Ideologia e conflitto tra Descartes, Hobbes e Spinoza
“Ora non ammetto” scrive René Descartes nelle Meditazioni metafisiche “se non quanto sia vero necessariamente: sono dunque, precisamente, soltanto una cosa che pensa, e cioè una mente, o un animo, o un intelletto, o una ragione”[1].
La cultura occidentale si è sviluppata dal tempo della Grecia antica su un’opposizione tra noi e gli altri, che trovava il proprio distinguo nel logos: una ragione di cui solo noi eravamo detentori e di cui gli altri erano privi. Ma chi siamo noi? E chi sono gli altri? La cosa interessante è che queste domande trovano risposte variabili nella storia, seppur siano rintracciabili delle costanti. Gli altri come esseri irrazionali possono essere gli stranieri, le donne, gli animali non umani, i folli, i poveri.
Ciò che prescinde dalla distinzione per categorie è però che queste siano create ad hoc per giustificare l’esercizio di un dominio, ed è un dominio che passa attraverso una auto-legittimazione ideologica di principi di parte che vengono spacciati per universali in virtù della loro presunta razionalità. Ma che rapporto c’è tra ciò che si dice ragione e ciò che non lo è? E cosa significa fare i conti con il fatto che un presunto essere razionale, quale l’umano è, debba vivere la propria esistenza in balia di pulsioni che non seguono i principi stabili e ordinati della logica, vale a dire in un corpo? E con il fatto che la suddetta ragione non sia un principio che i subalterni seguono spontaneamente?
E, ancora, che riflesso ha sul piano individuale e politico la scelta di ergere la ragione a paradigma per stabilire un regime di verità? Ciò che segue è un abbozzato tentativo di fornire, attraverso tre filosofi protagonisti della modernità, prima un quadro che rispecchia il nostro mondo, e poi un quadro alternativo che è stato trascurato perché non ideologizzante. Il primo dotato di un regime di verità rigido al punto da causare una caduta delle verità statuali in favore di un tetro there is no alternative, con cui la verità come entità conoscibile si eclissa perdendo la sua consistenza (il che non significa che non possa rimanere dietro le quinte operando ideologicamente). Il secondo, che non ha mai preteso di dare alcuna consistenza alla verità come qualcosa di conoscibile una volta per tutte.
Partendo dalle concezioni morali e antropologiche di René Descartes, Thomas Hobbes e Baruch Spinoza, è possibile avventurarsi negli arcani dell’ideologia indagando le giustificazioni su cui si sono costruiti i nostri rapporti materiali.
Con l’inizio della modernità e subendo gli influssi della rivoluzione scientifica, la filosofia di René Descartes è il paradigma che si instaura come base di sviluppo della razionalità e dell’antropologia liberale.
Cartesianamente, la ragione umana ovvero il cogito, che è esperienza intellettuale e al tempo stesso esistenziale, si concepisce di per sé, come principio immateriale. Il cogito cartesiano, a differenza della teoria della conoscenza medievale scolastica, non si adegua al mondo esterno ma adatta la realtà naturale alle idee della mente, rendendola indipendente come principio d’ordine della conoscenza dei corpi naturali. La realtà esterna non è più qualcosa di naturale ma diviene qualcosa di costruito artificialmente dall’intelletto umano, che riordina i corpi esterni secondo leggi meccaniche che vi proietta. In questo senso, la matematica è il modello paradigmatico, che costruisce rapporti e proporzioni che l’umano applica all’indagine della realtà naturale.
L’essere degli oggetti non è più una sostanza astratta a cui i corpi nella loro materialità si conformano (come avveniva per Aristotele, per il quale esisteva ad esempio l’individuo concreto e particolare la cui essenza era di essere un individuo umano astratto), non è qualcosa di fisso e stabile che l’umano studia a distanza ma richiede intervento attivo, lavoro umano. La frattura che troverà il suo apice sul finire del Settecento nella rivoluzione copernicana di Kant si apre qui: non esiste più una realtà esterna, esiste solo la mente umana che la ordina secondo le proprie strutture.
L’individuo umano, che si identifica con la propria mente, si scopre autonomo dal mondo, dalla natura esterna. Trova la propria ragion d’essere nell’atto del pensiero, che è fonte di ogni azione. Tutto è ricondotto alla ragione, mentre ogni corpo, tanto quello umano quanto qualsiasi oggetto esterno, segue solo leggi meccaniche.
L’azione della mente è quindi assolta dalla relazione col corpo, divenendo esperienza pura che si risolve solipsisticamente in sé stessa. L’anima e il corpo divengono qualcosa di distinto secondo un modello che è sì dualistico ma anche gerarchico. Quando Descartes scrive il suo Discorso del Metodo, l’obiettivo esplicito è quello di costruire una scienza che stia sotto il comando dell’utile. Il modello a cui si ispira sono le arti meccaniche, il sapere pratico degli artigiani: un mondo dove regna l’ordine e che rappresenta la capacità umana di costruire una presa di modifica e controllo sul mondo mediante la tecnica.
