondai europei, il concetto espresso a Bad Godesberg ci sembra condivisibile: la necessità obbiettiva di mantenere la pace deve essere riaffermata con forza. La ricerca della pace però, non può essere uno slogan che si accompagna ad un supporto “critico” verso politiche militariste dell’Unione Europea (come fanno alcuni partiti a “sinistra” del PD), ma dev’essere una parola d’ordine con cui ricostruire un’opposizione antisistema. Essere per la pace, infatti, non vuol dire predicare la pace sociale. Occorre la piena consapevolezza che la pace può essere ottenuta solo con la lotta, non attraverso una lotta interstatale contro i nemici dei nostri governi, ma attraverso una lotta interna contro il nostro governo che vi si oppone. Per questo motivo, se proprio deve esserci una guerra, possiamo solo impegnarci affinché diventi civile visto che, come disse il partigiano Franco Venturi, “sono le sole che meritano di essere combattute”.


[1] La citazione integrale recita “Hegel nota in un passaggio delle sue opere che tutti i grandi fatti e grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa”

[2] Se il processo di decolonizzazione successivo alla Seconda Guerra Mondiale ha reso giuridicamente indipendenti la quasi totalità degli Stati del cosiddetto “Sud globale” (Palestina e Portorico sono forse le eccezioni più significative), non è cambiata la loro condizione di dipendenza rispetto a un pugno di paesi principalmente occidentali. Si può parlare in molti casi di ‘Neocolonialismo’ o di ‘Semi-colonialismo’, ma occorre cautela perché le differenti forme in cui si è riarticolato il rapporto di dipendenza tra centro e periferia sono differenti tra loro e sarebbe una forzatura rinchiuderle sotto un termine ombrello.

[3] Con una notevole semplificazione possiamo sintetizzare il concetto di “crisi organica” nel modo che segue: una situazione in cui la crisi economica e politica si avvicinano fino a fondersi, in cui la classe dominante perde la sua funzione dirigente e rimane solo dominante.

[4] La svolta protezionistica degli Stati Uniti non è iniziata con l’amministrazione Trump ma a partire dalla crisi del 2007-2008. «Del resto, è importante sottolineare, a questo riguardo, che la nuova politica protezionista americana non nasce a seguito di aggressioni militari o di svolte ulteriormente autoritarie nei paesi creditori, ma inizia a farsi strada molto prima, a partire dalla grande recessione del 2008 e dei problemi di debito conseguenti. L’attivatore del protezionismo è dunque la crisi finanziaria, che scatta prima del cosiddetto “trumpismo”.» Emiliano Brancaccio, Ignazio Visco, ‘Non-ordine’ economico mondiale, guerra e pace: un dibattito tra Emiliano Brancaccio e Ignazio Visco, in Moneta e Credito vol. 77 n. 308. p. 361

[5] Con questo non si vuole in alcun modo svalutare delle lotte di liberazione che rimangono guerre giuste a prescindere dal fatto che qualche potenza imperialista tenti di eterodirigere il popolo oppresso. Vale per la Palestina quanto per il Kurdistan.

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Comportamento all’obiettivo: perdere la faccia

Di Stańczyk


«Conobbi la fatica dei lenti pattugliamenti attraverso la città, la malinconia delle notti passate al posto di guardia, la noia snervante delle lunghe vegli[1]. Questo è un passo dei Souvenirs de l’année 1848 di Maxime Du Camp che esprime la lentezza e la dilatazione del tempo che soltanto chi è stato sveglio di notte scoprendo il velo soffuso delle strade poco illuminate ha conosciuto davvero. Mi ha istantaneamente ricordato quella sensazione di sobrietà eccessiva che provavo al posto di guardia della piazza d’armi di Wangen an der Aare dove svolsi il servizio militare nel 2018. Il turno di guardia si esegue sempre nello stesso modo, come ogni cosa nell’esercito. In questo caso ogni quattro ore tre coppie di soldati si alternano nello svolgimento dei seguenti ordini: controllo dei cancelli principali, pattugliamento del perimetro della piazza d’armi e riposo. Sì, anche il riposo è un compito, anzi un dovere, ma è il dovere più dolce che si possa desiderare nelle notti dell’inverno bernese. Non esiste un modo per sfuggire al turno di guardia, tutti prima o poi ci devono passare. I più insubordinati, per qualche accidentale circostanza, però, rischieranno di doverlo fare più volte, magari per più notti di fila a dipendenza del grado di magnanimità dei propri superiori. Raramente mi sono sentito così solo, dissociato e privato di poter disporre del mio tempo come nell’inverno di quell’anno. Provavo spesso una sorta di piattume sensoriale misto alla volontà di comprimere la cassa toracica fino a implodere, lasciando ai camerati un compagno piccolo piccolo, una miniatura circoscritta dai miei contorni di giovane svizzero in età di leva.

Partii l’otto di gennaio da casa mia, nell’estremo sud del Ticino, camminai dieci minuti, arrivai alla stazione di Mendrisio, salii su un treno, mostrai l’ordine di marcia al controllore, cambiai a Lucerna, poi Olten e infine arrivai a Wangen an der Aare: circa quattro ore e mezza di tragitto, una barriera linguistica e culturale, nonché qualche montagna mi dividevano da casa ma ero sempre nella stessa nazione. La località di Wangen an der Aare prende il nome dall’omonimo fiume. L’Aare è un fiume grande, sinuoso, melmoso che nasce nelle Alpi dell’Oberland bernese per poi sfogarsi nel Reno, quel mostro lungo nelle cui acque scorre profonda la storia dell’Europa. Ricordo di essermi perso più volte tra le anse dell’Aare, sentendomi un degenerato a bordo della mitica Narrenschiff, la nave immaginaria che trasportava folli e derelitti senza patria per i territori germanici. Pochi anni prima, nel 2010, un camerata vi perse la vita annegando mentre si bagnava. Ricordo che il tenente della mia sezione ci mostrò un piccolo memoriale sulle rive del fiume, all’interno del villaggio d’esercizio, spiegandoci che adesso si faceva sul serio e che non si poteva più scherzare. Ho contattato un mio ex sergente per chiedergli se il memoriale esistesse davvero o se fosse stata semplicemente la proiezione di uno studente che all’epoca stava leggendo Mosse. Lui mi rispose che non ne era sicuro e chiese a sua volta al comandante della compagnia che non ne sapeva nulla. Però ne approfittò e scarabocchiò un appunto sul taccuino dicendo che avrebbe mandato le reclute a cercarlo. Questo è un classico giochetto che si subisce nell’esercito: cercare per ore qualcosa che non esiste. Col suo discorso il tenente Z. voleva far passare un messaggio: durante la scuola reclute alcuni come noi hanno perso la vita, il militare non è divertente. Non ricordo se l’avessi preso sul serio, non ricordo se fossi stato intimorito da queste storie o se, più probabilmente, trovavo ridicolo e gretto da parte sua accoglierci alla prima settimana di addestramento con questi racconti da fratello maggiore. Non mi aspettavo certo che potessero succedere certe disgrazie.

In Svizzera la leva è obbligatoria per gli uomini maggiorenni giudicati abili al servizio. È tuttavia possibile – o almeno ai tempi lo era ancora – rifiutarsi di compiere il servizio militare e svolgere alternativamente il servizio civile, comunque obbligatorio e di durata maggiore, quindi problematico per chiunque abbia un lavoro o voglia iscriversi all’università con la tranquillità di aver già saldato il proprio debito con la patria. In Svizzera fare il militare è una cosa importante: poter riportare sul curriculum vitae questa esperienza aumenta le probabilità di trovare un posto di lavoro in molti ambienti. Alle giornate di reclutamento, dove fummo sottoposti a tutta una serie di test fisici, medici e psicologici, il colonnello mi incorporò nelle Rettungstruppen, le truppe di salvataggio. Al momento avevo la (s)fortuna di essere abbastanza allenato, in salute e non completamente psicopatico. Mi ritenni favorito dalla sorte. Dai racconti dei più grandi era un privilegio appartenere a quelle truppe perché si trattava di una delle poche funzioni che potessero avere un’applicazione pratica nel mondo reale e offrire un servizio di sostegno alla popolazione in caso di catastrofe. Oltre all’educazione classica dei soldati che comprende la disciplina militare e il combattimento, la formazione dei sauveteurs è composta da moduli di addestramento come vigili del fuoco, che non si limitano all’estinzione di incendi ma che comprendono il salvataggio di persone che hanno subito intossicazioni da gas tossici in contesti critici. Avrei inoltre imparato a spostare macerie e, più in generale, a ricercare dispersi in situazioni di pericolo ambientale e nucleare, nonché fornire medicazioni di primo intervento. Tra tutte, erano queste le uniche cose mi affascinavano. Da adolescente non avrei mai pensato di fare il servizio militare, onestamente mi aspettavo che l’avrebbero abolito prima che toccasse a me, ma mi sbagliavo. Mi arruolarono. Uscito dall’ufficio del colonnello mi fu difficile realizzare di essere a tutti gli effetti un fanciullo dell’esercito. Sarei partito l’anno dopo, finito il liceo. Quando lo comunicai a mio padre mi parve che ne fosse sollevato. Crebbi coi suoi racconti di caporale dei fucilieri di montagna: le risse, le marce, le ferite, le fughe notturne e altre cose da maschi che mi narrò negli anni mi intimorivano, ma sembravano lontane, appartenenti ad un’altra epoca, senza i colori. Io accettai di fare il soldato di salvataggio perché pensavo davvero che avrei imparato qualcosa utile per aiutare gli altri, mi sarei opposto con tutta la forza se mi avessero incorporato coi fucilieri o nell’aeronautica. In quel periodo storico pensavo che “utile” ed “esercito” – anche se solo in un caso eccezionale come le truppe di salvataggio – potessero ancora stare nella stessa frase. Oggi è evidente che allora nella mia coscienza alloggiava il germe della follia.

