Sabato 22 marzo 2025, nel corso del convegno “Quale università? Quale ricerca? Quale sapere? Per quale società?” – organizzato da Cambiare Rotta presso la facoltà di Ingegneria della Sapienza – si sono levate voci cariche di delusione, rabbia e frustrazione, ma anche di speranza. E proprio questa speranza, a parere di chi scrive, nasce dalla scena che si è presentata agli occhi dei partecipanti: un’aula gremita di studenti, ricercatori, dottorandi, professori (sia strutturati che precari) e sindacalisti. Soggettività diverse, spesso distanti tra loro, unite però dalla volontà di condividere studi, esperienze di lotta e riflessioni critiche, con l’obiettivo di smascherare e contrastare le contraddizioni che affliggono l’università contemporanea.
Non è possibile, in questa sede, riportare tutti gli interventi che si sono susseguiti durante l’incontro, ma mi muoverò tra quelli che ho ritenuto più significativi per costruire insieme una riflessione più ampia: una riflessione che tenti di spiegare perché sia necessario – oggi più che mai – rivendicare lo smantellamento di un sistema universitario corrotto e disumano.
Vulnerabilità e resistenza: studenti e docenti sotto il giogo del capitale
Durante il convegno, Chiara Giubilaro del CUIR[1] ha posto una domanda cruciale: “Cosa accomuna tutti noi?”. La sua risposta è stata netta: la vulnerabilità. Siamo tutti vulnerabili perché la logica del “capitale umano”[2] – l’impiego delle nostre capacità, conoscenze, esperienze per la crescita economica – nei fatti si traduce nella mera strumentalità di ciascuno rispetto a un sistema che ci sfrutta e ci logora. “Tale vulnerabilità non deve tradursi in rassegnazione, ma in lotta” conclude Giubilaro.
Ma cos’è, in realtà, l’università? E soprattutto, cosa dovrebbe essere? L’etimologia stessa della parola “studiare” – dal latino “studium”, ovvero meraviglia, ardore, cura, entusiasmo, desiderio – ci restituisce un’immagine radicalmente opposta a quella dell’università odierna. Chi, tra i lettori, si riconosce ancora in questa visione dello studente curioso, appassionato, desideroso di conoscere? Pochi, purtroppo. Oggi, molti studenti e ricercatori sono esausti, depressi, in burnout, schiacciati da un sistema che li spinge fino al limite, fino a gesti estremi. Come non ricordare lo striscione apparso l’anno scorso nel piazzale del Dipartimento di Milano (e non solo): “Non si può morire di università. Contro un merito che ci uccide!”?
Il mito tossico della meritocrazia ha portato a una competizione spietata tra studenti, alimentata da un sistema che si regge sul principio del “dividi et impera”. Gli studenti sono trattati come futuri lavoratori da inquadrare nei processi produttivi tramite un prodotto preconfezionato – la cosiddetta “offerta formativa” – il cui unico scopo è renderli competitivi sul mercato del lavoro. Non hanno voce in capitolo nella definizione dei programmi, non dispongono di spazi in cui esprimersi e non vengono considerati come soggetti attivi nella costruzione del sapere. A questa critica si è aggiunto Francesco Maria Pezzulli, sociologo e autore de “L’università indigesta”, che ha definito gli studenti “indigesti”, poiché costretti a ingurgitare una quantità infinita di nozioni, senza il tempo necessario per assimilarle, per adattarsi ai ritmi frenetici imposti dal capitalismo.
Ma gli studenti non sono le uniche vittime di questo sistema. Anche i docenti hanno perso il senso del loro ruolo, frammentato in tre figure contraddittorie: professore, impiegato, imprenditore. Intrappolati nella macchina burocratica, sono costretti a sacrificare i contenuti didattici in nome delle procedure, a orientare il loro lavoro in base ai questionari di soddisfazione compilati dagli studenti, a pubblicare in modo frenetico (“publish or perish”) e a rendere l’università competitiva per adempiere alla Terza Missione. Anche loro sono soli, gerarchizzati, schiacciati da un modello che li trasforma in funzionari del mercato anziché in guide intellettuali.