La natura retrocede, l’umano si emancipa da essa e rompe qualsiasi rapporto di relazione e unità che vi poteva instaurare. I corpi vanno studiati, ordinati come fossero macchine, ed è l’intelletto ad occuparsene.
Ma c’è qualcosa che è libero dalle leggi meccaniche ed è l’identità personale, che si scopre come volontà libera. L’io cartesiano è un io che sa di esistere perché sa di poter scegliere, si sente capace di guidare le proprie azioni attraverso la volontà della ragione. La libertà è affermazione della volontà, è illuministicamente consapevolezza che la ragione umana è qualcosa che può e, anzi, deve ergersi al di sopra delle possibilità naturali.
Scrive Silvia Federici in Calibano e la Strega[2] che intorno alla metà del XVI secolo nelle aree dell’Europa occidentale più toccate dalla riforma protestante e dall’ascesa economica della borghesia mercantile vediamo emergere in ogni articolazione della vita sociale una nuova concezione della persona[3].
Non è certo Descartes la causa di tutte le conseguenze che analizzeremo in quanto derivanti da questa antropologia, ma è il primo a esplicitare nella propria trattazione filosofica come l’unione di mente e corpo sia qualcosa di problematico e conflittuale, ed è a questo punto che si apre quella frattura che sarà affrontata nella filosofia morale dell’epoca, per cui si vedrà quello scontro che possiamo definire, con una eco letteraria che fa sorridere, tra ragione e sentimento.
In questo nuovo paradigma antropologico, la persona diventa un terreno su cui si profila una battaglia: il conflitto è vissuto tutto internamente, ed è uno scontro per il dominio che la ragione deve esercitare sulle passioni. La situazione in cui ci troviamo è la seguente: da un lato i vizi del corpo, dall’altra la virtù della ragione che deve contenere e disciplinare i primi.
Le conseguenze di questa filosofia non rimangono vincolate alla sfera del pensiero ma trovano espressione materiale e storica, oltre che nella rivoluzione scientifica, nell’illuminismo settecentesco e nel tentativo esplicito di educazione e disciplinamento finalizzato alla formazione di un nuovo tipo di borghesia.
Come rileva l’analisi di Max Weber, per la nuova borghesia in ascesa il guadagno è lo scopo della vita, e in favore di questo i piaceri naturali vanno abbandonati. Il capitalismo comanda superamento della natura: i cicli naturali non possono più regolare la quotidianità degli individui, e in nome della produttività il corpo è sottomesso a ritmi di lavoro che lo mortificano.
L’immagine che Marx restituisce nella sua produzione filosofico-politica, per cui il lavoro è libero nel senso che è merce di cui il lavoratore con il proprio corpo dispone e a cui si riferisce per scambiarla sul mercato in cambio di un salario, è quella di un lavoratore che è già stato plasmato dalla disciplina del lavoro capitalistica[4].
Riprendendo nuovamente il testo di Federici, ciò che viene evidenziato è che questo disciplinamento ha richiesto un lunghissimo processo che non si è innescato però senza resistenza. La classe dominante ha progressivamente aumentato le pene delle trasgressioni alle leggi, instaurando un regime di terrore finalizzato a legare il proletariato al lavoro come già i servi erano stati legati alla terra[5]. A questa altezza storica, in Francia e in Inghilterra vengono proibiti i giochi d’azzardo, chiuse le taverne, penalizzata la nudità e condannate le forme improduttive di sessualità e socialità.
La classe dominante instaura questo regime di terrore poiché si mostra intimorita per due aspetti fondamentali: il primo riguarda il concreto timore che la presenza di folle di vagabondi improduttivi e pericolosi incuteva alla nuova borghesia mentre camminava per le strade, e il secondo riguarda la costituzione del nuovo Stato che, come Thomas Hobbes sapeva bene, era minacciata dalla possibilità di tumulti e rivolte.
Ma se il corpo umano da un lato incuteva ribrezzo e timore, dall’altro suscitava nella borghesia un desiderio di impadronirsi della merce particolare che questo incarnava: la forza lavoro.
La filosofia hobbesiana, oltre a delineare quelli che sono i fondamenti della politica moderna, è una filosofia empirista: il filosofo inglese radicalizza le istanze cartesiane ponendo anche la mente e la sua libera volontà in un meccanicismo corporeo che trasforma la totalità dell’essere umano in una grande macchina da studiare e controllare nelle sue possibilità tanto quanto nei suoi limiti. È un individuo che nella sua corporeità risulta pericoloso e deve essere necessariamente sottomesso all’autorità statale perché non si distrugga vicendevolmente con gli altri.
Tormentato da cause esterne che lo corrompono e guidano, il corpo umano è tormentato anche dal nuovo spirito borghese che su di esso calcola, classifica, distingue per razionalizzare le facoltà che gli appartengono e massimizzare la sua utilità sociale. La comprensione è finalizzata al controllo, del corpo degli individui tanto quanto del corpo sociale.