Un mio amico (lo chiamerò “Y.”) fu arruolato nelle truppe di fanteria stanziate a Coira, nel Canton Grigioni. Durante un’esercitazione di artiglieria in dislocamento a Wichlen, nel Canton Glarona, un mortaio al posto di sparare la mina lontano, esplose. Un frammento della canna colpì un suo camerata il cui volto si srotolò sulla neve. Mi raccontò di avere dei ricordi frammentati della giornata. Si svegliarono alla solita ora, le 05:30, e dopo le consuetudini alle quali i soldati sono obbligati a partecipare, si recarono nei magazzini per caricare i furgoni di materiale bellico. In questo caso si trattava di tubi lanciamine da 8,1 centimetri con le rispettive munizioni. Y. si ricorda che quella mattina fuori «era tutto bianco», una luce accecante filtrata dalla nebbia rendeva invisibile la linea dell’orizzonte che divideva il suolo innevato dal cielo pallido. Arrivati alla zona di lancio, per iniziare l’esercitazione, i mortai vennero posizionati su di una collina dalla quale le mine, una volta lanciate, seguendo una traiettoria calcolata, avrebbero dovuto raggiungere l’altro lato del vallone ed una volta impattato il suolo esplodere. La profondità del fondovalle era appiattita dalla cenere bianca che avviluppava le foreste di conifere. Le mine volavano ed esplodevano sorde, invisibili nella profondità del bianco, da cui emergevano le creste aguzze delle Glaronesi. Le detonazioni sembravano dar voce a quei giganti di granito i cui lamenti baritonali ammonivano le truppe per averne profanato il cortile di casa.

Boooom.

Si percepì un’esplosione diversa dalle altre, un ruggito vicino e forte e poi le urla. I soldati che manipolavano il lanciamine furono sbalzati lontano dall’onda d’urto, riportando ferite lievi. Y., che si trovava a pochi metri dal luogo di ingaggio, si girò spaventato dal rombo orribile e vide un compagno che era seduto dentro un furgone a pochi metri dalla zona di lancio. Era accartocciato e immobile ma molle come un sacchetto pieno d’acqua. Ecco il particolare del viso, messo a fuoco in un secondo momento: la sua mascella ciondolava come una vecchia persiana scardinata prima di spalmarsi definitivamente sul manto bianco. Poi Y. non ricorda bene. Mi parla di commilitoni che correvano avanti e indietro, parla di una situazione di “caos generalizzato”, poi di essersi allontanato insieme agli altri a circa dieci minuti di cammino dalla scena dell’incidente. Gli scatti restano impressi ma sono difficili da sviluppare. Nessuno al momento era in grado di capire cosa fosse successo. Si fanno supposizioni: c’è stato un incidente, è esploso un lanciamine. Qualcuno parla di elisoccorso, qualcuno di ambulanza, qualcuno parla di vita e di morte ma nessuno sa nulla per davvero. Restano solo immagini decontestualizzate. Y. non provò dispiacere o tristezza, c’erano solo confusione e sigarette. «Siamo finiti in un capannone antipanico io e i cossovari con i tatuaggi sulle mani e questi piangevano come dei bambini. Io, tra l’altro, sono l’ultimo con cui S. si è fatto un selfie pochi minuti prima dell’incidente. S. si è rovinato la faccia e penso anche parte dell’esistenza, – bestemmia forte – cosa mi stai facendo tirar fuori» ridacchia cercando di sdrammatizzare. «Io mi tocco la guancia destra, aspetta che me la tocco» mi dice schiaffeggiandosi «ed è normale. A questo ragazzo hai cambiato la faccia, gli hai plasmato l’identità». Y. fu colpito dalla leggerezza con cui si insabbiò l’accaduto, la facilità con cui le consuetudini e le leggi rigide dell’organizzazione delle giornate che passano attraverso il verticalissimo flusso degli ordini tentarono di far dimenticare alla truppa questa disgrazia. I miei superiori mi dicevano sempre: «qui bisogna spegnere il cervello» e questo lo ricordo io. Il ragazzo non morì, ma ricordo che si riuscirono a trovare pochissime informazioni su internet riguardo all’accaduto.

Sicuramente bisogna fare delle precisazioni rispetto al racconto di Y., rispetto alla verità menzognera della testimonianza di chi assiste ad un avvenimento sconvolgente e poi prova a ricordarselo. Errori di percezione si accompagnano ad errori di memoria perché il tempo passa. Se avessi avuto l’occasione di parlare con degli altri testimoni oculari avrei presumibilmente ottenuto racconti un po’ diversi, più ricchi di particolari o più scarni, probabilmente le condizioni metereologiche sarebbero state differenti, la dinamica e l’orario dell’avvenimento anche. Tuttavia, degli elementi in comune sarebbero emersi. Il ragazzo è stato effettivamente ferito gravemente al volto da un frammento proveniente dall’esplosione di un tubo lanciamine da 8,1 cm mentre stava seduto in un furgone durante il servizio militare che forse stava svolgendo controvoglia.  Rifacendomi a quel mostro sacro di Marc Bloch vorrei proporre una breve riflessione sui ricordi. Rammento di essere stato colpito dalle prime frasi de La guerra e le false notizie. Ricordi (1914-1915) e riflessioni (1921). L’allora sergente di fanteria, costretto a letto da una febbre tifoide che lo allontanò dalle trincee dopo cinque mesi di servizio attivo, decise di fare quello che gli storici dovrebbero sempre fare quando sono costretti a letto: scrivere.

«Utilizzerò il tempo libero per fissare i miei ricordi prima che il tempo ne cancelli i colori, oggi molto freschi e vivi. Non riporterò tutto. Bisogna concedere all’oblio ciò che gli spetta. Ma non voglio abbandonare ai capricci della mia memoria i cinque mesi straordinari che ho appena vissuto. Essa è solita fare del mio passato una cernita spesso poco giudiziosa. Si ingombra di minuzie senza interesse e lascia che svaniscano immagini di cui anche i minimi particolari mi sarebbero stati cari. La selezione che essa compie così male voglio che questa volta sia rimessa alla mia ragione»[2].

I ricordi hanno una fisionomia dai confini sfumati, come degli schizzi a carboncino: basta passare un dito sui bordi dei volti e delle sagome ed essi si fanno dinamici, cambiano forma, improvvisamente hanno un’ombra. In questo senso, mi piace parlare dei ricordi come di sistemi di accumulazione in movimento. Il materiale che li compone si genera nel momento in cui si vive l’esperienza, ma è la lenta sedimentazione dei significati e dei simboli che si attribuiscono a posteriori all’avvenimento a modificarne i lineamenti originali e a riempirli o svuotarli di senso. Bisogna fare i conti coi ricordi, in quanto umani e in quanto storici, in generale in quanto esseri che ricercano qualcosa. Parlare con Y. in un momento della mia vita in cui ero intento a scrivere le mie memorie sull’esperienza nell’esercito mi ha istintivamente spinto a riflettere sulle parole di Bloch. Le trincee erano un calderone di mitologie e leggende apparentemente assurde, ma che sono interessanti da studiare proprio perché ci restituiscono degli schemi mentali e dei processi primitivi a cui ci affidiamo in situazioni di incertezza e di rischio. Alle leggende dei franchi tiratori e al cannibalismo dei tedeschi si aggiungono, ad esempio il mito dell’“ufficiale spia” e il timore dei pastori, pronti a tradire la posizione di una batteria disponendo i capi di bestiame in un certo modo. Si potrebbe continuare con i miti delle crocifissioni e dei fiumi di sangue, nonché indagando sulla credenza dell’“esercito dei disertori” attivo nella terra di nessuno, ma ho deciso di non dedicarvi ulteriore spazio in questa sede. Ciò che mi preme dire provo ad articolarlo recuperando un saggio di Eric J. Leed intitolato Terra di nessuno che lessi ormai diversi anni fa ma che stranamente ricordo bene. L’autore tratta le tematiche dell’esperienza bellica e dell’identità personale durante la Grande Guerra. La rigogliosa vegetazione di credenze e miti imbevuti di simbologia che si creò nelle trincee non può essere ridotta all’idea che si tratti di falsità provenienti da edulcorate realtà fenomeniche. Questo “folklore bellico” andrebbe piuttosto interpretato come necessario al combattente, in quanto unica struttura in grado di colmare il solco tracciato tra le aspettative del conflitto e la realtà dell’esperienza di trincea[3]. Questa digressione, sia chiaro, non ha l’obiettivo di screditare l’importanza del ricordo come traccia per comprendere gli avvenimenti passati. Al contrario, più ci penso e più credo si tratti di un tipo di fonte fondamentale poiché rivelatrice di significativi processi psicologici che emergono se si è in grado di grattare l’intonaco che ne nasconde le vie d’accesso. Da qualche parte, non saprei dire dove o quando, Carlo Ginzburg utilizzando una similitudine descrisse le fonti come dei fogli di carta. Da un lato del foglio troviamo i contenuti più squisitamente referenziali, quello che la fonte ci dice letteralmente, ma sull’altro lato, che è il più importante, emerge il modo in cui la fonte è stata costruita, e senza il quale non si può dare per vero, o comunque provare a comprendere mettendolo al vaglio critico, il contenuto del fronte. Bisogna intendere come inscindibile il rapporto tra i due volti della fonte passando attraverso un filtro deformante, che va diluito il più possibile. Non ci si può mai limitare a «pesare le informazioni esplicite dei documenti. […] È necessario estorcer loro le informazioni che non avevano alcuna intenzione di fornire»[4]. Chiaramente i testimoni possono mentire, sbagliarsi o contraddirsi ma è necessario che parlino, è l’unico modo per comprenderli. È l’unico modo per sviluppare una «tecnica di verità»[5].  Y. chiaramente non mentiva ma si sforzava di raccontare un ricordo emotivamente turbante, forte, eccezionale, che è un serbatoio che si riempie e si svuota di significati, di particolari, di dettagli. Secondo la mia esperienza, nell’esercito la propensione ad utilizzare materiale bellico che è stato in passato definito “vetusto” esiste. L’Ufficio dell’uditore in capo della giustizia militare, nella comunicazione ufficiale dell’indagine sull’incidente che ho descritto sopra ci fornisce il nome del modello del lanciamine. Risulta essere del 1972. Il Corriere del Ticino nel riportare la dinamica dell’incidente non parla della datazione del materiale ma si limita a riportare l’accaduto in maniera asettica, dritta, telegrafica, esattamente come mi aspetto che venga riportata:

«WICHLEN (GL) – Quattro reclute sono rimaste ferite – di cui una in maniera grave – ieri sulla piazza di tiro di Wichlen (GL) durante un’esercitazione con un lanciamine da 8,1 cm di diametro. Stando ai primi accertamenti, all’origine dell’incidente vi sarebbe l’esplosione involontaria di una munizione.

La giustizia militare ha aperto un’inchiesta sull’accaduto […]. Specialisti si trovano sul posto per fare chiarezza sulle circostanze esatte dell’incidente. Secondo la RSI [Radiotelevisione svizzera], le reclute appartenevano tutte alla scuola di fanteria 12, che ha la sua caserma a Coira. Il milite rimasto gravemente ferito non si trova in pericolo di morte, ma ha subito vari interventi al viso. Stando al portavoce dell’esercito Daniel Reist, ha subito lesioni alla mascella, ai denti e al capo […]»[6].

Questo può voler dire tutto o niente, non saranno queste le pagine in cui accuserò l’Esercito svizzero di negligenza oppure di mettere in pericolo i soldati facendoli lavorare con del materiale d’epoca. Per questo servirebbe un libro. Ciò che posso dire è che pensando alla mia esperienza, il lanciamine del 1972 non è un’eccezione ma fa parte di una tendenza. Molto del materiale tecnico utilizzato era vecchio. Tra i vari macchinari che ricordo sarebbe peccato non citare la motopompa 83, una diavoleria industriale dotata di anima propria, rombante e puzzolente grazie alla quale pompavamo l’acqua dal fiume nei bacini idrici che ci servivano come deposito da cui attingere per spegnere gli incendi, aspettavamo solo che fosse lei a causarne uno. Dalle indagini della giustizia militare, ovviamente, risulta che l’incidente di Wichlen sia avvenuto per “un’errata manipolazione” del materiale d’artiglieria[7]. Non credo proprio, ma poco cambia, perché in altri casi c’è chi decide attivamente di togliersi la vita, come nel caso di un ragazzo in servizio a Bremgarten l’anno scorso, deceduto poco prima della fine della scuola reclute:

«La giustizia militare ipotizza che la morte di un giovane soldato avvenuta martedì durante un’esercitazione della Scuola reclute 45 sulla piazza d’armi di Bremgarten (AG) sia stata un suicidio.

“Sulla base dei primi risultati delle indagini, al momento ipotizziamo un suicidio”, ha dichiarato oggi a Keystone-ATS Florian Menzi, portavoce della giustizia militare.

Martedì l’esercito aveva spiegato che il colpo di un fucile d’assalto era partito all’interno di un veicolo militare e aveva raggiunto il milite alla testa. Alla televisione RTS un portavoce aveva precisato che “non è consuetudine portare un’arma carica in un veicolo”.

Il dramma si era verificato poco dopo le 9.00. Dopo le prime cure mediche ricevute sul posto, il soldato 22enne era stato trasportato in elicottero in ospedale, dove era morto in mattinata. I primi risultati dell’inchiesta della giustizia militare sono attesi fra alcune settimane»[8].

Non ci sono stati dei campanelli d’allarme? Che rabbia! Ogni anno succede qualcosa, ogni anno o quasi qualcuno perde la vita, rimane ferito gravemente, subisce traumi fisici o psicologici in maniera del tutto legale. Che si tratti di un incidente avvenuto durante un’esercitazione oppure che si tratti di un suicidio queste disgrazie accompagnano un esercito di milizia che nulla ha di sensato, a maggior ragione per un paese che l’ultima guerra che ha combattuto era una guerra civile durata un mese circa 180 anni fa. Se arrivasse la guerra gli svizzeri potrebbero al massimo ritirarsi nelle montagne come in nani. Questa è la mia emotiva sentenza: le alabarde vanno lasciate agli alabardieri. Purtroppo, però, la demilitarizzazione della Svizzera resta un sogno, in quanto il piano della Confederazione dei prossimi anni si inserisce perfettamente nella tendenza al riarmo generale dei paesi dell’Occidente:

Nel dicembre 2024 il Parlamento ha deciso di aumentare di 4 miliardi di franchi il limite di spesa per l’esercito 2025-2028, portandolo a 29,8 miliardi di franchi. Ha l’intenzione di raggiungere l’obiettivo di spesa militare dell’1% del PIL per il 2032[9].

Se non lo hanno già fatto, speriamo almeno che alcune di queste risorse economiche siano investite per dei nuovi lanciamine, giusto per evitare che esplodano. Sarebbe un bel modo per non perdere la faccia. Della mia esperienza ho ricordi vividi, forse perché infondo non è passato così tanto tempo. Quello che ho voglia di condividere lo lascio nell’ultimo paragrafo.

Un uomo muscoloso, altissimo e rasato a zero espande la mimetica gridando in dialetto svizzero tedesco. Sputa degli ordini che non riusciamo a capire, è il primodemente. Sembra arrabbiato, ma sta godendo, pensa che abbiamo paura di lui, si nutre di questa paura, la paura gli gonfia il petto, stira le nervose fibre clavicolari e gli squadra la mascella. Ha gli occhi sgranati e spiritati, ha pochi anni in più di me ed è più giovane di alcuni dei miei compagni. È una creatura senza tempo. Il simbolo del grado militare stampato sulle mostrine annulla ogni differenza di età e ridefinisce gli anelli della catena alimentare. Se hai un grado più basso devi eseguire, devi avere timore, l’insubordinazione non piace. Dormirai meno, mangerai freddo, verrai svegliato di notte a pulire gli scarponi già perfettamente puliti, starai in posizione di attenti nel freddo gelido per delle mezzore. Perché ridevi? Forse non riderai più davanti ad un pazzo che grida. Forse una mattina non avrai il tempo di rasarti la barba e allora quando il tenente lo noterà ti ordinerà di correre dal villaggio di esercizio alla caserma a fare il lavoraccio dicendoti: «hai 20 minuti, muovi il culo!». Mi ricordo che pur di non correre quei due chilometri con gli anfibi e il pacchettaggio completo con alcuni compagni ci rasammo vicendevolmente col coltello d’ordinanza. Ho avuto la pelle irritata per una settimana ma ero contento di averlo fatto. Queste immagini grottesche mi hanno accompagnato per circa 18 settimane. La pesantezza è condivisa con altri cinquanta ragazzi, che ti capiscono e che ti aiutano, sono compagni con cui litighi, ridi e ti azzuffi. Forse piangerai davanti a dei maschi, stremato e privato del sonno e andrà bene così, perché in quel contesto loro comprenderanno, ma tornati nella vita civile questi gesti resteranno femminili, inammissibili, dimostrando che l’intimità che si è stretta coi compagni non è che illusoria e funzionale ad un temporaneo schema di sopravvivenza collettiva. Pensavo che avrei imparato a salvare la gente, ma adesso non saprei srotolare nemmeno un tubo, non saprei mettere un respiratore, non saprei montare un bacino idrico. Le cose utili me le sono dimenticate. La pesantezza delle regole disciplinari invece me la ricordo bene, mi ricordo come si spara, perché sparare è di una facilità disarmante. Basta letteralmente premere il grilletto. Nell’esercito ho imparato tanto su di me, sull’ingiustizia, sulle armi, sul loro peso, sulle loro regole di ingaggio, ho realizzato con stupore con quale velocità un ferro gelido possa diventare incandescente, ho scoperto la naturalezza con cui ci si abitua ad avere un fucile d’assalto attaccato al proprio copro per buona parte della giornata, la gravosità di un oggetto ideato per annientare esseri umani diventa abitudine. Resta il fastidio di doverlo pulire quando si incrosta di fango, il fastidio di doverlo portare ovunque, di tenerlo d’occhio e curarlo come un piccolo animale. È un essere vivente, perché si anima quando sputa fuoco. Ho riflettuto sull’ordine degli ebeti, che crea tutto questo caos, ho finto di essere un tipo di maschio che non mi piace, ho represso tante emozioni, ho cercato di capire che cosa sentissi sulla mia pelle, cosa mi facessero sentire queste forze oppressive e che cosa facessero sentire ai compagni – mi ha sempre angosciato doverli forzatamente chiamare “camerati”. Abbiamo parlato tanto di tutto e abbiamo finito questa cosa insieme. Dall’esercito ho ereditato degli anfibi molto comodi che ho risignificato. Prima mi servivano per marciare e fare rumore picchiando i piedi sul cemento della piazza d’armi al ritmo cadenzato dalle urla dei sergenti, ora mi servono per resistere al freddo umido di Bologna mentre bevo all’aperto nelle sere d’inverno e fumo una sigaretta con la consapevolezza che domani non mi dovrò svegliare alle 05:30 e soprattutto che non dovrò vedere la bandiera della nazione in cui sono casualmente nato issarsi su un’asta congelata. Ho imparato che cosa significa non scegliere e fare, ho imparato a valorizzare il tempo, la notte, i piccoli sonni, i fugaci momenti di lettura e la forza liberatoria della bestemmia condivisa. Cosa sia rimasto di quei mesi, oltre agli stivali, qualche ricordo e la rabbia, l’ho capito leggendo quella frase di Du Camp: la «fatica dei lenti pattugliamenti attraverso la città, la malinconia delle notti passate al posto di guardia, la noia snervante delle lunghe veglie» e basta.

