Era il 2014 e avevo dodici anni quando regalarono a mia sorella un CD stranissimo: la copertina recava una massa di capelli ricci e neri sulla sommità di un alberello davanti al mare, come a fare da chioma; intorno, alcuni animali (dell’arca di Noè?) osservavano questa strana pianta circondata da una corona di luce (lo spirito santo?), mentre il mare si spaccava in due lasciando intravedere l’orizzonte (Mosè? Le acque del mar Rosso?). Il titolo era anch’esso particolare: Museica, il museo, la musa, o le due cose assieme. Ed infatti quell’album era proprio un museo, si capiva fin dalla canzone introduttiva, la Canzone all’entrata, un ammonimento alla libertà e alla scorrettezza dell’album. Nei titoli delle canzoni, espliciti e impliciti riferimenti al mondo delle arti visive, a grandi artisti, a correnti famose come il dadaismo. Chi diamine è l’autore di questo concept album così allucinato? Caparezza. E chi è?- pensai. Un rapper, anche se nessuno ormai lo chiama più così. Mio padre ridacchiò, accostandolo istintivamente ai suoi pezzi più inflazionati di inizio anni 2000, Fuori dal Tunnel su tutti. Ma il museo mi aveva rapito, e rientrai subito per passeggiare e perdermi tra le tele-canzoni. Il primo contatto con la profondità della musica di Caparezza era avvenuto.
Capisco perfettamente che tutto ciò può sembrare altisonante, decisamente troppo. Il nome è buffo, capa-rezza, la “testa riccia”; è un rapper, e il rap ha quasi sempre qualcosina di cringe, anche per noi che ci siamo cresciuti in mezzo. La voce nasale, questi motivetti strani, l’immediata associazione al ritornello tarantellato di Vieni a ballare in Puglia: per gli adulti è un piacevole passaggio in radio, per molti tra noi un guru conosciuto al massimo superficialmente, cui guardare con un minimo di distacco per la pesantezza dei testi e delle canzoni. Un po’ a metà insomma, non un rapper di quelli classici e neanche un musicista che si possa separare completamente dall’hip hop. Ma se cerchiamo di abbandonare i vari topoi musicali che consideriamo gusto personale (e che spesso sono invece abitudine), le canzoni, gli album e i testi di Caparezza aprono una botola verso più profonde stratificazioni di significato. Non che debba piacere per forza, ovviamente, né deve essere universalmente considerato geniale: questo che state leggendo è un semplice esercizio di sguardo suggerito da un fan di lunga data, cioè io, perché si possano apprezzare assieme i significati che Caparezza dissemina nei suoi brani.
Dovremmo restare qui un bel po’ per completare quest’opera. È chiara la “svolta interiore” che la discografia di Capa sta prendendo, almeno da Prisoner 709, con un maggiore fuoco sul suo percorso e su argomenti più introspettivi che pure lo hanno sempre accompagnato (Capa sente di stare invecchiando e diventa sempre più “brontolone”? La politica lo ha deluso particolarmente?). Ciò che mi interessa sottolineare qui e ora è piuttosto un certo carattere delle sue canzoni, anche di quelle meno esplicite, che talvolta è negletto o ridimensionato per comodità intellettuale: il loro carattere politico. Wikipedia afferma che Caparezza «è di tendenza politica comunista», probabilmente esagerando un po’ grossolanamente certi aspetti del suo modo di vedere il mondo e la società. Forse è vero, anche se Capa, da quel che so, non si è mai esplicitamente definito tale. Ad ogni modo, nelle sue canzoni emerge una profondissima consapevolezza della realtà di classe, specificamente di quella italiana, e delle sue problematiche sociali, trattate spesso con grande radicalità. Non pretendo esaustività, né di trasformare Caparezza in un eroe del proletariato, ma solo di condividere qualche elemento per vederlo con occhi diversi: e andate a recuperarvi dischi e canzoni, spaccano.