Possiamo dire che il corpo umano è associabile nei suoi meccanismi, quando non controllati, a quella folla di individui che nella sua sregolatezza è caratterizzata da volontà molteplici e non ordinate, incapaci di unità e denominati da Thomas Hobbes moltitudine. Hobbes, e con lui il nuovo ordine della politica moderna liberale, si preoccupa di fornire un’immagine che possa sostituire questa folla disordinata, e vi oppone perciò l’idea di popolo come unità rappresentativa sovrana: una massa di individui che in maniera compatta è soggetto dell’azione politica nella misura in cui collettivamente cede il proprio diritto e potere ad un’entità sovrana che se ne fa carico.
Così si annullano le individualità e gli orientamenti divergenti di ciascun individuo, creando quell’uguaglianza formale di fronte allo Stato propria del mondo liberale per cui ogni tratto personale viene relegato a privatezza divenendo politicamente indifferente.
Ma per essere indifferente dal punto di vista politico, il popolo deve foucaultianamente interiorizzare la disciplina che il potere promuove per auto-legittimarsi, e l’operazione di ingegneria sociale che la classe dominante attua per raggiungere questo scopo deve passare per il terrore di un controllo feroce sul corpo.
Se il corpo è qualcosa di bestiale e accessorio rispetto alla mente, da un lato è legittimata l’idea che questo possa essere sottomesso al potere sovrano dello Stato e, dall’altro, va da sé che, per proteggersi da quest’ultimo e dalle sue punizioni, sia scaricato sul singolo individuo il compito di contenerne i desideri e le pulsioni.
Come già detto, però, il corpo letteralmente incarna altresì quella merce preziosa che è la forza-lavoro. L’analisi di Federici si concentra sulla tesi che, affinché la concezione del corpo come macchina si affermasse come modello, è stata necessaria la scomparsa di una concezione magica che lo vedeva, al contrario, dotato di poteri sovrannaturali che si scontravano con le logiche razionali che si stavano affermando.
È qui che il potere costituito si organizza al fine di eliminare quell’insieme di pratiche e credenze sociali secondo cui era contemplata la possibilità che, per il perseguimento di determinati fini, si potessero seguire scorciatoie che deviavano dall’attività lavorativa e che predicavano l’esistenza di poteri altri e quindi potenzialmente sovversivi.
È nella caccia alle streghe compiuta in Europa nel XVI-XVII secolo che, sul corpo di milioni di donne attraverso l’utilizzo di pratiche genocidarie, viene definitivamente spazzata via dal mondo occidentale la possibilità per la popolazione povera di credere nella realizzazione dei propri desideri e nella possibilità di legittimarli attraverso l’azione organizzata[6].
Con la “magia” veniva meno il principio della responsabilità individuale, e ciò minava l’obbedienza civile al punto che persino Hobbes arriva a parlare esplicitamente di stregoneria per condannarla.
Torture, roghi, dissezioni anatomiche post-mortem, dice ancora Federici[7], diventano i laboratori in cui si sedimenta molta disciplina sociale e si acquisisce molta conoscenza sul corpo umano.
Il processo che viene promosso e che rende possibile la sovranità voluta da Thomas Hobbes è quello di una standardizzazione dell’individuo, che viene concepito nella sua astrattezza e de-caratterizzazione.
L’individuo cartesiano controlla il proprio comportamento tramite la ragione, si slega dalla natura e dalle sue contingenze così come si isola dagli altri individui. I legami comunitari si rompono e l’umano si concepisce nella sua autonomia isolata come nel De Cive di Thomas Hobbes: “uomini come se fossero venuti su tutti all’improvviso, a guisa di funghi, dalla terra, e già adulti, senza alcun obbligo reciproco”[8]. Ma privati della loro individualità singolare, che persisteva invece nella moltitudine.
È la solitudine di un individuo che si concepisce come sovrano e al contempo come parte di una comunità illusoria che è quella dello Stato. Domina sé come domina la natura, nonostante sia materialmente privo di potere sociale reale[9].
Congedo il testo di Federici con la seguente citazione: “il corpo umano, e non la macchina a vapore e nemmeno l’orologio, è stata la prima macchina che il capitalismo ha sviluppato”.
Il conflitto sociale cade laddove questo viene interiorizzato dalla persona e dall’obbligo che sente di doversi conformare nel comportamento alla sfera sociale della cittadinanza che abita, perché se non c’è legislazione interiore il pericolo della resistenza e della rivolta contro il potere è sempre dietro l’angolo.
La soggettività borghese che l’illuminismo (francese in particolare) costruisce si fonda su un io sradicato che deve trovare sé stesso nel mondo, costruendosi da solo per trovare il suo posto. L’Ottocento, grande soglia della modernità, è il secolo del romanzo di formazione, genere borghese per eccellenza che trova le sue radici nella letteratura del XI secolo, momento in cui avviene il primo distacco dall’entità ordinatrice sovrannaturale che è dio all’interno della filosofia di Giovanni Duns Scoto e Guglielmo da Ockam, e in cui la persona ha la libertà di divenire canone a sé stessa discostandosi dalla provvidenza divina.