Bibliografia

Marc Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, Torino, Einaudi, 2009.

Marc Bloch, La guerra e le false notizie. Ricordi (1914-1915) e riflessioni (1921), Roma, Fazi Editore, 2014.

Comunicato stampa dell’Esercito svizzero del 13.08.2019, https://www.admin.ch/gov/it/pagina-iniziale/documentazione/comunicati-stampa.msg-id-76034.html .

Corriere del Ticino, Quattro reclute ferite in un’esercitazione di tiro. Un militare è in gravi condizioni dopo aver usato un lanciamine sulla piazza di tiro di Wichlen (GL), 28.03.2018, https://www.cdt.ch/news/quattro-reclute-ferite-in-unesercitazione-di-tiro-183099

Dipartimento federale della difesa, Finanziamento ed equipaggiamento dell’esercito, 02.10.2024, https://www.vbs.admin.ch/it/finanziamento-esercito

Carlo Ginzburg, Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Macerata, Quodlibet, 2022.

Eric J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella Prima guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 2014.

Swissinfo, Giustizia militare ipotizza suicidio del soldato morto a Bremgarten, 26.04.2024, https://www.swissinfo.ch/ita/giustizia-militare-ipotizza-suicidio-del-soldato-morto-a-bremgarten/76457942


[1] Carlo Ginzburg, Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Macerata, Quodlibet, 2022, p. 126, dall’opera Maxime Du Camp, Souvenirs de l’année 1848, Paris, Hachette et Cie, 1876, p. 130.

[2] Marc Bloch, La guerra e le false notizie. Ricordi (1914-1915) e riflessioni (1921), Roma, Fazi Editore, 2014, p. 13.

[3] Eric J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella Prima guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 2014, p. 158.

[4] Marc Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, Torino, Einaudi, 2009, p. 69.

[5] Ivi, cit., p. 70.

[6] Corriere del Ticino, Quattro reclute ferite in un’esercitazione di tiro. Un militare è in gravi condizioni dopo aver usato un lanciamine sulla piazza di tiro di Wichlen (GL), 28.03.2018, https://www.cdt.ch/news/quattro-reclute-ferite-in-unesercitazione-di-tiro-183099 .

[7] Comunicato stampa dell’Esercito svizzero del 13.08.2019, https://www.admin.ch/gov/it/pagina-iniziale/documentazione/comunicati-stampa.msg-id-76034.html .

[8] Swissinfo, Giustizia militare ipotizza suicidio del soldato morto a Bremgarten, 26.04.2024, https://www.swissinfo.ch/ita/giustizia-militare-ipotizza-suicidio-del-soldato-morto-a-bremgarten/76457942

[9] Dipartimento federale della difesa, Finanziamento ed equipaggiamento dell’esercito, 02.10.2024, https://www.vbs.admin.ch/it/finanziamento-esercito

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Il PD, o lo spirito del neoliberalismo

Introduzione

Quando il Presidente Mao Tse Dong accolse Richard Nixon, il movimento comunista internazionale restò sbalordito. Nessuno riusciva a spiegarsi per quale ragione la Repubblica popolare potesse accogliere un tale f4sc1st4 in pompa magna. Mao, con calma, rispose “i reazionari mi piacciono perché parlano chiaro”.

Ecco, dunque, che cosa ci piace di Meloni: che sia così spudoratamente f4sc1st4. E non ci sorprendono – anzi ci annoiano – tutti quei video-soccorso delle talpe di fanpage dentro le sedi dei fratellini d’Itaglia. Non ci aspettiamo nulla di più che questo: saluti romani, WilDu(s)c3 e l’altro tizio più cattivo di lui. Fanno ridere. E ci sarebbe da capire come chiudere le sedi di questa gentaglia piuttosto che ficcarcisi dentro per filmarli: il problema fondamentale non è che dicano WilDu(s)c3 o che guardino “M il figlio del secolo” facendo il tifo per il Du(s)c3 e sperando che non finisca appeso a testa in giù e pieno di piscio (e merda). Il problema è ciò che fanno in funzione di ciò in cui credono. Ma Loro – i f4sc1st1 – sono, almeno, riconoscibili. I f4sc1st1 al governo e i loro sostenitori (fasci anche loro) sono tutti uguali: non sanno mettere due parole in fila, odiano donne, arabi e comunità LGBTQI+  (anche se non sanno per cosa stia la sigla) e – paradosso del nuovo secolo – amano profondamente Israele. Noi, però, in quest’articolo non vogliamo parlare dei nostalgici del Ventennio, né tanto meno turlupinare i nostri e le nostre colleghe che ci leggono in questo momento con la solita manfrina su quanto sia reazionario il nostro governo, su come Meloni sia una serva di Washington (genuflessa con Biden, genuflessa con Trump), o, peggio ancora, spiegare perché il nostro governo – più che f4sc1st4 – sia profondamente neoliberista: sono tutte cose note.

Il nostro obiettivo, in quest’articolo, è un altro. Dalle parole di Mao Tse Dong, vogliamo cercare di spiegare perché nel nostro paese l’unica cosa peggiore della destra è il PD. Per farlo, procederemo per gradi. Anzitutto, cercheremo di tratteggiare il profilo generale di questa deforme massa pseudopolitica dal nome sterile, dalla grafica oscena e dal contenuto assente che chiamiamo PD, per poi definirne brevemente le responsabilità nella degenerazione dello Stato sociale nel nostro paese. Non abbiamo la minima intenzione di esaurire l’argomento in queste poche righe. Piuttosto, abbiamo intenzione di aprire un dibattito, di approfondire un problema e di cercare, per quanto difficile possa essere, di trovare un accenno di soluzioni.

Il PD, lo spirito del neoliberalismo

Il PD. Da dove cominciare? Ci siamo chiesti di che cosa parlare, quali riforme approfondire, quali personaggi nominare. Ci sarebbe il materiale per scrivere un libro. Anzi no, una trilogia. Immaginiamo il titolo: Il PD: la morte della sinistra (2000-2010); Il PD: il cadavere putrefatto della sinistra (2011-2016); Il PD: dai ancora non vi siete levati dal c4zz0? (2017-). Non ne abbiamo il tempo. Abbiamo allora deciso di cominciare tentando di dare una definizione a questa grigia sigla, “PD”[1].

I più pignoli noteranno che il Partito Democratico con questa denominazione nasce solo nel 2007 e che quindi noi sbaglieremmo a riferirci con questo epiteto (PD) all’intera storia del Partito Democratico della Sinistra (la sventurata sigla PDS) sommata a quella del partito dei Democratici di Sinistra (l’altrettanto sventurata sigla DS) e a tutte le volte che questi hanno fatto parte della coalizione dell’Ulivo insieme con La Margherita. Bene, tagliamo la testa al toro, facciamola corta: la marmaglia infeconda che ha governato questo paese negli ultimi trent’anni sotto il nome dell’Ulivo prodiano corrisponde in quest’articolo al PD, di cui ci serviamo più come di una categoria politico-analitica che di una esclusivamente storico-descrittiva. Il PD è la metafora della Sinistra che ha perduto la propria identità politica. “PD” significa fine delle lotte sociali, abbandono della classe lavoratrice e della giustizia sociale e quindi può racchiudere, deve racchiudere tutti coloro i quali hanno contribuito a ché ciò si realizzasse. In breve: non esiste cosa più partitodemocratica di eliminare l’aggettivo comunista dal titolo del proprio partito, Occhetto docet.

Fatta questa breve, ma necessaria precisazione, torniamo al discorso principale: come smascherare il PD? Come provare brevemente il suo carattere estremamente ed eminentemente reazionario e il modo in cui si fanno prendere per il culo tutti quelli che lo votano, o peggio ancora che se ne fanno in buona fede la tessera? Prima di tutto, abbiamo pensato di provare a vedere se il PD avesse mai fatto qualcosa “di sinistra” (che brutta espressione). In uno dei pochi bei libri obbligatori per superare gli esami qui ad Unibo[2], si trova scritto che se proprio si vuole restringere il campo, l’unica vera differenza storica tra Destra e Sinistra è che la prima ha sempre difeso l’inasprimento delle diseguaglianze, mentre la seconda ha sempre tentato di restringerle.