L’università neoliberale: come siamo arrivati a questo punto?
Il lessico economico – con i suoi crediti, debiti formativi, offerta didattica, competitività – ha invaso l’università, plasmando un’istituzione che dovrebbe essere dedicata alla cultura e al sapere. Ma come si è giunti a questa mercificazione dell’educazione?
Il primo passo verso il “capitalismo accademico” risale al 1980, quando negli Stati Uniti la legge Bayh-Dole permise alle università di brevettare e commercializzare scoperte realizzate con fondi pubblici. L’Italia, da brava ghiandaia imitatrice, ha recepito rapidamente le direttive del New Public Management reaganiano e thatcheriano.
Con la riforma Ruberti (1989)[3], il declino è stato inarrestabile: si è iniziato a parlare di autonomia finanziaria, efficienza, costi standard di produzione per studente, introducendo criteri di finanziamento basati su analisi comparative di costi e rendimenti, di produttività della ricerca e di gestione delle risorse pubbliche. Una svolta decisiva è stata realizzata dalla riforma “aziendalista” Berlinguer (1999)[4], che ha imposto la divisione tra lauree triennali e magistrali, moltiplicando i titoli di studio per creare ruoli professionali ad hoc e rendere l’università un’azienda al servizio del mercato. Berlinguer lo ha ammesso senza mezzi termini: “L’aziendalizzazione è necessaria per rendere gli studenti competitivi nel mercato del lavoro europeo”[5].
Nel corso del suo intervento, Lucia Donat Cattin (USB Scuola) ha sostenuto che questa divisione del percorso universitario ha portato all’equivalenza tra laurea triennale di oggi e diploma di vent’anni fa, e ha reso la magistrale un titolo d’élite, accessibile solo a chi può permetterselo. Infatti, solo 418.000 studenti sono iscritti a una magistrale, contro 1.200.000 alle triennali: meno della metà. “La cultura di massa non piace al capitale in crisi”, ha commentato amaramente.
I governi Berlusconi hanno completato l’opera: Moratti[6] ha fissato i CFU in 180 per la triennale e 120 per la magistrale, imponendo una gerarchia tra insegnamenti che ignora il reale desiderio conoscitivo degli studenti ed è funzionale alla riproduzione ideologica delle classi dirigenti; Gelmini[7] ha anticipato in televisione quanto la sua riforma avrebbe corrotto l’università, dichiarando come secondo lei l’università fosse fatta da “lauree inutili, come scienza della comunicazione e altre amenità umanistiche(…) e lauree utili, in materie scientifiche, che servono all’impresa”[8]. Coerentemente con questa riprovevole affermazione, Gelmini ha legato i finanziamenti universitari esclusivamente a parametri di mercato; ha messo fine al ruolo di ricercatore a tempo indeterminato, portando ad una precarizzazione totale dei ricercatori; e, dulcis in fundo, ha introdotto la Terza Missione: le università devono “interagire con il tessuto economico”, togliendo tempo e qualità alle uniche due vere missioni – la didattica e la ricerca – e trasformandole in merci. Momento formativo e momento lavorativo diventano così indistinguibili, tanto da poter sostenere una sostanziale equiparazione tra studenti e lavoratori precari. Le università sono diventate delle agenzie di formazione qualificate e gli studenti imprenditori di se stessi. Da qui, si è contabilizzato l’apprendimento in debiti-crediti, si è parlato di “carriera” e di formazione come un prodotto, non come un processo.