La filosofia come la letteratura, e con esse la borghesia ottocentesca che si occupa di scrivere questa pagina di storia, mette a frutto questa tradizione adattandola al proprio tempo e alle proprie circostanze: l’individuo che è canone dell’epoca, ovvero un maschio bianco e benestante in un contesto in cui la differenziazione sociale per ceti è stata abolita, affronta l’impresa di creare individualmente la propria esistenza.
In una tensione tra contingenza e ordine, ogni protagonista del Bildungsroman[10] affronta un cammino travagliato e colmo di difficoltà, fino a che, superando gli incidenti di percorso, trova il suo posto nella società borghese, sanato dall’illusione di poterne rimanere al di fuori e pronto ad essere un bravo cittadino.
I presupposti sono mantra che già conosciamo: responsabilità individuale, uguaglianza formale che non tiene conto delle condizioni materiali di partenza, successo premiato da un merito e un talento astratti, e se qualcuno non ce la fa la colpa è sua perché l’impegno non era sufficiente. Lo Stato può così governare un individuo mansueto che è pronto a farsi governare.
Il passaggio per cui questo possesso di sé, da prerogativa della borghesia che era, subisce una democratizzazione estendendosi finanche al proletariato è lento e violento, quandanche utopico se lo consideriamo realisticamente.
Il proletariato rimane, agli occhi della classe dominante, un corpo bestiale e indisciplinato, non razionale, praticamente un’altra razza. O meglio, un’altra classe. O meglio, un altro ceto, come lo era il terzo stato per la nobiltà.
È ironico quanto molte di quelle misure di comportamento che ruotano attorno al principio del decoro sociale vengano prese in prestito dall’antico regime e dalla nobiltà, universalizzando convenzioni verso le quali ci si diceva in discontinuità. Se prima la nobiltà trovava la propria ragion d’essere proprio nel distacco da tutto ciò che era altro, ora l’esser altro è qualcosa di non più ammissibile, o almeno non è più ammissibile che l’altro sia visibile nello spazio sociale della cittadinanza.
Così, mentre la borghesia puritana lotta contro il proprio corpo, producendo e riproducendo i propri standard di comportamento e disciplina, la moltitudine proletaria viene ghettizzata rispetto al centro del potere sociale, dal centro città alle periferie, nei quartieri operai.
Mentre femministe borghesi come Mary Wallstonecraft lamentano la disciplina a cui sono costrette dai mariti e dalla società, che le costringono ad essere localizzate nella loro socializzazione e a comportarsi come galline, lottando per il diritto al lavoro, femministe operaie come Emma Goldman prendono voce dalla fabbrica, mostrando che la disciplina borghese con il suo privilegio economico non è qualcosa che riguarda le donne che sono sempre state costrette a lavorare e che sul proprio corpo patiscono tanto la schiavitù a cui le costringe la sessuazione dell’essere donne quanto la schiavitù della necessità che le espone allo sfruttamento del salario.
Attraverso il ricatto del lavoro, questa folla animale che è il proletariato è colonizzata, sfruttata, violentata e ridotta alla fame ad opera di chi detiene potere sociale nelle proprie tasche.
Ma la democrazia liberale governata dallo Stato crolla su sé stessa e sulla disuguaglianza sociale di cui necessita per essere tale, perché un proletariato che viva materialmente ogni giorno sulla propria pelle la violenza del sistema, all’idea di uguaglianza che questa democrazia predica non può credere nemmeno se vuole.
Quando il malcontento e le rivolte prenderanno piede, la classe dominante accetterà finanche di cedere il suo potere legislativo pur di continuare a vedere tutelati i propri interessi, ovvero la sua proprietà, portando lo Stato ad accentrarsi così che la violenza nazionalista possa schiacciare i movimenti di resistenza sociale.
Il conflitto economico inizierà a giocarsi su un campo che supererà i confini, e il proletariato continuerà a lottare per la sopravvivenza con delle armi in mano in un’enorme e reciproca autodistruzione transnazionale.
Il liberalismo troverà la sua crisi in un problema che già Spinoza aveva teorizzato nel Seicento proprio in opposizione a Hobbes: gli individui, anche una volta sottoposti ad un potere sovrano, rimangono pur sempre umani, e in quanto tali hanno nella propria natura la resistenza.
La democrazia liberale dovrà trovarsi a superare la sua crisi, che questo assioma apre e che non era stato considerato a sufficienza, andando a chiudere quegli spazi di manovra che erano stati lasciati aperti alla possibilità che l’azione collettiva prendesse piede.
In questo processo, avviato dai teorici del neoliberalismo, il corpo umano come quello politico dovrà essere reso, da centrale che era rimasto nel tentativo di disciplinarlo, qualcosa di politicamente indifferente. La ragione come verità sparirà dal quadro del possibile in quanto troppo pericolosa perché identificabile, lasciandoci una cittadinanza desertificata e atomizzata di verità provvisorie, sfuggevoli e dimenticabili.
C’è un filosofo che la sinistra radicale odierna tende a non considerare tra i propri riferimenti politici, pur avendo costruito una trattazione filosofica in aperta polemica con coloro che sono stati iniziatori della tradizione politica liberale di cui oggi siamo noi eredi, vale a dire Descartes e Hobbes.