Dunque, la destra combatte per la diseguaglianza e la sinistra combatte per l’uguaglianza (in tutti sensi descritti dall’articolo 3 della nostra costituzione[3]). Da Berlusconi a Salvini, passando per Meloni, possiamo dire che per la destra l’esame è superato a pieni voti. Ma cosa dire dei vari D’Alema, Prodi, Rutelli, Renzi, Gentiloni, Letta e Schlein? Se teniamo come paradigma analitico la dicotomia uguaglianza/diseguaglianza, questi cialtroni e insieme con loro questo rigurgito democristiano che qualcuno ha avuto la brillante idea di chiamare Partito Democratico andrebbero messi nel campo della Destra. Sentiamo già il sudore del sedicente studente iscritto all’albo dei giovani democratici (e ad ogni sua formale estroflessione) scendergli goccia dopo goccia giù per il viso. “Ma come si permettono?! E i matrimoni egualitari?! E la cannabis a scopo terapeutico?! E l’europeismo?! E la libertà?!?!”. Intendiamoci, sono tutte cose molto serie, eccezion fatta per l’”europeismo”, che ad oggi ci pare descriva più il narcisismo di quello sfigato di Carlo Calenda ed un desiderio nascosto di distruzione nucleare, che non una vera “corrente politica”. E infatti, non perculiamo il piddino per la natura dei diritti civili, i quali costituiscono una parte fondamentale della lotta politica cui noi in primo luogo aderiamo. Qui, ci limitiamo a rilevare il consumarsi di un passaggio storico, di uno spostamento paradigmatico epocale avvenuto con la crisi della società salariale e la trasformazione della liberaldemcorazia in democrazia liberista, la quale ha per carattere fondamentale l’inesistenza di un piano politico che operi positivamente in ambito sociale e collettivo. È la vittoria della libertà del singolo, di classe elevata, sull’uguaglianza sociale progressiva della collettività in nome della riduzione delle differenze di classe. È la ragione neoliberale, che opera a destra e a sinistra, da destra a sinistra, senza freni né opposizione.

A questo punto occorre fare un breve riassunto delle responsabilità della classe dirigente del Partito Democratico nella storia recente del nostro paese. Indirettamente o direttamente, il PD e i volti che l’hanno colorato con l’incedere del tempo sono responsabili di: 1. intervento militare in Jugoslavia (D’Alema I); 2. Riforma del titolo V della Costituzione (Amato I, segretario Fassino); 3. Alleanza con Berlusconi, riforma Fornero del lavoro e delle pensioni, pareggio di bilancio in costituzione (Monti I, segretario del PD Bersani); 4. Jobs act, Buona Scuola e memorandum con la Libia con annesso tentativo di distruggere la costituzione italiana (Renzi I); 5. Essere contro il salario minimo e contro il Reddito di cittadinanza (Gentiloni, Martina, Zingaretti, Orlando); 6. Aver governato con la Leganord e aver sostenuto il governo Draghi, la consegna di armi senza fine all’Ucraina e ad Israele; 7. Aver accolto Carlo Calenda nelle liste elettorali per le elezioni politiche del 2022 (che ne uscì fondando il Terzo Polo); 8. Elly Schlein.

La somma di queste porcherie, che riassumono con un volo pindarico trent’anni di massacri sociali e corruzione della politica, ci fanno giungere ad una conclusione: nel preciso istante in cui Achille Occhetto ha pronunciato l’abolizione del nome Partito Comunista Italiano (oltre ad essersi segretamente cagato addosso mentre piangeva lacrime coccodrilliche) ha confermato l’abolizione del progetto politico che quel partito aveva rappresentato per 70 anni, attraverso la clandestinità sotto il f4scismo, la lotta di liberazione partigiana e contro gli intrighi del potere democristiano.

Non abbiamo la presunzione, né tanto meno l’intenzione di attribuire al PD le ragioni complessive della sconfitta politica del movimento operaio nel nostro paese. È nel solco del più ampio processo di disarticolazione della democrazia liberale a contenuto sociale (formatasi in Italia dopo il 1945) che il PD è nato ed ha cominciato ad operare. Esso è, diciamo, l’esempio più calzante della fine del ruolo di corpo intermedio tra Stato e Società che i partiti hanno svolto nel nostro paese nella seconda metà del XX secolo. Di questo bisogna parlare: non di quello che sarebbe potuto essere, ma solo di ciò che è e di ciò che fa il PD, in modo tale da comprendere l’intima funzione che svolge.

Le responsabilità del Partito Democratico risiedono essenzialmente nell’aver abbandonato la lotta per la giustizia sociale e per la difesa di una proprietà sociale diffusa in un programma politico di progressiva redistribuzione della ricchezza, divenendo – non meno di Thatcher in Inghilterra e Reagan negli USA – il più caloroso alfiere delle pratiche politico-economiche del neoliberalismo in Italia. Sono delle grandissime responsabilità, dalle quali riteniamo di dover trarre un’unica, urgente conclusione: il PD è l’ombra di sé stesso. È un partito già morto, che muore ogni giorno di più. Accanto a questo, si consideri il supino consenso ed il costante stato di genuflessione nei confronti di Washington che caratterizza la postura di ogni membro di ciò che oramai, più che un partito, pare essere divenuta una semplice (e malfunzionante) macchina elettorale. Come tale, il PD millanta una presunzione antipopolare. Ha abbandonato le istanze paradigmatiche della sinistra e, nel buio ideologico più totale, tenta di costruire la propria identità attorno ad un’opposizione che non c’è, che non fa: che non ha la forza, né la legittimità di fare.

Il PD sprofonda insieme con il parlamento. Dovrebbe far opposizione ad una destra che più destra non si può, e non fa nulla. In questa direzione, davanti alla linea politica internazionale del governo, caratterizzata esclusivamente dal “fare ciò che ordinano gli Stati Uniti” (che si tratti di Biden piuttosto che di Trump), compreso invio di armi sino ad esaurimento ucraini per distruggereh la Russiah! (da leggersi con voce di Rampini) e compartecipazione allo sterminio dei palestinesi a Gaza, ci aspetteremmo da parte della sinistra una forte opposizione, delle battaglie condotte in nome della pace, o quanto meno (quanto meno!) la condanna del genocidio condotto da Israele in Palestina.

Cerchiamo di fare una breve ricostruzione[4]. Com’è noto, sabato scorso, il peggio della politica, del giornalismo e del mondo dello spettacolo italiano è sceso in piazza con le lacrime agli occhi, il viso rosso di sudore e le mani nei capelli al grido “EU-RO-PA EU-RO-PA EU-RO-PA!!!”. Che qualcuno spieghi a questi signori  che l’EUROPAH per la quale piangono e si dimenano ha appena ordinato un progetto di RIARMO dal costo di 800 MILIARDI di euro (650 da raggiungere con l’aumento della percentuale PIL destinato alla spesa militare sino all’1,5% e 150 a debito). La stessa Europa che ha rifiutato di fare debito in passato, facendo morire la gente, decide adesso sì di fare debito, ma per fare morire la gente.

È successo un disastro: dopo che Trump e Vance hanno bullizzato in diretta mondiale il Zelensky, per poi bloccare gli aiuti militari all’Ucraina dopo averla spremuta, schiacciata e spappolata come un’arancia a Ivrea, in tutta Europa si sono persi i punti di riferimento. Non si capisce più quale culo leccare. Ma, per nostra grande fortuna, in Italia esiste la Sinistra, coerente, guerrafondaia e complice del genocidio palestinese chiunque occupi la Casa Bianca.

Abbiamo assistito, negli ultimi due anni, ad una sostanziale equivalenza tra governo e PD (formalmente all’opposizione) in politica estera. Vediamo, insieme, in tal senso, un piccolo estratto di un intervento parlamento fatto a sinistra avvenuto prima dei fatti della Sala ovale.

Che cosa avrà mai detto, allora, il senatore Delrio (PD), davanti alla tracotanza guerrafondaia del f4sc1st4 Ignazio La Russa? Chiediamo scusa se non l’abbiamo messo tutto, ma non siamo riusciti neanche noi a finirlo:

Grazie presidente, signor ministro. I democratici italiani confermano il pieno appoggio alle Sue comunicazioni. Appoggio serio, perché Lei ha detto parole serie. Siamo molto in sintonia sulla politica estera. Anzi, direi che più che noi ad essere d’accordo con voi, siete voi d’accordo con noi, finalmente. Perché questa politica estera è stata decisa quando c’era un governo in cui era presente il Partito Democratico.  Ricordo per esempio un po’ di polemiche della presidente Meloni nel 2016 quando il Governo Renzi decise di potenziare il contingente Nato in Lettonia. Questo per dire che facciamo adesso finalmente le stessi analisi […]

Prrrrrrrrrrrrr. Si, una pernacchia. È questa l’unica cosa seria che ci sembra possibile poter affermare. Ma, volendo argomentare, allora non possiamo fare altro che ri-confermare la sostanziale identità tra PD e Governo in politica estera. Al parlamento europeo, al netto dell’inutilità politica dell’unico organo eletto democraticamente dell’Unione, PD e Fratelli d’Italia hanno votato per il riarmo. Più precisamente, i reazionari che parlano chiaro (Fratelli d’Italia) hanno votato compattamente per il a favore del Rearm Europe, mentre i reazionari nascosti (PD) si sono divisi tra dieci voti a favore e undici astensioni (Compagni!). Oggi, che Schlein scende in piazza unendosi al giubilo psicotico e guerrafondaio di Von Der Leyen e che Meloni si presenta camaleonticamente alla riunione dei volenterosi[5] dividendosi tra capre (Trump) e cavoli (Bruxelles), la situazione è sostanzialmente immutata. Se cambierà, pare che non sarà in meglio, staremo a vedere. In ogni caso, abbiamo elementi a sufficienza per affermare che prima di presentarsi formalmente come un’alternativa alla destra in questo paese, il PD dovrebbe confermare di esserlo sostanzialmente. Ma ciò che il PD è sostanzialmente è il nulla politico. Una scoreggia silenziosa.