Il tossico trinomio: Meritocrazia, Eccellenza, Valutazione
Mentre gli studenti affondano nella depressione, mentre qualcuno muore sotto il peso di un sistema che schiaccia ogni aspirazione, lo Stato continua a ripetere il suo mantra: “Meritocrazia, Eccellenza, Valutazione”. Tre parole apparentemente virtuose, ma che nella realtà nascondono un meccanismo perverso di esclusione, sfruttamento e vuoto didattico. La “meritocrazia”, in teoria, dovrebbe premiare chi studia, chi si impegna, chi ha talento. Ma in un sistema che non garantisce pari condizioni di partenza, il “merito” è solo un alibi per perpetuare le disuguaglianze. Chi nasce in una famiglia benestante può permettersi ripetizioni, affitti in città universitarie, libri costosi, tempo per studiare senza dover lavorare. Chi invece proviene da contesti svantaggiati deve lottare contro precariato, debiti, mancanza di alloggi, ritmi di studio insostenibili. La meritocrazia è un sistema che premia chi è già avvantaggiato, non è giustizia sociale: è selezione di classe.
L’ “eccellenza”, nel linguaggio neoliberale, non significa alta qualità della didattica o della ricerca. Significa, invece, massimizzare i risultati con il minor investimento possibile; tagliare i fondi al personale precario; trasformare le lezioni in prodotti standardizzati. L’università diventa così una fabbrica[9] di crediti formativi, dove l’unica “eccellenza” riconosciuta è quella che produce dati statistici favorevoli, non menti critiche.
La “valutazione” dovrebbe misurare la qualità dell’insegnamento e della ricerca. Invece, si è ridotta a questionari di soddisfazione (compilati da studenti esausti, trattati come “clienti”); parametri di Terza Missione, cioè quanto l’università riesce a vendere conoscenza alle aziende o a brevettare scoperte; e pubblicazioni frenetiche, anche a costo di ricerche superficiali, pur di riempire curriculum. Insomma, un sistema che misura tutto, ma non ciò che conta. Questo trinomio Meritocrazia-Eccellenza-Valutazione serve a nascondere i tagli dietro una facciata di “efficienza”, a giustificare le disuguaglianze con la scusa del “merito”, a trasformare studenti e docenti in macchine da valutare, ottimizzare, scartare. Ma l’università non è un’azienda. Il sapere non è una merce. E noi non siamo capitale umano.
La militarizzazione della conoscenza
Nel momento in cui l’università abdica alla sua missione formativa per trasformarsi in un’azienda subordinata alle esigenze del mercato, il suo orizzonte si restringe inevitabilmente attorno ai settori più redditizi. Tra questi, il più lucrativo è senza dubbio quello bellico, che in Italia si incarna in colossi come Leonardo[10], Fincantieri[11] e Avio Aero[12]. L’università diventa così un ingranaggio del complesso militare-industriale: l’offerta formativa viene plasmata in base alle logiche bellicistiche, i finanziamenti si dirigono prevalentemente nei settori STEM, trasformati in uno strumento della guerra, e la ricerca viene totalmente asservita alla parola “difesa”. Risale proprio al 6 dello scorso mese l’articolo de la Repubblica dal titolo: «il “riarmo” porta nuova ricerca e il Politecnico è già al lavoro»[13]. Il proliferare di progetti di ricerca civili-militari (“dual-use”) e gli accordi tra i dipartimenti e lo stato genocida di Israele sono due delle manifestazioni più eclatanti dell’indissolubile legame tra università neoliberale e ideologia imperialista e guerrafondaia.