Eppure, Baruch Spinoza vive in contemporanea ad entrambi, e con entrambi si confronta apertamente, fornendo un’architettura concettuale politica che ribalta i paradigmi che andavano affermandosi e che risignifica, sull’impronta del realismo politico di Niccolò Machiavelli, una serie di termini e concezioni che rappresentano una risorsa significativa a cui attingere per l’azione politica[11].
La filosofia spinoziana si slega dalla concezione cartesiana secondo cui esiste un dio che opera come primo motore immobile nella natura, da cui quindi i corpi naturali sono posti a grande distanza: il presupposto ontologico della realtà è per Spinoza la nozione di causa sui, che vede la natura concepita come dio, una natura causa di sé stessa che non dipende da null’altro e che si manifesta nel reale in maniera immanente e panteistica.
Questo ente infinito denominato sostanza si fa oggetto esprimendo sé stesso in tutti gli ordini della realtà, e ciò significa che, a differenza di quanto avveniva nelle concezioni cartesiane e hobbesiane, gli enti naturali non vivono in un’individualità atomistica dipendendo nel loro agire da leggi meccaniche che li rendono indipendenti gli uni dagli altri ma, al contrario, ogni creatura naturale è parte di questa sostanza in movimento, in una relazione reciproca inevitabile e necessaria. Da ciò deriva che l’umano stesso, così come ogni altra creatura esistente, è attributo di questa sostanza infinita, di un dio che non è distante ma assolutamente prossimo.
Di nuovo l’umano è considerato nella sua composizione di mente e corpo, pensiero ed estensione, che però non possono essere colti nella loro separatezza e chiusura reciproca, in quanto entrambi espressione di una stessa realtà che dispiega sé stessa secondo due modalità diverse. Tuttavia, non per questa ragione l’individuo vive l’interazione tra le sue parti in maniera pacifica.
Essendo il corpo la situazione con cui l’umano si approccia alla realtà in cui vive, è attraverso questo che la conosce e giudica; e da ciò deriva che qualsiasi idea raggiunga la mente è prima stata modificata passando attraverso il corpo e le sue passioni secondo impulsi che, di per sé, non sono ordinati.
Come nell’antropologia hobbesiana, l’essere umano spinoziano è un ente mosso dal desiderio, un ente passionale che esprime il proprio bisogno auto-conservativo attraverso il corpo, e l’espressione di questo conatus si configura in una tensione tra l’individuo e le cause esterne che lo determinano, e con cui può entrare in un rapporto attivo o passivo.
Il desiderio è il fattore che orienta il giudizio umano sugli oggetti esterni, ragion per cui ciò che la mente pensa di volere o non volere ha andamento ambivalente e porta ad una condizione di instabilità e fluttuazione nel giudizio che porta a una circostanza di potenziale inquietudine e turbamento.
L’essere umano ha quindi restituita un’immagine distorta della natura, e si approccia ad essa ricercando il proprio utile e proiettando poi sugli oggetti delle finalità che dipendono in realtà dal proprio giudizio relativo.
Prendere consapevolezza del meccanismo del desiderio è quindi essenziale per individuare una visione antropocentrica e finalistica del mondo, frutto di una proiezione immaginativa che ci impedisce di concepire gli altri esseri naturali conferendo loro la dignità, l’autonomia e il rispetto che dovrebbero avere in quanto manifestazione della natura di cui noi stessi siamo parte.
I termini del gioco personale tanto quanto del gioco politico cambiano: la mente umana si trova su un’asse che oscilla tra attività e passività, in una costante trasformazione che è data dall’incontro con altri enti naturali, in una relazione tra potenze che si scontrano per affermarsi.
Ogni ente naturale è un ente che vive e si concepisce necessariamente nella relazione con gli altri enti, esprimendo la propria potenza in una spinta auto-conservativa interna che si esprime nel contatto con l’esterno. Conoscere e operare nel reale significa comprenderne il sistema di rapporti che fanno dell’oggetto che ne fa parte un ente relazionale, e quindi conflittuale.
Definire gli enti, umani e non, come desiderio significa definirli all’interno della tensione in cui vivono: il conflitto viene radicalizzato e soprattutto risignificato, esteso a motore di una realtà che diviene viva e in perenne trasformazione.
Ogni creatura esiste resistendo, in un incontro-scontro che diviene necessario per lo sviluppo della propria libertà. Il conflitto quindi non dev’essere rifuggito, ma gestito e dislocato al fine di superare gli effetti potenzialmente distruttivi che ne potrebbero derivare, ed è su questa capacità di gestione che si esprimono la potenza e la resistenza tanto sul piano individuale quanto sul piano politico.
Per quanto concerne l’individuo, la gestione del conflitto si basa su uno sforzo di superare l’andamento ambivalente causato dalla mente che riflette in maniera passiva ciò che accade nel corpo, e ciò non significa attuare un silenziamento delle passioni ad opera della ragione ma, al contrario, compiere uno sforzo attivo di comprensione del carattere immaginifico delle rappresentazioni che queste forniscono stabilendo un rapporto di ascolto, di relazione aperta.