È questo il grande dilemma a spirale che risucchia costantemente la sinistra e che, francamente, ce li fanno stare davvero molto, molto antipatici. È nell’incapacità di porsi come un’alternativa a ciò che dichiarano essere il loro opposto categorico che si spiega l’incontro tra Mao e Nixon.

Il PD dovrebbe dire che l’Italia è in recessione, che il 2024 si è chiuso con più di 1000 morti sul lavoro e che i contratti sono sempre più precari. Ma il suo spirito è neoliberista. Deputati e ministri del PD hanno compiuto il Jobs Act, hanno avallato Berlusconi, Monti, Draghi, hanno tentato di sventrare irreversibilmente la Costituzione italiana e ora si fanno complici di un riarmo psicopatico, che butta un sacco di soldi nel campo della morte, togliendoli dall’istruzione, dalla sanità, dal lavoro, dalle università. Non hanno speso una singola parola in favore della resistenza palestinese, né di condanna nei confronti del genocidio sionista. Non ci hanno capito niente e continuano a non capirci nulla sulla Guerra in Ucraina, per la gestione della quale si sono addirittura complimentati con La Russa e Meloni… mentre adesso gridano il disperato desiderio di continuare ad armare una guerra persa, perfettamente consapevoli di stare nutrendo così il più pericolo dei mostri: il mercato delle armi, della guerra, della morte.  Non c’è possibilità di argomento. Sono prigionieri della loro storia: la storia di una reazione nascosta, che oggi cominciamo a smascherare.

Gt Ung

 

Bibliografia e fonti

Caporali, Riccardo; Uguaglianza; Bologna; Il Mulino; 2012.

Galli, Carlo; Democrazia, ultimo atto?; Torino; Einaudi; 2023.

Canfora, Luciano; La Democrazia dei signori; Roma, Laterza, 2022.

Canfora, Luciano; La metamorfosi; Roma, Laterza, 2021.

Articoli:

https://contropiano.org/news/politica-news/2025/03/16/la-maggioranza-del-paese-e-contro-il-riarmo-ce-spazio-per-lavorarci-sopra-0181311

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2025/03/16/la-piazza-dellue-per-tutti-i-gusti-schlein-gentiloni-e-appelli-alla-sinistra-unita/7915741/

 

[1] I più attenti sapranno già che cosa dovrebbe voler dire “PD” per far sì che “la carta del partito” la voglia “pure io”.

[2] Caporali, Roberto, Uguaglianza, Bologna, Il Mulino, 2012.

[3] Cit. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

[4] con la consapevolezza che, alla velocità con la quale si verificano i rivolgimenti geopolitici per la contraddittorietà della fase che stiamo vivendo, quando l’articola sarà uscito, potrebbe essere già cambiato tutto.

[5] Volenterosi di fare la Terza Guerra mondiale, cioè di spedire truppe di “peacekeeping” e di esportazionedemocratica in Ucraina.

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Flexsecurity e morte della stabilità lavorativa – grazie, Jobs Act!

Che sventurati anni, quelli tra il 2014 e il 2016, quando Matteo Renzi ha svolto la carica di Presidente del Consiglio dei ministri. Genio del gioco politico, infame nella sua ambiguità, il fondatore di Italia Viva non si è risparmiato nulla: Renzi sindaco, Renzi segretario, Renzi presidente del Consiglio, Renzi senatore; Renzi quaquaraquà.

Sappiamo che la sua figura è controversa, e che alcuni sostenitori del Partito Democratico oggi si discostano indignati dalle opere del suo governo. Un po’ sospetto questo improvviso cambio di rotta, dal momento che l’attuale senatore ha rappresentato il PD per ben quattro anni[1], eletto con una maggioranza schiacciante alle primarie del 2013. Di certo, quest’elezione ha reso manifesto ciò che accomuna il PD e l’ex segretario: la capacità di trasformarsi più e più volte, senza un’idea, un programma politico, giocando a braccio di ferro con la destra su chi sia più capace a piegarsi alle dinamiche del neoliberalismo. Infatti, nei tre malcapitati anni in cui Renzi ha “guidato” il Paese, ha distrutto la tutela dei lavoratori in modi che sembrano incontrovertibili, tradendo il voto degli elettori che vedevano nel PD la famosa “alternativa”. Non lo è, ed ecco il mio ruolo in questo disvelamento: accompagnarvi arrabbiati e tristi oltre lo Stige come Caronte con le anime dannate. E come farvi veramente incazzare se non partendo dall’apice della distruzione del lavoro stabile? Sì, partiamo da qui: dal d.lgs. 23/2015, parte più scandalosa del “Jobs Act”.

Cari lavoratori e lavoratrici che siete entrati a far parte del mondo del lavoro a partire dall’8 marzo del 2015, mi rivolgo direttamente a voi in quanto destinatari delle norme del “contratto di lavoro a tutele crescenti”, che poteva benissimo essere chiamato “come eliminiamo per sempre la stabilità lavorativa”. Magari vi sentite sicuri ora che avete raggiunto un contratto a tempo indeterminato, dopo anni di abusi di tirocini non retribuiti, apprendistato e contratti a termine. Forse prima potevate stare tranquilli, ora, grazie alla “sinistra”, no.

Vi ricordate il tanto agognato e sudato Statuto dei Lavoratori?

La l.300/70 ha rappresentato nella memoria collettiva “l’ingresso della Costituzione nelle fabbriche”. Questa conquista è stata una pietra miliare delle battaglie del movimento operaio volte al conseguimento di un lavoro che fosse una vera “attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” (art.4 Cost.). Finalmente, i lavoratori vedevano riconosciuti i loro diritti fondamentali, individuali e collettivi, nei posti di lavoro.

Era possibile la manifestazione del pensiero, senza la possibilità di essere discriminati per questo, o per motivi legati al genere, all’etnia, al sesso, alla religione, all’orientamento politico e alla partecipazione ad un’associazione sindacale[2]. Le sanzioni disciplinari non erano più rimesse alla libera potestas del datore-padrone, ma disciplinate dalla contrattazione collettiva[3]. Era possibile riunirsi in assemblee e i sindacati avevano il diritto di utilizzare appositi locali per l’esercizio delle loro attività, che dovevano essere messi a disposizione dall’azienda[4]. Insomma, per la prima volta veniva riconosciuta la dignità del lavoro e dei lavoratori, con le dovute conquiste ancora da raggiungere.

L’art.18 S.L. è – o meglio, era –  il fondamento senza il quale gli altri diritti riconosciuti dallo Statuto non potevano realizzarsi. Infatti, rappresentava lo strumento attraverso il quale rivendicare il diritto costituzionale alla stabilità lavorativa contro i licenziamenti ingiustificati. Il meccanismo era semplice: nel momento in cui un lavoratore veniva licenziato senza giusta causa o giustificato motivo aveva il diritto di adire il giudice e chiedere la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione e al risarcimento dei danni[5]. Quest’ultimo consisteva di tutte le retribuzioni che il lavoratore avrebbe conseguito presso il datore di lavoro dal momento del licenziamento al momento della reintegra, a cui si aggiungeva il risarcimento per i danni di qualsiasi tipo creati al lavoratore per questo abuso di potere. Erano, insomma, garantiti non solo la stabilità del posto di lavoro grazie alla reintegrazione, ma anche un risarcimento dei danni completo. Per esempio, se il lavoratore aveva appena contratto un mutuo in base alla sicurezza data dal contratto a tempo indeterminato, il datore di lavoro avrebbe dovuto risarcire anche questo danno.

L’art.18 S.L. dava un senso al contratto a tempo indeterminato, era uno strumento contro il precariato, contro le ingiustizie, contro la disoccupazione. Poi, con il tempo, è stato oggetto di picconate da destra, da sinistra, dall’Unione Europea, da governi tecnici come il governo Monti, fino a cadere definitivamente con il Jobs Act[6]. In ultimo, è stato parzialmente rianimato dalla Corte costituzionale. Tuttavia, in questa sede il mio intento è mostrare l’assetto giuslavoristico per come ce l’ha lasciato il nostro amato Partito Democratico, al fine di condividere assieme la delusione recataci da questa – neanche troppo metaforica – coltellata alla schiena, e per comprendere perché le masse popolari scelgono di non esercitare il diritto di voto o di appoggiare l’offerta politica repressiva, antidemocratica e populista della destra.

Giusta causa e Giustificato motivo; probabilmente peccando di troppa puntigliosità – mi scuserete, deformazione da aspirante giurista  – vorrei spiegare cosa sia un licenziamento giustificato, ovvero cosa si intende per “giusta causa” e per “giustificato motivo”, in modo da avere un quadro generale del recesso dal rapporto di lavoro ed evidenziare quanto già scarsamente fosse garantito il posto di lavoro prima dell’intervento del magnanimo governo Renzi.