Caparezza era partito da Molfetta, in Puglia, a metà degli anni ’90, per studiare belle arti a Milano, dove aveva sperimentato l’infame antimeridionalismo che in quegli anni veniva peraltro alimentato dalla Lega Nord, il partito populista di estrema destra nato qualche anno prima: a questa realtà è consacrato l’ironico Inno Verdano, in cui Caparezza prega di poter entrare a far parte dello stato della Verdania, cioè la Padania secessionista di Umberto Bossi, che entra anch’egli implicitamente nell’inno (All’inizio quel tizio che s’attizza al comizio / pare un alcolista alla festa di San Patrizio). Anche l’inflazionatissima Vieni a ballare in Puglia contiene, tra gli altri elementi, un nerbo di critica all’atteggiamento tipicamente nordico nei confronti dei pugliesi, simboleggiato dal turista vacanziero coi sandali che osserva e idealizza superficialmente una regione piagata dall’inettitudine dei politici, degli imprenditori e dalla mafia. Tutto ciò accompagnato da una strumentale vicina alla tarantella, un richiamo sì alla tradizione pugliese, ma anche all’origine di quel tipo di danza, ispirata alle convulsioni malate di chi era morso dalla tarantola: danzando ci si libera dal male, si tramandava. La canzone di per sé è una critica evidente alla politica regionale e nazionale, alla mala edilizia, alla distruzione del paesaggio e dell’ambiente (l’Ilva di Taranto come esempio eminente), oltre che alla mafia, ed era questo l’aspetto critico che interessava al suo autore; il pubblico più mainstream e persino le radio lo oscurarono spesso e volentieri, riproducendo solo il ritornello simpatico e incalzante per nascondere, coscienti o no, la tragicità del brano.
Vieni a ballare in Puglia è il brano più famoso dell’album del 2008, Le dimensioni del mio caos, il mio preferito: consiglio di ascoltarlo dall’inizio alla fine, perché è un concept album incentrato sulla società italiana del 2008, con le dovute trasformazioni liriche e artistiche, puntellato da skit e racconti teatrali. Una ragazza, Ilaria (sì, quella di Ilaria Condizionata) viene catapultata in un “varco spaziotemporale” dal 1968 al 2008 ed incontra Caparezza, attraversando con lui e senza di lui l’Italia del governo Berlusconi III. Naturalmente, c’è il tema del ’68 tradito (o realizzato?): in Ilaria Condizionata, la protagonista in poco tempo si trasforma in una giovane adulta moderna e stereotipica, frivola e superficiale, drogata dalle prime apparizioni dei social network e dalle sirene del consumismo, con le relative contraddizioni della società del 2000 (L’hanno vista al corteo con la maglia del Che /Urlava, “No, alla vostra mercé” / Mentre ingoiava cioccolata Nestlé). Tra questa e la tarantella pugliese, La Grande Opera. Nella narrativa del disco, il nuovo marito di Ilaria deve costruire lo “spazioporto pugliese” una grande opera infrastrutturale di quelle che garantiscono uno sbocco di capitale verso le tasche di mafiosi e imprenditori abbottonati con la politica. Tutti la vogliono, è l’opera della provvidenza: una grande opera / macchina economica / che i massoni rifocillerà / È la grande opera / stupido chi sciopera / quante bastonate prenderà / Grandi opere che iniziano / ma che non finiranno mai. Stupido chi sciopera: e il terzo personaggio di questo viaggio, introdotto solo dopo qualche canzone, si chiama Luigi delle Bicocche, un nome nobile per una vita immiserita ma eroica. Fa il muratore, ed è verosimilmente la controparte del padre di Caparezza, Giovanni. In un’epoca di progressiva distruzione dei diritti dei lavoratori, in un’epoca di precariato sempre più istituzionalizzato, è lui l’eroe a cui tutti dobbiamo la nostra libertà: Eroe (Storia di Luigi delle Bicocche) è il capolavoro di Caparezza. La costruzione musicale della canzone, il canto lirico di sottofondo, l’intro di tromba da marcia militare, gli accordi malinconici, il testo, tutto restituisce la profonda difficoltà esistenziale di una condizione di sfruttamento e di precarietà: Su, vai a vedere nella galera / Quanti precari sono passati a malaffari / quando t’affami ti fai nemici vari. Tra gli altri, il richiamo al call center sembra una eco de Il mondo deve sapere di Michela Murgia, uno dei racconti fondanti della sottocultura (e ormai cultura) del precariato. Ma allo stesso tempo c’è la forza, la resilienza, la capacità di ribaltare questa situazione. Una trasfigurazione eroica: Sono un eroe perché lotto tutte le ore / Sono un eroe perché combatto per la pensione / Sono un eroe perché proteggo i miei cari / Dalle mani dei sicari, dei cravattari. E poi un richiamo interessante in fine di ritornello: Ti mostrerò che cosa so fare con il mio superpotere; quale superpotere? La semplice forza individuale o qualcosa di più?