Il difetto non è attribuibile al corpo coi suoi desideri, ma alla mancanza di consapevolezza del fatto che questi esprimono la medesima natura infinita e necessaria, seppur in modi diversi.
Raggiungere uno stato di serenità sul piano individuale prevede quindi non un biasimo e una repressione del desiderio, bensì una sua positiva accettazione e accoglienza ad opera della mente, la quale ha poi il compito di resistere ai potenziali effetti distruttivi a cui potrebbe condurre, reindirizzandolo.
L’individuo libero è prima di tutto un ente capace di organizzare il suo equilibrio interiore: raggiungere la libertà e la saggezza individuale è già risultato politico che si raggiunge attraverso un principio di resistenza, dirigendo al meglio i propri schieramenti interni.
Inoltre, superare l’immagine falsata della natura esterna che il nostro corpo con l’immaginazione ci restituisce, significa scoprire che le nostre idee non sono qualcosa di autonomo, che rimandano ad un’entità chiusa come quella del cogito cartesiano, ma provengono direttamente dalla natura stessa di cui siamo parte, che pensa e produce idee attraverso di noi.
Da ciò deriva che la responsabilità di un agire corretto, di uno stato mentale sereno passa attraverso la presa di consapevolezza della nostra connessione necessaria con la natura tutta. La nostra esistenza finita è al tempo stesso necessaria: avere una concezione adeguata della realtà significa riconoscere quell’unità tra noi e il tutto che la filosofia cartesiana aveva negato. Conoscere non significa essere dotati di una ragione che domina e controlla la natura in cui viviamo, bensì riconoscere la positiva affermazione di sé e di tutto ciò che esiste in essa: che tutto ciò che esiste va riconosciuto nella propria esistenza.
Crolla l’idea che possa sussistere qualsiasi orizzonte morale-politico trascendente le differenze intra-individuali: viene sconfessato l’universalismo che il liberalismo promuove, poiché gli individui, trovandosi in situazioni e posizioni differenti della società, provano sempre e necessariamente la pulsione che deriva dalla spinta conservativa di far valere i propri interessi e il proprio utile.
Prepararsi ad affrontare la vita come singoli significa prepararsi ad affrontare la vita come società, il piano della vita individuale si intreccia radicalmente al piano della vita politica negando l’idea hobbesiana di una sfera che al di sotto dello Stato rimane spoliticizzata.
Pensare che individui diversi con desideri diversi possano naturalmente accordarsi intorno a valori e giudizi è un’illusione mistificatoria, perché nella diversità materiale della vita non può nascere alcun accordo spontaneo. Il paradigma hobbesiano, che voleva eludere il movimento attivo attraverso il contratto sociale rendendo la realtà stabile e sicura e relegando il conflitto ad una condizione presente soltanto allo stato di natura, viene ribaltato nell’affermazione di una politica e di una cittadinanza in cui il conflitto non potrà mai arrestarsi.
Se Thomas Hobbes sosteneva che per gli individui allo stato di natura il diritto era qualcosa di coincidente con il potere di fare ciò che si desidera, compito dello Stato era proprio quello di bloccare questa potenza in favore della sicurezza generale. Dalla concezione di Spinoza evinciamo al contrario che, proprio perché conflitto e resistenza fanno parte della natura in ogni creatura vivente, inclusa quella umana, lo stato della società civile non può e non potrà mai essere uno stato pacificato.
È illusorio pensare che la sovranità possa essere trasferita nelle mani di un sovrano in quanto è impossibile che gli individui neghino la propria natura, rinunciando alla propria azione: il trasferimento della sovranità non può essere assoluto in quanto naturalmente e fisicamente limitato, perché nessuna creatura può privarsi della facoltà di difendersi.
In questo quadro, la vita diviene qualcosa di più della mera sopravvivenza biologica e la concordia non è più l’unico e primario valore di una comunità politica: l’azione del potere deve sottomettersi all’interesse degli individui e alla loro spinta di rivendicazione e salvaguardia della propria libertà che passa attraverso il dispiegamento del conflitto, pena la resistenza attiva da parte della comunità.
Quindi, lo Stato non può e non deve lasciare gli individui alla loro privatezza, in quanto il conflitto si innesca necessariamente e direttamente col potere, che non può mantenersi senza un consenso attivo della cittadinanza.
Come non esiste nell’individuo la possibilità di una ragione che regni senza scontrarsi con gli affetti del corpo, così non esiste potere sociale e politico che non si si interfacci con il conflitto, la cui assenza denota solo una realtà che ha perso il contatto con la dimensione della libertà.
La vita del corpo del singolo quanto del corpo sociale si gioca, così, nella dimensione dell’attuazione politica. La libertà diviene qualcosa che si conquista continuamente a partire dallo spazio ordinario della vita: la necessità della politica si basa non sul superamento della natura umana come dinamica e conflittuale ma sulla necessità di riconoscere e gestire attivamente questo conflitto.