Nel parlare di Giustificato Motivo dobbiamo distinguere due fattispecie: il giustificato motivo Oggettivo e Soggettivo.

Parliamo di giustificato motivo Oggettivo ogniqualvolta il licenziamento si fonda su “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”[7]. Sono dunque legittimi i licenziamenti dovuti a una diversa organizzazione della struttura o all’opportunità di esternalizzare un’attività (appaltare, ecco il trabocchetto), oppure ancora, cosa più grave, a una scelta volta alla persecuzione del maggior profitto per il datore di lavoro.

Il giustificato motivo soggettivo, invece, si configura quando vi è un “notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore”[8]. Perché il recesso dal rapporto di lavoro sia legittimo, dunque, è necessario che il lavoratore versi in uno stato di colpa per il suo scarso rendimento, riconducibile ad una sua scarsa diligenza, prudenza o perizia.

Per Giusta Causa si intende “una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto” [9]. Per distinguere quest’ipotesi dal giustificato motivo soggettivo, la giurisprudenza e la dottrina hanno interpretato la norma nel senso di un “notevolissimo” inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro, ma anche come qualsiasi altra circostanza esterna al rapporto di lavoro, idonea a ledere il vincolo di fiducia tra le parti[10].

Ritengo di concludere da questo breve riepilogo che già dalla disciplina precedente all’avvento del Jobs act il datore di lavoro avesse anche troppa libertà di concludere il rapporto, persino quando questo fosse dovuto alla sola ingorda ricerca di un maggior profitto. La tutela del diritto del lavoro era già minima, occorreva davvero spingersi a tutelare i datori di lavoro anche quando licenziano ingiustificatamente? Vi chiedo: può un partito che si dice di sinistra realizzare delle riforme volte alla tutela esclusiva dei datori di lavoro, persino quando questi agiscono contra legem? Avrete capito a questo punto che la mia non è una domanda retorica. Non navighiamo di certo nel mare delle ipotesi: questo è ciò che il governo Renzi ha realizzato, e che il PD ha difeso e continua a difendere. A questo aggiungiamo l’aggravante che i destinatari di questa tutela sono le Grandi imprese (cioè, quelle che vantano più di 15 dipendenti per unità produttiva) e non solo le piccole imprese, dove il rapporto si consuma gomito a gomito. Parliamo di colossi multinazionali, come Eni, Enel, Amazon, ecc… imprese multimiliardarie che non dovrebbero essere tutelate con sfere di immunità, ma messe a ferro e fuoco dai lavoratori in quanto emblema dell’accentramento di capitale nelle mani di pochi padroni capitalisti, dello sfruttamento del lavoro e di territori altrui, e del profitto a qualsiasi costo, ambientale e umano.

 

Come è stata uccisa l’anima dell’art.18 S.L.?

In primis, il d.lgs.23/2015 ha previsto che la reintegrazione nel posto di lavoro a seguito di licenziamento illegittimo potesse realizzarsi solo in ipotesi limitatissime: licenziamento discriminatorio; licenziamento orale; insussistenza dell’inidoneità psicofisica; licenziamento della lavoratrice in stato di gravidanza o entro un anno dal matrimonio; licenziamento ritorsivo (che si configura quando il lavoratore viene licenziato per aver fatto valere i propri diritti); insussistenza del fatto materiale. Riguardo a quest’ultima ipotesi, vorrei sottolineare che prima del Jobs Act, a seguito della riforma Fornero, si parlava di una generica “insussistenza del fatto”. Nella piena, infame consapevolezza del legislatore, l’aggiunta del termine “materiale” ha impedito un’interpretazione estensiva di questa fattispecie, rendendo quasi impossibile una sua configurazione. Vi faccio un esempio per maggiore chiarezza: arrivate con un ritardo di 30 minuti per il crollo di un ponte e non potete in alcun modo arrivare in orario. Prima del Jobs Act, avreste avuto diritto alla reintegra per l’estraneità del fatto alla vostra sfera di competenza. Dopo il d.lgs. 23/2015, non dovreste materialmente essere in ritardo per poter essere reintegrati/e. Non importa se vi è crollata la casa addosso, non avrete comunque diritto al vostro posto di lavoro – avrete, in compenso, tutto il dovere di morire di fame.

Vorrei fare un altro appunto di non poco conto: non è facile dimostrare che il licenziamento sia avvenuto a causa di una discriminazione, nonostante i meccanismi presuntivi instaurati dalla giurisprudenza. E, se possibile, è ancora più difficile provare che si tratti di un licenziamento ritorsivo, perché in questo caso non esistono neanche presunzioni di cui potreste avvalervi.

Sono queste le ragioni per cui sostenevo che l’art.18 sta alla base dell’intero Statuto dei lavoratori. Se non si ha la sicurezza del proprio posto di lavoro, non si eserciteranno più i propri diritti sindacali. Il Jobs Act ha reso la reintegrazione un’eccezione, e carta straccia la maggiore conquista dei lavoratori dalla nascita della Costituzione.

È evidente il rimando alle politiche della flexsecurity provenienti dall’Unione Europea. Più lavoratori in uscita, più lavoratori in entrata! Semplice, no? Peccato che sappiamo fin troppo bene che il lavoro per tutti non c’è poiché nessuno vuole rinunciare a un centesimo di profitto. La flexsecurity è la precarizzazione che diventa regola, obiettivo politico e normativo, ed è inaccettabile una legittimazione dell’instabilità lavorativa da parte di un partito di sinistra. A nulla serve reclamare la buona fede del Jobs act, che avrebbe dovuto semplicemente scoraggiare i contratti flessibili e rendere più appetitoso il contratto a tempo indeterminato per i datori di lavoro. È un controsenso rendere flessibile anche l’unico contratto stabile millantando una lotta alla disoccupazione o alla precarizzazione. La sua illogicità è palese a chiunque viva oggi il mondo lavorativo. Se l’obiettivo fosse stato intervenire sui contratti flessibili, sarebbe stato allora il caso di sopprimerli o, tuttalpiù, di apportare maggiori garanzie per i lavoratori con i medesimi contratti. All’inverso, il governo Renzi ha reso il contratto a tempo indeterminato un contratto con recesso ad nutum [11], e ha anche liberalizzato il contratto a tempo determinato prevedendo che non avesse bisogno di cause giustificatrici per i primi tre anni. Ma i contratti flessibili sono un’altra storia e potete contare sul fatto che la racconteremo.

Se non vi ho ancora convinti, non vi preoccupate. Il viaggio prosegue ancora più mesto e incollerito.

Chiediamoci: cosa succede in tutti gli altri casi in cui il licenziamento è ingiustificato, ma non rientra nelle ipotesi di reintegrazione? Il lavoratore ha diritto ad un risarcimento dei danni.

Ci avete creduto? Non potevano mica prevedere un risarcimento globale, se no chi mai avrebbe licenziato senza motivo? Quindi, per aiutare il povero padrone miliardario, il governo Renzi ha deciso di prevedere in questi casi una mera indennità. Quest’ultima non vuole risarcire i danni creati al lavoratore, ma semplicemente fingere di porre un ostacolo alla tirannia del datore di lavoro. Infatti, il valore di quest’indennità non è legato a fattori inerenti al danno, come l’età o il carico familiare del lavoratore, ma si computa in base all’unico criterio dell’anzianità di servizio. Da un minimo di 2 a un massimo di 12 mensilità, il datore di lavoro sarà condannato a corrispondervi una somma pari a 2 mensilità per ogni anno di servizio. Avete lavorato 3 anni presso di lui? Bene, se – e, ripeto, se – vincerete la causa, avrete diritto a 6 mensilità. Vi sembrano tante? Anche al governo Renzi sono sembrate troppe. Quindi, ha introdotto un altro meccanismo di distruzione del diritto al lavoro: l’offerta di conciliazione. Nel momento in cui manifesterete la volontà di instaurare una causa contro il licenziamento, il datore di lavoro avrà il diritto di proporre quest’offerta, agevolata da esenzioni fiscali, che sarà pari alla metà della somma a cui avreste diritto nel remoto caso di vittoria del processo. Preferireste 3 mensilità subito o 6 mensilità tra 7/8 anni di spese processuali? Condizioni strutturali impongono a tanti di optare per il primo termine. Non è da biasimare chi accetta, lo è chi ha previsto una tutela tanto irrisoria del diritto al lavoro. La sinistra dovrebbe essere fatta dai lavoratori per i lavoratori. Non dai padroni per i padroni.

Eccovi ora dall’altra parte, e l’inferno alla fine è un po’ meglio di come ve l’ho descritto, perché sul Jobs Act è intervenuta la Corte costituzionale. Non c’è alcun merito della politica parlamentare. Neanche quelle cose inutili[12] del Movimento 5 Stelle sono riusciti a intervenire. Il focus della protezione dei diritti si è spostato ufficialmente dalle Camere alla Magistratura nelle sue varie forme. Quasi tutti gli aspetti dignitosi della disciplina lavoristica che ancora – e chissà per quanto – conserviamo sono il frutto del lavoro di giuristi che credono nella Costituzione. È evidente come il loro sforzo isolato non sia sufficiente, è necessaria una rappresentanza che combatta davvero per la salvaguardia dei lavoratori per tentare quantomeno di riequilibrare le dinamiche del mercato del lavoro.