Nel marzo 2024, trecento docenti, ricercatori e membri del personale tecnico-amministrativo dell’università di Bologna hanno firmato una petizione con cui hanno richiesto l’interruzione immediata dei progetti di ricerca e collaborazione con il gruppo Thales e l’istituto israeliano Technion, perché ancillari rispetto al perpetrarsi del genocidio dei palestinesi e sintomo di una corresponsabilità dell’università di Bologna nelle violazioni dei diritti umani che ogni giorno si consumano nella striscia di Gaza. Da una parte, il gruppo Thales opera nel settore delle tecnologie aerospaziali, in quelle di difesa e sicurezza e nelle tecnologie di identificazione biometrica e di identità digitale. All’interno della petizione, i docenti mettono in evidenza – per dirne una – che “con la compagnia israeliana Elbit System, Thales produce il killer drone Hermes 450, utilizzato dall’esercito israeliano contro la popolazione civile e responsabile della strage dei sette volontari dell’Ong World Kitchen, avvenuta a Gaza il 3 Aprile 2024”[14]. Dall’altra parte, i presentatori della petizione reclamano indignati che l’istituto israeliano Technion è “un’istituzione cruciale per lo sviluppo delle tecnologie utilizzate dall’esercito israeliano contro i palestinesi in azioni regolari e diffuse di sorveglianza, furto di terreni, sfratti ingiustificati, restrizioni alla libertà di movimento e repressione violenta”[15]. Inutile dire che ad oggi questo collaborazionismo non si è fermato, nonostante si sia aperto un tavolo di discussione per una “ricerca etica”. Da marzo 2024 ad oggi, forse UniBo sta ancora cercando di capire cosa significhi “etica” o come far rientrare l’agevolazione del massacro di un’intera popolazione nel significato del termine.
Per restituire un’immagine complessiva della militarizzazione dell’università più antica del mondo, è inevitabile citare anche i rapporti instaurati tra UniBo e NATO. Nel 2023, l’università di Bologna ha partecipato all’esercitazione “Mare Aperto”, organizzata dalla Marina Militare italiana ma perfettamente inserita nel quadro degli interessi strategici della NATO nel Mediterraneo. Quest’operazione includeva simulazioni ad alto realismo, lotte contro minacce convenzionali e asimmetriche, raid su siti costieri d’interesse, esercitazioni di sicurezza marittima[16]. A questo si aggiunga la preoccupante cooperazione con NATO – ACT (il Comando Alleato Trasformazione della NATO), che, attraverso iniziative come NATO Model Event, istruisce gli studenti a discutere e decidere come reagire in uno scenario di crisi internazionale prefigurato. È così che Unibo si adopera per il “processo di innovazione della NATO”[17], preparando i ricercatori e gli studenti a giustificare le guerre imperialiste della NATO, spacciate per missioni di pace.
Per avere ancora più contezza di quanto la guerra sia una questione dirimente ancora – e soprattutto – oggi, guardiamo gli agghiaccianti dati offerti da Giulio Marcon della campagna Sbilanciamoci: l’Italia è il sesto esportatore mondiale di armi (4,3% del mercato globale), con un +138% tra il 2015 e il 2019. Armi vendute a dittature, mentre i governi si riempiono la bocca di parole come democrazia e libertà
E mentre la spesa militare è aumentata del 61% in 10 anni (ora è al 2% del PIL per rispettare gli impegni con la NATO), quella per università e ricerca è ferma a un misero 1,5% (uno dei più bassi d’Europa). Se l’Unione Europea deciderà di procedere con il ReArm Europe, la spesa militare italiana salirà almeno al 3% del PIL – il doppio di quanto si investe per università e ricerca[18]. Marcon ha mostrato cosa potremmo finanziare, invece: con i 130 milioni necessari per 1 solo cacciabombardiere F35 potremmo avere 6.500 residenze universitarie; con il miliardo necessario per un sottomarino sarebbe possibile assumere per 5 anni 8000 infermieri. Eppure, mentre l’Italia acquista 25 nuovi F35[19], nelle università mancano alloggi, gli affitti sono proibitivi e le condizioni di vita sono disumane.
Di fronte a tutto questo, la domanda è inevitabile: che università vogliamo?
Innanzitutto, per creare un’università diversa è necessario che i fondi statali non siano mai più asserviti alle logiche imperialiste nazionali ed europee. Dunque, vogliamo molti più fondi per università e scuola, per la stabilizzazione dei precari, per la costruzione di nuovi studentati, per un reale diritto allo studio. E, soprattutto, nemmeno un centesimo per il riarmo europeo.