L’individuo in società rimane pur sempre umano, e sempre è e sarà attraversato dagli affetti del desiderio, ragion per cui nessuna riflessione politica può essere sviluppata senza che quest’ultimo ne sia al centro. Accettare che l’azione umana si dà in termini mobili, di mutamento costante, significa che la politica si gioca su azioni e valori che devono riconfermarsi di continuo passando la prova dell’esperienza, che tutto si costruisce e sviluppa in una dialettica tra insoddisfazione e desiderio.
La pace viene risignificata e non indica più la semplice assenza di una guerra aperta, ma è una virtù che ha origine dall’affermazione di una forza comune:
una cittadinanza i cui sudditi non prendono le armi per paura, è da dirsi senza guerra piuttosto che in pace. La pace non è la privazione della guerra, ma una virtù che scaturisce dalla forza d’animo; l’obbedienza infatti […] è la costante volontà di eseguire ciò che va fatto per comune decisione della cittadinanza. Ma una cittadinanza la cui pace dipende dall’inerzia dei sudditi, che si lasciano condurre come pecore per imparare soltanto a servire, piuttosto che una cittadinanza potrà chiamarsi deserto.[12]
L’obbedienza hobbesiana intesa come sottomissione timorosa alla legge perde completamente valore e diviene qualcosa di, anzi, biasimevole.
Pace corrisponde ora ad una vigilanza attiva di cittadini che, spinti dal desiderio ad unirsi in società, stabiliscono attraverso confronto e dialogo sempre aperti obiettivi comuni da perseguire e organizzano la propria resistenza istituendo leggi e ordini allo scopo di rispondere e rendere ragione delle forze contrarie che abitano la cittadinanza.
La soggezione alla sovranità mediante il timore è qualcosa che può sussistere nel momento in cui ci fosse un’ideologia dominante che si proponesse come universale mascherando e occultando un interesse di parte, ma ciò creerebbe solo una cittadinanza vuota la cui potenza sarebbe impossibilitata ad esprimersi.
Una libertà e un bene comune che non siano ideologici si sviluppano tramite lo scontro: tramite confronto, discussione, tentativi per giungere alle condizioni migliori possibili. Il timore non corregge o muove gli individui, ma è sulla speranza attiva del vantaggio individuale e poi collettivo che maturano i migliori effetti.
Se i singoli hanno una volontà incostante, è proprio dall’unione dei molti che si raggiunge una razionalità sufficiente alla gestione di una cittadinanza. Ed è qui che il paradigma hobbesiano della sovranità subisce il ribaltamento più netto: la sovranità non è qualcosa che può appartenere al popolo come insieme di individui che perdono la propria potenza in favore di un’unità, ma deve appartenere alla moltitudine, che si configura come unico e vero soggetto in grado di agire politicamente in una convergenza di potenze individuali che affermano sé stesse.
Qualsiasi potere sovrano non può quindi mai avere potere illimitato, in quanto la sua azione è sottomessa al rispetto di un legame comune fondato sull’interesse: una comunità libera è una comunità che obbedisce solo a sé stessa, laddove l’obbedienza implica presenza attiva anziché passività timorosa, e coincide quindi con la libertà.
Porre la moltitudine disordinata come soggetto politico e radicalizzare il concetto di democrazia non significa illudersi e idealizzare il carattere e le virtù politiche di una grande massa di individui, ma riconoscere che la debolezza e i vizi che potrebbero derivare dalla sua espressione non dipendono dal molteplice in quanto tale ma dal fatto che esso sia composto da vari individuali che hanno la pretesa di farsi universali in quanto si concepiscono come entità isolate.
Prendendo coscienza della propria unione con la realtà tutta e con ogni creatura che la abita, è possibile far prevalere elementi di connessione in grado di rendere la moltitudine un luogo di relazione e scambio anziché un luogo di muta espressione singola.
Avere un approccio politico alla realtà, quindi trasformativo ed efficace, significa passare per l’affermazione e il riconoscimento delle differenti sfaccettature del reale. Agire politicamente significa prendere atto che la realtà non è ordinata o disordinata, buona o cattiva, giusta o ingiusta ma semplicemente una realtà che va affrontata con strenuo realismo e con la consapevolezza che la si può orientare solo se non ci si appella a concetti trascendenti la concretezza che affrontiamo con la nostra azione giorno per giorno.
Come la mente non può guidare il corpo dall’alto, così non ci si può appellare ad una ragione che promuova obiettivi ultimi ponendo una razionalità estrinseca che trascende il reale movimento democratico attraverso il conflitto.
Va da sé che non ci si può realisticamente aspettare un collettivo orientamento alla ragione da parte di ogni individuo, a meno che non si proponga una ragione che sotto tale termine nasconda un’ideologia dominante che schiacci la libertà di pensiero e l’autonomia individuale.
Compito etico della filosofia non è la creazione di un mondo di saggi, illusione utopistica che annullerebbe anche la necessità della politica stessa, ma una consapevolezza profonda del meccanismo del conflitto così da muovere all’azione della sua gestione al fine di inscriverlo dentro un sistema di rapporti ordinati.