In parte vi ho già parlato delle questioni del d.lgs. 23/2015 illegittime da un punto di vista costituzionale, preferisco dunque riportare direttamente alcune parole di questa lodevole (stavolta non ironicamente) sentenza[13]:

[…] Il «diritto al lavoro» e la «tutela» del lavoro «in tutte le sue forme ed applicazioni» (art. 35, primo comma, Cost.) comportano la garanzia dell’esercizio nei luoghi di lavoro di altri diritti fondamentali costituzionalmente garantiti. Il nesso che lega queste sfere di diritti della persona, quando si intenda procedere a licenziamenti, emerge nella già richiamata sentenza n. 45 del 1965, che fa riferimento ai «principi fondamentali di libertà sindacale, politica e religiosa», oltre che nella sentenza n. 63 del 1966, là dove si afferma che «il timore del recesso, cioè del licenziamento, spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia a una parte dei propri diritti». […]

[…]Alla luce di quanto si è sopra argomentato circa il fatto che l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte appena citata, prevede una tutela economica che non costituisce né un adeguato ristoro del danno prodotto nei vari casi, dal licenziamento, né un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente, risulta evidente che una siffatta tutela dell’interesse del lavoratore alla stabilità dell’occupazione non può ritenersi rispettosa degli artt. 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost., che tale interesse, appunto, proteggono. […]

Dunque, la disciplina del licenziamento ingiustificato nelle grandi imprese, a seguito della pronuncia di illegittimità della Consulta, è parzialmente cambiata. Le causali necessarie per la reintegrazione nel posto di lavoro, purtroppo, rimangono le stesse. Tuttavia, l’indennità che il datore di lavoro deve corrispondere a titolo di risarcimento dei danni non è più legata al solo criterio dell’anzianità di servizio, perché questo automatismo è contrario agli articoli 4 e 35 della Costituzione. Si rimette invece al giudice la determinazione dell’indennità entro i parametri previsti dal Decreto Dignità del M5S: da 6 a 36 mensilità. La scelta dell’entità indennitaria tiene conto di diversi parametri così da fungere da adeguato ristoro al danno subìto. In ogni caso, si tratta di un gravissimo passo indietro nella tutela del diritto al lavoro, se consideriamo che il risarcimento previsto dallo Statuto dei Lavoratori poteva ammontare a entità superiori alle 50 mensilità, oltre alla necessaria reintegrazione.

Vi chiedo, per l’ultima volta, un partito sedicente di sinistra, “paladino dell’interesse dei lavoratori”, proporrebbe mai una disciplina che si pone nettamente in contrasto con le disposizioni costituzionali di tutela del lavoro? Concludiamo che il PD si è delegittimato come rappresentante della sinistra. Non è un’alternativa valida, ed è proprio l’assenza di un punto di riferimento forte a piegare le masse popolari ai più beceri nazionalismi. È la paura che dilaga e ci inonda. La fragilità dell’oggi dovuta alla disoccupazione, al precariato, alle guerre, alla crisi ambientale, non ci deve atterrire e paralizzare, ma spingere a creare per noi stessi questa famosa alternativa. Capisco il senso di impotenza, ma abbiamo ancora una flebile voce: l’8 e il 9 giugno si terrà un referendum. Saremo chiamati a pronunciarci su cinque quesiti: uno di questi sarà proprio l’abrogazione del Jobs Act. Mi auguro che quanto avete letto possa esservi utile per sfruttare al meglio uno dei pochi spazi democratici che possiamo ancora – e, anche qui, chissà per quanto – rivendicare.

Zia Polly

 

Bibliografia e fonti

  • Carinci, R. Tamajo, P. Tosi, T. Treu, Diritto del lavoro. 1. Il diritto sindacale, 8° edizione, Utet Giuridica, Milano, 2018
  • Carinci, R. Tamajo, P. Tosi, T. Treu, Diritto del lavoro. 2. Il rapporto di lavoro subordinato, 10° edizione, Utet giuridica, Milano, 2019
  • Legge 20 maggio 1970, n. 300 – Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento. GU n.131 del 27-05-1970
  • Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23 – Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183. GU n.54 del 06-03-2015
  • 3 decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (“Decreto-dignità”) Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese. GU n.161 del 13-07-2018. Convertito con modificazioni dalla legge 9 agosto 2018, n. 96. GU n.186 del 11-08-2018.

 

[1] Dal dicembre 2013 al febbraio 2017

[2] Artt. 15 e 16 l.300/70; art. 13 l.907/77

[3] Art.7 l.300/70

[4] Art.27 l.300/70

[5] Art.18 l.300/70 “Reintegrazione nel posto di lavoro”: Ferma restando l’esperibilità delle procedure previste dall’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604 il giudice, con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell’articolo 2 della legge predetta o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro.

Il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno subito per il licenziamento di cui sia stata accertata la inefficacia o l’invalidità a norma del comma precedente. […]

[6] D’ora in poi, sineddoche per indicare gli artt. 1-9 d.lgs. 23/2015

[7] art.3 l.604/66

[8] art.3 l.604/66

[9] Art.2119 c.c.

[10] Santoro Passarelli

[11] Ad un semplice cenno della mano; A volontà

[12] Italianizzato dal dialetto siciliano “cos’enutile”: insignificante, vile, fannullone; appunto: inutile, non serve a niente.

[13] Corte Cost. italiana, sent. 194/2018

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ASSEMBLEA AREA SCETTICA – GIOVEDÌ 27 MARZO

FINALMENTE CI VEDIAMO: GIOVEDÌ 27 MARZO ALLE 16:00 IN AULA SEMINARI 2.

Racconteremo cosa è il Coordinamento Area Scettica e discuteremo insieme delle indicazioni nazionali per i programmi scolastici pubblicati dal governo, che sostiene posizioni sull’insegnamento e sullo scopo della storia inaccettabili, contro le quali dobbiamo mobilitarci in quanto studenti e studentesse, dottorand3, ricercator3 e docenti.

«Solo l’Occidente conosce la storia»
Abbiamo letto queste parole molte volte in questi giorni, increduli sulla viltà che ci vuole non solo per sostenerle, ma persino per scriverle, nero su bianco, e farne l’introduzione alle direttive per l’insegnamento della storia nelle linee guida per l’insegnamento del 2025. Una sequela di assurdità, fortunatamente lontane da quello che abbiamo imparato nelle aule di questa università e che non siamo disposti a ritrattare. Non possiamo pensare che chi di noi lavorerà nelle scuole sarà obbligato a insegnare una storiografia nazionalistica e reazionaria. Non accettiamo che il valore critico e trasformativo del nostro mestiere sia distrutto con un colpo di spugna.

«Gli altri le hanno queste cose?»
Per il ministro Valditara e per Galli della Loggia è chiaro come il sole il primato della tradizione occidentale sulle altre, le quali infatti non trovano minimo spazio nei programmi ministeriali. Una presunta superiorità europea compare, non a caso, anche nel discorso di Vecchioni nella piazza blu e gialla di questo sabato 15 marzo: Socrate, Manzoni e Shakespeare non sono ingenui portavoci di una cultura comune europea, ma diventano ciò che, in virtù di un valore intrinsecamente occidentale, giustifica la nostra elevazione a continente superiore agli altri. Niente di diverso dal solito e criminale paradigma coloniale, che adesso rischia di diventare il perno orgoglioso della nostra identità europea e italiana.

Almeno una cosa positiva c’è nelle indicazioni scolastiche di Valditara. Sono “materiali per il dibattito pubblico”, e noi lo chiamiamo giovedì 27 marzo nella nostra sede. Ci vediamo in aula Seminari 2 di San Giovanni in Monte.

 

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Posizionamento manifestazione 15 marzo

Il 15 marzo 2025 a Roma, città eterna, si sono svolte due manifestazioni: l’una in favore della Terza guerra mondiale e l’altra contro la Terza guerra mondiale. Della prima, indetta da Michele Serra, frequentata da Carlo Calenda, Elly Schlein, Nicola Fratoianni, Maria Elena Boschi, e poi Luciana Litizzetto, Claudio Bisio, Fabio Fazio, eccetera, non ci preme parlarne. Sono incommentabili e non meritano alcun commento. Basti pensare che hanno deciso di riunirsi a Roma per festeggiare uno dei più grandi crimini sociali mai compiuti dai tempi del draghiano Whatever it takes: 800 miliardi da destinare alla guerra, e non alla pace, non alle scuole, non al lavoro, non alla transizione energetica, non all’università, alla sanità, all’istruzione. Soldi chiesti e celebrati per LeonardoSPA. Ci sembra così assurdo, che non vale la pena perdere tempo a discuterne.

Vogliamo raccontare piuttosto che c’è un’altra Italia. Che, mentre l’analfabetismo borghese festeggiava uno dei più colossali investimenti nel mercato bellico della Storia dell’Unione Europea, altrettante migliaia di persone sono scese in piazza: lavoratori, Sindacati di base, organizzazioni studentesche, parti del movimento hanno attraversato Roma per gridare un secco NO alle politiche del riarmo.

Dopo l’assemblea nazionale di Potere al Popolo!, il corteo svoltosi a qualche isolato dal raduno piddiano della borghesia radical chic italiana con l’elmetto ha dato voce a quella parte del paese che non vuole la guerra e che non vuole che neanche un euro venga destinato alle multinazionali delle armi. Questa parte del paese cresce sempre di più e, ad oggi, corrisponde al 39% dei cittadini, secondo un sondaggio Ipsos presentato dal Corriere della Sera. È una buona notizia. Rilanciamo per questo la necessità di organizzare una manifestazione nazionale contro la guerra e contro un’Unione Europea produttrice di morte, genocidio e devastazione.

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