Di fronte ad un’università che ci vuole intellettualmente amorfi, passivi, politicamente docili, rivendichiamo spazi di autogestione, una partecipazione attiva alla didattica, e la volontà di una conoscenza reale, conformata in base ai nostri desideri, non a quelli del mercato. Vogliamo una ricerca libera, avulsa dal mercato bellico e volta alla conoscenza in quanto fondamentale di per sé e necessaria per un avanzamento sociale e umano.
Ritengo che per realizzare queste rivendicazioni sia innanzitutto necessario svegliarci dall’incubo dell’impotenza.
Mark Fisher – in Realismo Capitalista – ha descritto la condizione studentesca con l’espressione “impotenza riflessiva”: pur consapevoli della situazione in cui versano, gli studenti subiscono in silenzio perché ritengono di non avere alternativa. Ed è questa mancanza di prospettiva che porta – a detta del filosofo – la realizzazione del classico fenomeno psicologico della profezia che si autoavvera. Invece di piegarci pedissequamente al potere che ci vuole ingranaggi ben oleati, iniziamo a esercitare il libero arbitrio e a colpire il sistema dello sfruttamento per creare una falla che possa far crollare tutto l’impianto. Mi vengono in mente mille frasi accorate per spingere chiunque legga a una qualsiasi mobilitazione, ma credo sia meglio lasciare la parola a Fisher stesso: “ogni politica di emancipazione deve puntare a distruggere l’apparenza dell’«ordine naturale», deve rivelare che quello che ci viene presentato come necessario e inevitabile altro non è che una contingenza, deve insomma dimostrare che quanto abbiamo finora reputato impossibile è, al contrario, a portata di mano.”[20]
Tengo però a dire un’ultima cosa, per restituire la complessità delle mobilitazioni e delle lotte che si stanno muovendo in questa direzione. Si ricordino, per esempio: le contro-manifestazioni di Potere al Popolo! del 15 marzo e del 6 aprile alle piazze guerrafondaie indette da Michele Serra, con la prossima manifestazione del 21 giugno contro il ReArm Europe (o, mutatis mutandis, “Readiness Europe”), contro la guerra e contro la NATO; lo sciopero del comparto della formazione del 4 aprile; le occupazioni che si stanno susseguendo in vari licei; le manifestazioni per la liberazione del popolo palestinese; lo sciopero del 12 maggio indetto da Assemblea Precaria. Tutti questi percorsi di lotta hanno dato il via ad una mobilitazione che apre le porte alla speranza di costruire davvero quest’alternativa.
Porte che stanno cercando – e forse riuscendo – a serrare con il Decreto Sicurezza, reso Decreto-legge[21] lo scorso 12 aprile con l’ennesimo colpo alle reni della democrazia. Atto che si propone il precipuo obiettivo di annichilire il dissenso, di imporre il silenzio con la minaccia delle carceri e di pene pecuniarie oltraggiose, facendosi beffe della nostra Costituzione antifascista. Mi chiedo, però, cosa spinge il governo a questa feroce repressione. Sarà mica la reazione a un sentimento di paura? E allora, forse, gli unici a non aver chiaro il ruolo determinante che giochiamo attraverso il dissenso e la lotta politica siamo noi.
Per questo, mobilitarci oggi non è un’opzione: è una necessità. Perché, vulnerabili e indigesti, solo uniti possiamo smantellare questo sistema.
Bibliografia essenziale.
F.M. Pezzulli, L’università indigesta, DeriveApprodi, 2024
M. Fisher, Realismo capitalista, Produzioni Nero, 2018
C. Palazzo, Il “riarmo” porta nuova ricerca e il Politecnico è già al lavoro, “la Repubblica”, 6 aprile 2025
A.M. Selini, La collaborazione tra l’Università di Bologna e il complesso militare industriale israeliano, “Altreconomia”, 19 giugno 2024
SIPRI (Arms Transfers Database, Military Expenditure Database); NATO (Defence Expenditure 2023); Eurostat (Education and R&D statistics); Commissione UE (European Defence Fund).