Cerco di avvicinarmi ad una sorta di conclusione, ma desidero menzionare qualche altro brano che potrebbe stimolare la sensibilità politica degli ascoltatori. Caparezza s’è sempre occupato tematicamente della vanità dei media e del loro sempre progressivo scadimento nella più totale superficialità: Io diventerò qualcuno è la riproposizione capovolta del costituente Partito dell’Uomo Qualunque, che dalla “normalità” ricercata al di là dei partiti tradizionali post 1945, passa nel brano alla gloria ricercata spasmodicamente e a qualunque costo attraverso la fama mediatica, dall’Uomo Qualunque all’Uomo Qualcuno. Ma questa fama mediatica sarà comunque oggetto di un monopolio economico e contenutistico, come emerge da The Auditels Family (Habemus Capa, 2006): Noi decidiamo chi va in onda / E chi va al diavolo / i conduttori ci invocano / Con i palmi sul tavolo. Pubblicità, programmi spazzatura e un monopolio (persino familiare, vero Mediaset?), in una canzone con un clima vittoriano da fantasmi evocati, visibili ed invisibili, presenti e non presenti ma comunque agenti nel mondo dei vivi. Ma non pare essere solo la televisione o il sistema dei media: è la borghesia – qualunque cosa significhi oggi – ad essere il bersaglio tematico del primo Caparezza; nella sua avidità cieca d’accumulazione, come in Ninna nanna di Mazzarò, dove il personaggio di Verga diventa la costante della vita del protagonista della canzone, una personificazione del capitalismo dal quale bisogna guardarsi (Ninna nanna, ninna nò, sta arrivando Mazzarò / Resta sveglio che sennò, porta via quello che può). Nella sua vanità ed eccessività pasoliniana, come nel matrimonio fastoso di Felici Ma Trimoni (gioco di parole col pugliese trimone, stupido o idiota), la messa in scena di un moderno matrimonio combinato non su base familiare ma patrimoniale tra un ricco e viscido imprenditore e la superficiale figlia di un altro imprenditore: Caparezza è il prete che osserva e celebra la fetida unione. La Chiesa Cattolica ritorna ironicamente in Messa in Moto, dove il vero Dio sgrida l’istituzione ecclesiastica e le pratiche vetuste e pompose dei fedeli su una strumentale rockeggiante, per poi sgommare via in motocicletta. Non siete stato voi è un’accusa diretta alla classe politica, al suo marciume e alla sua corruzione, sulla quale non mi dilungo perché è di per sé molto esplicita (Non siete Stato voi / Col busto del duce sugli scrittoi / E la costituzione sotto i piedi, onorevole La Russa è lei?).
Insomma, gli spunti sono numerosi, e ne ho lasciati fuori molti per non annoiare. Sono andato ad impressioni, senza seguire un ordine cronologico preciso, rischiando magari di fare un po’ di confusione. Il mio consiglio è ovviamente di ascoltarsi le canzoni, ma più gli album interi: certi sono davvero delle opere narrative da seguire nel loro svolgimento, come nel caso di Museica. La musica ci può dare qualcosa di più del semplice sollazzo auditivo. Caparezza è sempre stato considerato un rapper “elevato” e talentuoso per i suoi incastri e le sue rime pregne di contenuto. Ma se è questo che pensiamo, allora facciamo il passo in più: osserviamo, nei suoi brani, cosa dice, cosa critica, a chi fa riferimento, quali sono i suoi modelli. Non è un’operazione del tutto semplice, perché sia chi legge queste parole, che chi le ha scritte c’è dentro fino al collo. Ma si parte dalle piccole cose no? Perché non cominciare quantomeno dalla musica?
Jean Cujun