Individui umani, possedendo la medesima natura, possono puntare a creare le condizioni migliori possibili solo abbracciando i conflitti e le differenze del corpo collettivo, così come nel singolo individuo un equilibrio è raggiungibile solo abbracciando le dinamiche delle passioni del corpo. Ciò non implica che il comportamento, umano e non, non possa essere regolato e indirizzato, semplicemente non è ciò a cui si può auspicare in maniera realistica.
Nonostante la diversità spinga verso il conflitto, il peggiore nemico per l’umano che esprime il proprio desiderio è sempre la solitudine, sicché l’autonomia diviene apertura anziché chiusura. La conoscenza, e al contempo la libertà, per l’individuo acquisisce un nuovo significato, divenendo conoscenza del reale e quindi degli altri enti naturali e degli altri individui, divenendo già conoscenza politica.
La democrazia è ora intesa come conoscenza: non ci sono valori e fini esterni, ma solo un’auto-perfezionamento della potenza della moltitudine attraverso un reale movimento di sottrazione alla schiavitù attraverso reti di cooperazione, resistenza, rivendicazione e conflitto con cui si difende la libertà.
Alla limitatezza dei singoli individui si oppone la razionalità collettiva, che attraverso una pratica di vita comune e della discussione produce effetti reali sul diritto e sulle istituzioni, che non possono a loro volta configurarsi come qualcosa di stabile e definitivo, in quanto il diritto naturale stabilisce la scelta continua di ciò che si ritiene essere un male minore o un bene maggiore.
La dimensione del diritto effettivo e reale diviene perciò prioritaria a quella della legge, che può essere il cuore pulsante di una cittadinanza politicamente attiva tanto quanto un insieme di macchie d’inchiostro su carta in una cittadinanza annichilita e atomizzata.
Il patto sociale hobbesiano, fondato sul rispetto di promesse invariabili, non ha alcuna forza se non in ragione dell’utilità, la quale è però principio in costante mutamento. L’obbligo dura, perciò, fintanto che la cittadinanza lo desidera, in una logica del consenso spinta alle massime conseguenze.
Lo sviluppo del bene comune diviene attività, processo concreto e attuale, verificato e vivificato continuamente in una democrazia che non esiste come sistema rigido di regole, come una particolare forma di governo sulle altre ma come pratica propria dell’individuo molteplice che si auto-organizza per sviluppare e accrescere la propria potenza e la propria libertà.
La limitatezza umana, con le sue pulsioni e i suoi desideri, non si configura più come limite allo sviluppo di un perfezionamento, individuale o politica che sia, ma ne diviene l’ausilio essenziale e necessario.
La perfezione si configura non più come raggiungimento di un obiettivo ultimo e immutabile ma si fa viva e concreta, sporcandosi di esperienza e materialità, di costruzione pratica attenta, resistente e dinamica.
[1] R. Descartes, Meditazioni metafisiche, Bari, Laterza, p. 45.
[2] utilizzo l’opera di Federici come spunto di ispirazione per la parte centrale di questo articolo, cogliendone le parti che riguardano il controllo del corpo per poi discostarmene nella riflessione puramente legata alla filosofia politica.
[3] S. Federici, Calibano e la strega, Sesto San Giovanni, Mimesis, p. 170.
[4] S. Federici, Calibano e la strega, Sesto San Giovanni, Mimesis, p. 173.
[5] Ivi, p. 174.
[6] Se da un lato si può leggere, come spesso il marxismo ha fatto, la credenza in poteri sovrannaturali come una variabile distraente rispetto ai meccanismi socio-economici del dominio sociale che attraversa la società, annichilendo l’azione politica in virtù di sentimenti di speranza cieca e impotenza, non possiamo ignorare come questo tipo di fede abbia altresì costruito spazi di costruzione e affermazione di realtà e comportamenti sociali alternativi a quelli imposti dai poteri centrali (per rimanere nel contesto, ricordiamo le sette dei valdesi, ma gli esempi possibili di figure che hanno trasformato la fede in uno strumento di liberazione e resistenza sono infiniti).
[7] S. Federici, Calibano e la strega, Sesto San Giovanni, Mimesis, p. 186.
[8] T. Hobbes, De Cive. Elementi filosofici sul cittadino, Torino, UTET, p. 205.
[9] Analisi marxiana che troviamo all’altezza di scritti come La questione ebraica e L’ideologia tedesca.
[10] il termine tedesco Bildung rimanda appunto al termine costruzione, edificazione. Paradigmatico del genere è il Wilhelm Meister di Goethe, in cui il protagonista devia dalla carriera che il padre commerciante aveva pensato per lui, seguendo le proprie illusioni giovanili per poi tornare sul cammino che era stato tracciato per lui.
[11] Nella trattazione che segue, utilizzo come riferimento e chiave interpretativa principale il testo Tumulti e indignatio. Conflitto, diritto e moltitudine in Machiavelli e Spinoza, F. Del Lucchese, edizione Mimesis.
[12] B. Spinoza, Trattato politico, V, 4.