Cooperazione con NATO-ACT, Memorandum d’intesa tra l’Università di Bologna e il Comando Alleato Trasformazione. https://dsps.unibo.it/it/dipartimento/accordi-e-collaborazioni/cooperazione-con-nato-act.
G. Curcio, Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, https://osservatorionomilscuola.com/2023/10/05/dossier-unibo-universita-guerra/
[1] Coordinamento Universitario In Rivolta
[2] La nozione di “capitale umano” è stata coniata dall’economista neoliberale e premio Nobel nel 1992 Gary Becker. Non avendo lo spazio, in questa sede, per approfondire la questione, ci limitiamo a dire che Becker concepiva l’individuo come un agente economico razionale, che ha il compito di investire le proprie risorse al fine di aumentare la propria quantità di capitale umano, la quale, sommata al resto del capitale umano detenuto dagli altri componenti della società, produrrebbe un miglioramento del benessere della collettività nel suo complesso. L’effetto di questa teoria sulla concezione del lavoro nel pieno sviluppo della globalizzazione ha prodotto una giustificazione sia morale che economica ai processi di soppressione dei sistemi di protezione sociale. Per un approfondimento, si veda la lezione del 28 marzo 1979 nel corso “La nascita della biopolitica” tenuto al Collège de France da Michel Foucault.
[3] L. 168/1989, promossa dall’allora Ministro dell’Università e della Ricerca Antonio Ruberti (governo Andreotti VI)
[4] L. 508/1999, promossa dall’allora Ministro dell’Università e della Ricerca Luigi Berlinguer (governo D’Alema I)
[5] Intervista a Giovanni Berlinguer, “la Repubblica”, 01 aprile 1998
[6] Decreto 270/2004, promossa dall’allora Ministra dell’Università e della Ricerca Letizia Moratti (Berlusconi II)
[7] L.240/2010, promossa dall’allora Ministra dell’Università e della Ricerca Mariastella Gelmini (Berlusconi IV)
[8] Trasmissione Rai, Ballarò (gennaio 2011)
[9] Di qui la pubblicità “Sapiens, Fabbrica di saperi”
[10] 9,3 miliardi di fatturato, 32.000 dipendenti
[11] 4,2 miliardi, 10.000 occupati
[12] 1,1 miliardi, 4.000 addetti
[13] C. Palazzo, Il “riarmo” porta nuova ricerca e il Politecnico è già al lavoro, “la Repubblica”, 6 aprile 2025
[14] A.M. Selini, La collaborazione tra l’Università di Bologna e il complesso militare industriale israeliano, “Altreconomia”, 19 giugno 2024
[15] Ibidem
[16] G. Curcio, Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, https://osservatorionomilscuola.com/2023/10/05/dossier-unibo-universita-guerra/ Per un approfondimento sugli altri progetti organizzati da Unibo con la NATO guardare il sito indicato
[17] Cooperazione con NATO-ACT, Memorandum d’intesa tra l’Università di Bologna e il Comando Alleato Trasformazione. https://dsps.unibo.it/it/dipartimento/accordi-e-collaborazioni/cooperazione-con-nato-act. Per approfondire altri progetti organizzati da Unibo con la NATO guardare il sito indicato
[18] Fonti: SIPRI (Arms Transfers Database, Military Expenditure Database); NATO (Defence Expenditure 2023); Eurostat (Education and R&D statistics); Commissione UE (European Defence Fund).
[19] DPP (Documento Programmatico Pluriennale per la Difesa) 2024-2026
[20] M. Fisher, Realismo capitalista, Produzioni Nero, 2018, pag. 51
[21] Decreto-legge 11 aprile 2025, n. 48